Una cinica idealista

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Giuliana Dalla Fior

5 Novembre 2015
Reading Time: 8 minutes

Desirée Pangerc

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Si definisce “idealista cinica”: è una voce di ponderato, consapevole realismo; è pure voce di protesta e di critica con indiscussa autorevolezza: è una giovane valente e competente antropologa, docente di Antropologia dello Sviluppo e di Sociologia della Criminalità e delle Emergenze, autrice di diverse pubblicazioni, dedita alla ricerca con passione e rigore. Ecco perché in un momento in cui il flusso dei “migranti” è realtà quotidiana, fonte di problemi civili, politici e di coscienza, abbiamo intervistato Desirée Pangerc.

Dottoressa Pangerc, quali motivazioni l’hanno indotta, dopo la laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche, a scegliere di specializzarsi in antropologia applicata, dello sviluppo, della sicurezza e di sociologia delle emergenze?

«Ho sempre amato l’antropologia per cui, appena il mio professore universitario mi chiese di diventare sua cultrice della materia, accettai di buon grado. Da lì, ottenni un posto come Dottore di Ricerca in Antropologia ed Epistemologia della Complessità presso l’Università degli Studi di Bergamo: avevo già preparato un progetto di analisi delle rotte migratorie che confluivano in Friuli Venezia Giulia, grazie soprattutto ai preziosi suggerimenti e alla collaborazione con l’allora Procuratore Anti-Mafia Nicola Maria Pace e il mio Titolare di Cattedra, professor Antonio Luigi Palmisano. Da quel momento in poi, la ricerca è divenuta il fulcro della mia vita e non mi sono mai accontentata di scoprire nuovi percorsi antropologici: ecco perché ho cercato e trovato possibilità di  specializzazione in Germania, Danimarca, Portogallo, unite all’esperienza maturata sul campo in Bosnia Erzegovina per due anni come Programme Officer dell’Ufficio Tecnico Locale dell’Ambasciata italiana a Sarajevo».

Docente universitaria, esperta europea sulle questioni migratorie e sul crimine transnazionale. Quali gli aspetti più faticosi e quali quelli più gratificanti del suo lavoro?

«La difficoltà maggiore è trovare il tempo e i fondi finanziari per la ricerca pura, ricerca che in Italia purtroppo non è riconosciuta come lavoro. Per questo ho passato anni in cui mi accaparravo due o tre contratti, sempre inerenti ad attività legate al fenomeno migratorio, per poter poi viaggiare perlopiù nei Balcani e passare così il periodo “vacanziero”. Ricercando».

A proposito delle sue ricerche, emigrazione e criminalità transnazionale vanno di pari passo?

«Le migrazioni illegali spesso vanno di pari passo con quelle che sono state chiamate, all’inizio degli anni Novanta, le “Nuove Mafie”. Per migrazioni illegali intendo sia quelle in cui c’è un iniziale consenso tra migrante e organizzazione criminale, come nel caso dei clandestini, sia le cosiddette “migrazione forzate”, dove le vittime – specialmente donne e bambini ma anche giovani uomini sani destinati allo sfruttamento lavorativo o, peggio, al traffico di organi – sono reclutate dalle mafie nel Paese di origine. Attualmente è necessario aggiungere all’interno del termine generico “migrante” anche i profughi, siriani e non, facile preda di aguzzini senza scrupoli, aguzzini per i quali le persone non sono niente altro che merce».

Tra le sue pubblicazioni il testo Il traffico degli invisibili. Migrazioni illegali lungo le rotte balcaniche (Bonanno Editore, 2012). Perché “invisibili”?

«“Invisibili” innanzitutto perché di traffico di persone se ne inizia a discutere seriamente appena ora, nonostante i vari Protocolli delle Nazioni Unite, le direttive europee… Per me è molto difficile reperire testi, dal 2005 al 2010, sullo human trafficking. Invisibili perché le nuove mafie li nascondono nei container, in bunker sotterranei, nelle grotte carsiche… Invisibili perché le organizzazioni criminali trattengono i loro documenti d’identità, per cui, anche qualora riuscissero a scappare, non sarebbero “nessuno”. Invisibili perché fino a qualche mese fa c’era un morboso interesse mediatico per le rotte marittime (più impattanti sul pubblico) mentre del continuo flusso che è proseguito in questi anni si ignorava o se ne voleva ignorare l’esistenza. Ora, con l’emergenza umana siriana e non solo, non si può più parlare di invisibilità del fenomeno… nonostante molti preferiscano ancora voltare la testa dall’altra parte».

