“Non dimenticherò mai il gesto di segnare con una croce la fronte di un morente”

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Margherita Reguitti

20 Aprile 2020
Reading Time: 5 minutes
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La testimonianza di una dottoressa bresciana

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La dottoressa Maria Karin Ghisla si è sempre occupata di pazienti fragili scegliendo dopo la laurea all’Università di Brescia di specializzarsi in geriatria e medicina interna.

Lavora dal 2002 all’Ospedale Richiedei di Gussago, cittadina a pochi chilometri da Brescia, struttura nata da un lascito di un benefattore privato, oggi Polo socio-sanitario pubblico con una disponibilità di una settantina di posti letto. Una realtà nella quale la lotta contro la pandemia è stata difficile soprattutto per la presenza di pazienti anziani con una criticità di patologie.

Il virus ha cambiato la vita e l’attività del nosocomio e del personale tutto nel giro di pochi giorni: da ospedale specializzato nella riabilitazione, soprattutto di anziani, l’emergenza ha richiesto la trasformazione dei reparti in strutture adatte a gestire l’emergenza dei pazienti colpiti dal Covid-19 ma anche ad accogliere i dimessi ma non negativizzati dai reparti di terapia intensiva degli Spedali civili di Brescia.

Oggi la dottoressa Ghisla inizia a vedere la luce infondo al tunnel scavato dal virus. Ma sono stati mesi passati in reparto con turni di 12 ore a diretto contatto con la morte di pazienti per i quali non c’è stato nulla da fare, e la paura di portare il virus a casa, infettando la sua famiglia.

Dottoressa, qual è la situazione all’Ospedale Richiedei di Gussago?

“Si inizia a vedere un filo di luce e di speranza. I pazienti sono sfiancati dal virus ma iniziano a riprendersi. La malattia non ha attaccato solo i polmoni ma anche tutti gli organi. Hanno problemi a deambulare anche adulti di 50 anni in piena attività, non riescono a stare in piedi autonomamente perché gli arti sono danneggiati, ma sappiano che si riprenderanno”.

Come è cambiato l’ospedale durante l’emergenza?

“Abbiamo riorganizzato i reparti della struttura in modo da poter accogliere i pazienti dimessi dai reparti di pneumologia, di terapia intensiva o dopo l’intubamento negli Spedali Civili. Sono persone che solo dopo un mese non sono più positivi al tampone, possono dunque uscire dall’isolamento e passare alla riabilitazione. Anche fra i degenti e il personale del Richiedei all’inizio ci sono stati degli infettati, ma grazie alla disponibilità di tamponi siamo riusciti a isolarli. Alcuni sono stati trasferiti in altre strutture altri sono rimasti da noi”.

La pandemia che cosa ha cambiato nel suo modo di essere medico?
“Nella sua drammaticità questa esperienza ha lasciato a tutti gli operatori sanitari qualcosa di positivo. Ci ha forgiato, reso più forti, sensibili e umani. Ci ha insegnato a lavorare in team, ogni figura professionale ha collaborato nella fase di emergenza. Tutti disponibili a fare qualcosa di diverso dal proprio ruolo. Se il paziente non aveva ancora mangiato io sostituivo il collega nel dargli il cibo. Così facevano i fisioterapisti e i logopedisti. Tutto questo ha creato un legame che proseguirà”.

Il momento più difficile?

“In preda al panico non si capiva perché pazienti più fragili se ne andavano, non capivamo dove sbagliavamo. È stato drammatico. Siamo poi riusciti a capire e ad avere una visione, non solo di morte ma di vita. Per un medico è terribile trovarsi di fronte a un grande numero di decessi. Difficilissimo è stato anche il rapporto con i familiari che non potevano essere accanto ai loro cari ed erano disperatamente alla ricerca di notizie sul loro stato di salute. Ogni giorno arrivavano decine di telefonate alle quali dare risposte. Poi grazie alla disponibilità di ipad abbiamo avuto modo di fare delle video chiamate. È stato un grande passo in avanti grazie al progetto E-motivo”.

Quale è stato il suo sostegno?
“Sicuramente la fede in Dio, nella certezza che ci stava accanto dandoci la serenità per non mollare, trovando la forza di essere l’unica persona presente al momento del trapasso. Non dimenticherò mai il gesto di segnare con una croce la fronte di un morente. La fede mi ha aiutato a dare conforto ai miei colleghi, mi ha dato la forza di superare la paura di portare il virus a casa. Mi ha fatto trovare le soluzioni per condividere con mio marito e mio figlio i pasti e il tempo che passavo con loro, portando la mascherina e stando a debita distanza”.

I pazienti in recupero di cosa hanno bisogno oltre al supporto medico?

“Hanno bisogno della nostra presenza come creature, far sentire la nostra umanità non tanto come operatori sanitari ma come persone che hanno cura di loro. Per chi supera il virus è importante iniziare a relazionarsi con gli altri, raccontando le emozioni di quei momenti drammatici nei quali erano soli, con la paura di non farcela. Hanno bisogno di sentirsi voluti bene anche perché l’accesso ai parenti non sarà possibile a breve”.

Cosa le lascia la pandemia?

“Nella sua drammaticità questa esperienza ci sta forgiando, ci rende più forti e sensibili, uniti verso un unico obiettivo: sconfiggere il virus mantenendo la nostra umanità”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa pandemia ci cambierà?

“Chi è cresciuto in questa esperienza avrà grande potenzialità, altri resteranno al palo. Non riesco a dire che diventeremo tutti più buoni”.

 

Il Covid 19 in Lombardia ha fatto strage, le città più colpite sono state Brescia e Bergamo, e in un secondo momento Milano. A Brescia i morti sono per ora più di 1.900 sugli oltre 12.200 di tutta la Lombardia, dati in continuo cambiamento. Che cosa non ha funzionato nella regione “eccellenza sanitaria”? Le risposte arriveranno, al momento volano stracci.

A Brescia l’eccellenza è rappresentata da due grandi strutture: gli Spedali Civili pubblici e La Poliambulanza privata. Entrambi hanno fatto miracoli e nel giro di tempi brevissimi hanno allestito nuovi reparti e posti letto per accogliere chi non respirava più se non aiutato da ventilatori meccanici oppure arriva all’ultimo stadio e si richiede l’ultimo passo possibile: intubamento.

In città poi ci sono altre piccole realtà sanitarie, i media nazionali non si sono interessati di loro, ma il loro ruolo è fondamentale per il dopo. Quando un paziente supera la fase acuta del ricovero per Covid il suo corpo è massacrato dal virus. Ha bisogno di ossigeno, di rimparare a camminare anche nel caso di persone giovani, adulti in piena attività.

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