Al varco dell’Oriente

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Vanni Veronesi

18 Aprile 2017
Reading Time: 7 minutes
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San Marco in FVG

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Brandelli di notizie

«Allora Gesù disse loro: “Come contro un brigante, con spade e bastoni siete venuti a prendermi. Ogni giorno ero in mezzo a voi a insegnare nel tempio, e non mi avete arrestato. Si adempiano dunque le Scritture!”. Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono. Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo». Così il Vangelo di Marco (14, 48-52), il più antico dei quattro, descrive l’arresto di Gesù nell’orto del Getsemani; assente in Matteo, Luca e Giovanni, il ragazzino è stato identificato da alcuni studiosi con lo stesso evangelista. Vera o meno che sia, l’ipotesi si incastra con un altro dato: in Atti degli Apostoli 12, 12 si ricorda che nella casa di Marco, o meglio dei suoi genitori, si riunivano gli apostoli dopo la resurrezione di Cristo, poiché – stando al De situ Terrae Sanctae (p. 141)  dell’arcidiacono Teodosio – lì si sarebbe svolta l’Ultima Cena, nonché la discesa dello Spirito Santo durante la Pentecoste. Quest’ultimo evento, raccontato in Atti 2, 1-4, spingerà i primi testimoni di Cristo a uscire dalla clandestinità e a iniziare la predicazione della ‘buona novella’: fra loro ci sarà anche Marco, giovane cugino dell’apostolo Barnaba. Ed è da qui che comincia la nostra storia.

Fra Pietro e Paolo

In ogni grande vicenda di fede c’è un momento di crisi: per Marco, compagno di S. Paolo nel suo primo viaggio missionario, è l’arrivo a Perge, sulla costa meridionale della Turchia. La prospettiva di una vita dedita al proselitismo lo fa tornare a Gerusalemme; così, quando Barnaba propone di richiamare Marco per il suo secondo viaggio missionario, la risposta è glaciale: «Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro […] e non aveva voluto partecipare alla loro opera.

Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro; Paolo invece scelse Sila e partì […]» (Atti 15, 38-40). La frattura si ricompone a partire dal 61 d.C., quando Paolo, che sta scontando la sua prima prigionia a Roma, in Colossesi 4, 10 nomina Marco fra i pochissimi «che hanno collaborato con me per il regno di Dio e mi sono stati di consolazione »: il futuro evangelista è dunque nella capitale dell’Impero, in quel momento guidato da Nerone. Uno o due anni più tardi lo ritroviamo accanto a S. Pietro, sempre nell’Urbe: nella prima epistola il futuro papa lo definisce «figlio mio» (5, 13), tanta è la vicinanza fra i due. Ma nel 64 le circostanze portano Marco a tornare in Oriente: in seguito a un grave incendio che manda in fumo mezza Roma, l’imperatore «fece passare per colpevoli e sottomise a torture raffinate coloro che per i loro delitti il popolo detestava e chiamava Cristiani» (Tacito, Annali, XV 44). Nel 66, durante la sua seconda prigionia, Paolo scrive a Timoteo (II 4, 11), reggente della chiesa di Efeso, per chiedergli di venire a Roma e portare con sé Marco. Ma ormai è tardi: dopo la comune detenzione all’interno del Carcere Mamertino, il 29 giugno del 67 Paolo viene decapitato alle Aquae Salviae, dove oggi si estende il complesso abbaziale delle Tre Fontane, mentre Pietro viene crocifisso a testa in giù presso il Vaticano, laddove sorgerà, secoli dopo, la basilica più importante del mondo.

La morte dei due futuri santi lascia un vuoto nelle prime comunità cristiane; a colmarlo è proprio Marco, intraprendendo la scrittura della «buona novella di Gesù Cristo, figlio di Dio»: nasce così il primo Vangelo della storia, base di partenza per gli stessi Matteo e Luca, mentre Giovanni farà storia a sé. Meno di un secolo dopo, i quattro evangelisti saranno così famosi che Ireneo di Lione (130 – 202), nel suo Contro gli eretici, li identificherà nelle quattro figure attorno al trono celeste descritte in una delle visioni dell’Apocalisse (4, 6-7): «Intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni d’occhi davanti e di dietro. Il primo vivente era simile a un leone, il secondo aveva l’aspetto di un vitello, il terzo aveva l’aspetto di un uomo, il quarto era simile a un’aquila mentre vola». Marco è appunto il leone, poiché il suo Vangelo si apre con la vox clamantis in deserto di Giovanni Battista, che si leva come un ruggito.

La leggenda medievale

Anno del Signore 828. Due mercanti veneziani sbarcano ad Alessandria d’Egitto per fuggire da una tempesta: si chiamano Bono da Malamocco e Rustico da Torcello. Di fronte alla situazione precaria dei cristiani nella città ormai islamizzata, decidono di compiere un gesto estremo: trafugare il corpo di San Marco, sepolto proprio nella metropoli egizia, e trasferirlo nella sicura Venezia, sorta quattro secoli prima e già diventata potenza marittima. Con l’aiuto dei due custodi greci, Saturanzio e Teodoro, ben felici di fuggire dalle razzie e dalle violenze del Califfo, viene quindi forzato il sepolcro, estratto il corpo e posto in una cesta, ricoperto da foglie di cavolo e quarti di maiale: un ottimo stratagemma per ingannare i controlli delle guardie musulmane, che infatti si ritirano immediatamente alla vista della carne, ritenuta impura. Arrivate in una Venezia entusiasta, le spoglie dell’evangelista vengono poste all’interno di Palazzo Ducale, mentre inizia da subito la costruzione della Basilica che ancora oggi porta il suo nome. Si avvera così, quasi otto secoli dopo, la profezia dell’angelo che, secondo la leggenda, sarebbe apparso a Marco, approdato sulle isole della laguna durante un viaggio da Aquileia a Ravenna, e gli avrebbe detto: Pax tibi Marce Evangelista meus, hic requiescet corpus tuum, «Pace a te o Marco, mio Evangelista, qui riposerà il tuo corpo».

