Non c’è altro che la Patagonia

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Michele Tomaselli

2 Luglio 2013
Reading Time: 8 minutes
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L’epopea dei Masters

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La Patagonia è contemporaneamente la fine del mondo e l’inizio di una nuova dimensione, fatta di cime irraggiungibili, laghi sconfinati, ghiacciai impetuosi e témpanos (iceberg) colorati di turchese. Qui tutto è estremo.

È estremo l’isolamento delle montagne, sono estreme le tempeste che colpiscono le Ande, sono estremi i contrasti dello Hielo patagónico, sono estreme le distanze. Un luogo terribile e meraviglioso allo stesso tempo, in cui l’uomo è ospite mentre la natura è padrona.

«Patagonia» dicevano Coleridge e Melville, per significare qualcosa di estremo. «Non c’è più che la Patagonia, la Patagonia, che si addica alla mia immensa tristezza» cantava Cendrars agli inizi di questo secolo. Dopo l’ultima guerra, alcuni ragazzi inglesi, piegati sulle carte geografi che, cercarono l’unico luogo giusto per sfuggire alla prossima distruzione nucleare e scelsero la Patagonia. E proprio in Patagonia si sarebbe spinto Bruce Chatwin, (autore del libro In Patagonia, Adelphi 1982) non già per salvarsi da una catastrofe, ma sulle tracce di un mostro preistorico e di un parente navigatore.

Nessuno, come Bruce Chatwin, è riuscito a descrivere così bene la Patagonia, una terra lontana e misteriosa, ma anche un luogo sicuro in cui l’autore ha potuto sentirsi impareggiabilmente scrittore e scrutatore della realtà. «La Patagonia! È un’amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un’ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più» gli urlava un poeta incontrato sul posto. Un incantesimo iniziato a Buenos Aires, passato per La Plata, città universitaria con il principale museo di storia naturale del Sud America, portato poi lungo il Rìo Negro, nei diversi porti affacciati sull’Oceano Atlantico, e infine concluso nel sud, a Ushuaia.

La Patagonia è terra di esploratori e di conquiste. Qui, ai confini del mondo, Charles Darwin incontrò gli aborigeni, riuscendo, da lì a poco, a partorire la sua rivoluzionaria teoria dell’evoluzione della specie, caposaldo della genetica.

Padre Alberto Maria de Agostini, salesiano e pioniere dell’esplorazione patagonica, meglio conosciuto come padre Patagonia, una sorta di Indiana Jones ante litteram con la talare nera, il primo vero esploratore-scrittore della Patagonia e primo occidentale ad attraversarla, riuscì a scoprire interamente le demarcazioni territoriali di quella terra, fino ad allora sconosciute. Si deve infatti a Don Patagonia la realizzazione di due grandi carte della Terra del Fuoco e della Patagonia meridionale (inserite nei due libri Trenta anni nella Terra del Fuoco e Ande patagoniche). Ma fu anche l’ultimo difensore delle popolazioni indigene della Terra del Fuoco (Ona, Yamana, Alacalufes e Tehuelche), oggi completamente scomparse e rimaste nella memoria grazie ai suoi studi.

Contribuì alla notorietà della Patagonia Cesare Maestri, l’uomo che per primo riuscì a conquistare il Cerro Torre del massiccio del Fitz Roy, una delle montagne magiche del mondo: un obelisco di puro granito e ghiaccio che si staglia verticale per quasi due chilometri, una sorta di missile innalzato al cielo.

Oggi ovviamente la Patagonia non è più quella misteriosa terra cantata da Bruce Chatwin, da Charles Darwin e da Don Patagonia e le estancias dei gauchos (grandi appezzamenti dove alloggiano i padroni terrieri) racchiudono un grandioso e magnifico entroterra destinato alla pastorizia. Il paesaggio è verdeggiante e i ghiacciai scendono dalle montagne fino a lambire il Lago Argentino, offrendo scenari mozzafiato e uno spettacolo roboante di blocchi di ghiaccio, che scivolano nell’acqua, trasformandosi in timpani meravigliosi (témpanos o iceberg) galleggianti.