Più volte lei ha asserito che i sentieri del traffico degli “invisibili” passano attraverso “confini porosi”. Tra muri, fi lo spinato, lunghe marce a piedi, mezzi di fortuna, treni presi d’assalto, oggi come definirebbe i confini?

«Artificiali, dettati da decisioni politiche. D’altronde è ben noto che le attività degli operatori di sicurezza, anzi, addirittura lo stesso concetto di “sicurezza”, dipendono dall’agenda politica».

Per i migranti i “confini” sono una tragedia, eppure continuano a valicarli a qualsiasi costo, a qualsiasi prezzo, sia di denaro sia soprattutto di vite umane. Quale la discrepanza tra la volontà politica e la sensibilità della società civile?

«Ho potuto constatare che dipende dalla cosiddetta “cultura dell’accoglienza” o, se vogliamo, da quel principio di solidarietà che caratterizza le reti sociali. Per questo mi sento di dire che, soprattutto nei Balcani, vi è una forte discrepanza tra il respingimento dei profughi che proviene da decisioni politiche e l’aiuto che le famiglie di quei Paesi offrono. Paradossalmente, ho percepito più solidarietà civile in Paesi più poveri del nostro che in Italia, dove l’opinione pubblica è spaccata in due. Sarà che in quei Paesi il ricordo della guerra è molto recente, sarà che noi siamo di memoria corta. Nel mio testo e nelle mie conferenze o lezioni analizzo il fenomeno migratorio, eppure ciò che dico spesso viene utilizzato e manipolato in una presa di posizione politica. Così non è: mi ritengo una ricercatrice seria e rigorosa, quindi altrettanto rigorosamente ricerco e non mi passa proprio per la testa di fare propaganda».

Tra diffidenza, rassegnazione, partecipazione all’accoglienza qual è il sentimento più diffuso tra le genti d’Europa?

«Credo che tutta la società civile europea sia scissa tra sentimenti contrastanti. Di certo i media non aiutano in questo, veicolando spesso informazioni non vere, non verificate se non addirittura volutamente manipolate».

La sua attività la pone a contatto con il reato di riduzione in schiavitù e contrabbando di persone: “vittime” sono soprattutto le giovani donne.

«Ho lavorato in centri di recupero per le vittime sia in Italia che nei Balcani e lì ero a contatto, come donna, con donne… ma anche con minori. Ora tuttavia vengono trafficati più maschi giovani e sani per sfruttamento lavorativo o traffico d’organi: quindi non si possono svolgere serie attività di recupero se non si tiene conto che anche gli uomini fanno parte di quei “gruppi vulnerabili” che dovrebbero essere tutelati».

Quali sono i Paesi più implicati nel reato del traffico d’organi?

«È un sub-fenomeno del traffico di persone: per cui tutti i Paesi implicati nella riduzione in schiavitù di esseri umani sono implicati anche nel traffico d’organi. La difficoltà per gli operatori giudiziari è quella di trovare prove concrete di questo traffico».

Molti capi di stato hanno affermato che il flusso migratorio durerà decenni. A suo parere la volontà politica di arginare il fenomeno come e dove potrebbe intervenire?

«Più che arginarlo, dovrebbe iniziare a gestirlo. Qualche settimana fa il Ministero dei Rifugiati e per il Rimpatrio del governo afgano ha iniziato una campagna di sensibilizzazione verso i propri cittadini, lanciando il messaggio di non partire, visti i costi in termini di vite umane che questo viaggio disperato comporta e i benefici che le organizzazioni criminali traggono da questo business illegale, ma di restare. D’altronde, se un Paese è in pieno conflitto e i civili non vengono tutelati, è assolutamente umano che cerchino di sopravvivere scappando in modo lecito o illecito. Da parte nostra, vedo un immobilismo nel riformare l’iter di identificazione di un migrante – iter che dura quasi 18 mesi – e anche scarsità di proposte riguardo allocazioni e percorsi integrativi».