Questa vicenda, assieme ad altre riguardanti 182 santi, è narrata nel più celebre best seller del Medioevo: la Legenda Aurea, capolavoro in latino di Iacopo da Varazze (1228 – 1298), che con le sue 1.400 copie manoscritte, le sue dieci versioni in italiano, diciotto in alto tedesco, sette in basso tedesco, diciassette in francese, quattro in inglese, tre in ceco e dieci in olandese, ha letteralmente spopolato in tutta Europa. Secondo Iacopo (cap. 59) «Pietro, vedendo Marco saldo nella sua fede, lo destinò ad Aquileia, dove, predicando il verbo di Dio, convertì alla fede in Cristo un numero incalcolabile di persone. Si dice, inoltre, che lì abbia scritto il suo Vangelo: ancora oggi è esposto nella chiesa di Aquileia ed è oggetto della devozione che merita. Ancora in qualità di beato, Marco inviò da Pietro, a Roma, il cittadino aquileiese Ermacora, che aveva convertito alla fede in Cristo, affinché Pietro lo consacrasse vescovo di Aquileia. Perciò, avendo ottenuto Ermacora l’ufficio del vescovado, con il quale avrebbe governato ottimamente la chiesa aquileiese fino alla cattura da parte dei pagani e al suo martirio, Marco fu inviato ad Alessandria d’Egitto dal beato Pietro e laggiù predicò per primo il Verbo di Dio». Ed ecco che il cerchio si chiude: ma se la storia di Ermacora (e del suo diacono Fortunato) è descritta nei dipinti della Cripta degli Affreschi, all’interno della Basilica di Aquileia, che fine ha fatto il mitico manoscritto ancora noto ai tempi della Legenda Aurea?

L’Evangeliario Forogiuliese

Quel libro esiste ancora, ma è stato scritto 500 anni dopo la morte di Marco: particolare importante solo per noi moderni, perché ancora nel XVII secolo era, per tutti, il Vangelo redatto dal Santo in persona. Forte di questo prestigio, per secoli fu oggetto di venerazione: fra le sue pagine sono ancora leggibili le firme dei pellegrini medievali, venuti da ogni dove per ammirare il manoscritto e proseguire la loro visita a San Canzian d’Isonzo, dov’erano sepolti i martiri Canzio, Canziano e Canzianilla, uccisi nel 304 assieme a Proto e Crisogono. Oltre alla gente comune, non mancano i messaggi dei prìncipi e sovrani europei che, dal Medioevo all’Età Moderna, hanno messo le mani sulla più preziosa reliquia del Patriarcato di Aquileia: da Carlo IV di Lussemburgo (1316 – 1378), Sacro Romano Imperatore, a Francesco I d’Austria (1768 – 1835). Il volume è oggi conservato nella Biblioteca del Museo Archeologico di Cividale, città che lo ospita dal Quattrocento: per questo è detto Evangeliario Forogiuliese (ms. CXXXVIII).

Il manoscritto, il più antico fra quelli conservati in Friuli Venezia Giulia, secondo gli ultimi studi fu vergato a Ravenna negli anni della conquista di Giustiniano, imperatore di Bisanzio dal 527 al 565. Compilato in una meravigliosa scrittura detta ‘onciale’, riporta il Vangelo di Luca, di Matteo e di Giovanni nella versione latina di S. Girolamo, la cosiddetta Vulgata: quello di Marco, proprio in virtù del suo immenso valore simbolico, nel 1420 fu staccato dai Veneziani e portato nella loro Basilica (dove si trova tuttora), subito dopo la conquista del Friuli. Dal punto di vista testuale, l’Evangeliario è ancora tutto da scoprire: l’ultima edizione critica della Vulgata (Weber – Gryson, 1994), fondata su oltre 70 manoscritti, non lo prende nemmeno in considerazione, nonostante sia accreditato come uno dei testimoni più fedeli della Bibbia latina di Girolamo. Confrontandolo in alcuni passi con l’edizione Weber – Gryson, in effetti, le sorprese non mancano: non di rado il codice cividalese si discosta dal testo comunemente accettato e lo migliora sensibilmente. Emblematico Matteo 1, 24, dove la congiunzione ergo, ‘dunque’, spiega meglio di autem, ‘appunto’, la conseguenza del sogno di Giuseppe: dopo che un angelo del Signore gli aveva ordinato di prendere in sposa Maria, egli si svegliò e «dunque» fece quanto richiesto da Dio. Ma al di là delle questioni filologiche, sfogliare l’Evangeliario Forogiuliese è una esperienza impagabile: un tuffo nella storia e nella leggenda in quel Friuli che, anche grazie alla predicazione cristiana di Marco, è stato porta dell’Occidente e varco per l’Oriente.

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