Come giudica l’Italia “terra di frontiera”?

«Geograficamente, l’Italia è terra di frontiera da sempre. Il problema è quando la si definisce così politicamente e socialmente, creando delle fratture tra noi e l’Altro (o l’alterità, se mi concedete un termine antropologico azzeccato). Purtroppo, invece di cogliere le possibilità che le nostre “porte” ci diano accesso al mondo, vediamo la frontiera o il confine esclusivamente nella sua dimensione negativa. Questo significa che il confine sta nelle nostre menti ed è molto grave».

Secondo lei il Friuli Venezia Giulia, terra di migranti e di immigrati, con quali sentimenti vive il problema dell’accoglienza?

«Da noi vale lo stesso discorso di prima: siamo scissi in due fazioni. La paura dello straniero assieme alla crisi finanziaria e occupazionale che stiamo vivendo creano i presupposti per generalizzazioni, stereotipi, facilità a credere ad alcune informazioni errate sulle dinamiche del fenomeno migratorio, dalla partenza all’identificazione e all’accoglienza».

Nel suo girovagare tra l’Italia, i Balcani e l’Europa, quanto spazio nel suo cuore riserva a Trieste?

«Ho un rapporto di amore e odio con la mia città natale e, in generale, con il Friuli Venezia Giulia. Se penso a quante iniziative potremmo promuovere data la nostra posizione privilegiata, sono assalita dalla rabbia e dalla frustrazione: i miei progetti devo sempre portarli altrove perché siano considerati (e anche finanziati). D’altro canto, mi è capitato spesso di commuovermi davanti a questo “piccolo compendio dell’universo”, come l’ha definito Ippolito Nievo, al rientro dalle trasferte più emotivamente difficili».

Nel vortice dei suoi impegni c’è spazio per qualche hobby?

«Il mio hobby è viaggiare, per cui riesco a gratificarmi rivedendo amici che sono sparsi in giro per il mondo, scoprendo realtà nuove e sempre stimolanti. A essere totalmente sincera, ci sono pure dei brevi periodi in cui mi dedico alla lettura e all’introspezione, solo per prendere un attimo di respiro…»

Cosa apprezza maggiormente in una donna?

«Rispondo con una citazione della Presidentessa del Global Fund for Women, Kavita Ramdas: “Abbiamo bisogno di donne che sono così forti che possono essere gentili, così sagge che possono essere umili, così feroci che possono essere compassionevoli, così appassionate che possono essere razionali e così disciplinate che possono essere libere”. Sono queste le qualità che apprezzo nelle donne come negli uomini, senza distinzioni».

Nel caleidoscopio dei suoi incontri umani e istituzionali, quale persona l’ha maggiormente colpita e coinvolta?

«Ce ne sono tante che ho preso a modello ed esempio nel corso della mia vita: il Procuratore Anti-Mafia Nicola Maria Pace, scomparso nel settembre 2012, colui il quale mi ha “iniziato” alla tematica del traffico di esseri umani e del ruolo del crimine organizzato transnazionale; poi Sua Eccellenza l’Ambasciatore Piero De Masi, uno dei due diplomatici italiani che – durante il golpe di Pinochet del 1973 in Cile – aprì le porte dell’Ambasciata italiana ai dissidenti, dando rifugio e quindi salvando la vita a numerosi asilados. Infine, non posso non menzionare il Generale Mauro Del Vecchio, il quale mi ha spronata a continuare le mie applicazioni dell’antropologia nell’ambito della sicurezza e in quello militare. Questi tre grandi uomini per l’Italia ma ci sono anche altrettanti che chiamo i miei Maestri in ambito internazionale, tutti accomunati da un fortissimo carisma, un’immensa esperienza  professionale unita a un’umanità e una visione propria e originale della complessità del mondo, dell’uomo e delle problematiche connesse a livello macro e micro».

Prescindendo dal suo lavoro, quale desiderio vorrebbe si potesse realizzare a breve?

«È difficile prescindere dal mio lavoro… ma, se dovessi pensare a un’utopia vorrei poter semplicemente prendere un leggero zainetto in spalla e mettermi a viaggiare senza condizionamenti. Libera».

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