I fiordi che collegano il Lago Argentino ai ghiacciai sono disseminati di iceberg cristallini, che rendono difficoltosa la navigazione. Poi, all’improvviso, un gigante di ghiaccio riempie di attesa lo sguardo attonito di un viaggiatore che, stregato, sfida il vento glaciale dalla prua dell’imbarcazione.

Si avvicina sul pontile, con un po’ di timore, scrutando una successione infinita di timpani candidi e turchesi, pressappoco trasparenti, dalle più stravaganti forme: quasi un gioco di fata Morgana… È un’atmosfera glaciale di rara bellezza. Proprio qui, nella punta estrema della Patagonia, si trova il ghiacciaio Upsala, il terzo più grande dell’America Meridionale, una lingua di circa 50 Km di lunghezza e 10 Km di larghezza, spessa diverse centinaia di metri che si estende dal monte Don Bosco fi no al Lago Argentino: porta il nome della città svedese di Uppsala, che condusse i primi studi glaciologici della regione. L’unico modo per conoscere da vicino il ghiacciaio e ammirare il grandioso spettacolo è arrivare all’Estancia Cristina, navigando il ramo del braccio nord del Lago Argentino.

Un giardino terrestre in capo al mondo, fertile e fascinoso, dove gli alberi sono sbattuti come stracci al vento, nel silenzio immobile dell’immensità glaciale. La Cristina è un eldorado naturale, circondato da montagne granitiche e da enormi distese glaciali, dove le antere dei fi ori sbocciano accanto alla neve. Chi raggiunge questo luogo si sente parte di una storia ineguagliabile, dal sapore antico, a stretto contatto con uno stile di vita pionieristico. Una storia appassionante, che ha radici molto profonde nel tempo in cui un giovane scrittore britannico, Hesketh Prichard del Daily Express, scoprì casualmente, nel 1901, questa zona sconosciuta del Lago Argentino, alla ricerca di un fantomatico e misterioso milodonte1, che si riteneva sopravvissuto alle glaciazioni, ma in realtà già estinto da diverse migliaia di anni. La conseguenza è la storia del carpentiere inglese Joseph Percival Masters che, congiuntamente alla moglie Jessie Elisabeth Warning, creò nello stesso luogo narrato da Prichard l’Estancia Cristina, riuscendo a vincere le condizioni estreme della Patagonia.

Ascoltai per la prima volta la vicenda dei Masters nel galpon (capanno per la tosatura delle pecore) dell’Estancia Cristina nel gennaio 2013. E quella che segue è la magnifica cronistoria.

Mr. Joseph Percival Masters nacque nell’Hampshire il 30 luglio 1876 e, già in giovane età, come marinaio, riuscì a  raggiungere l’America del Sud. Arrivò a Punta Arenas (oggi Cile) a cavallo del XX secolo, rimanendo incantato da quegli spazi, tanto che, al suo ritorno in Inghilterra, propose alla compagna di stabilirsi definitivamente in Patagonia, nella nuova terra promessa, uno dei luoghi più belli del mondo. D’altra parte gli venivano offerti un buon salario e condizioni di vita adeguate. Detto fatto, alla partenza non ci volle molto…

A bordo del mercantile 1° maggio, dopo aver celebrato il matrimonio, lui e sua moglie partirono alla volta di Buenos Aires. Si trasferirono quindi a Rio Gallegos e a Cabo Vìrgenes, per trovare impiego nelle miniere d’oro, fino a quando, nel 1904, decisero di dedicarsi all’allevamento delle pecore nei pressi del lago Roca. In realtà le condizioni climatiche del luogo erano talmente inospitali, da rendere accoglienza ai soli pinguini magellanici. Si cercò allora un’altra sistemazione.

Dopo aver lavorato alcuni anni all’estancia Condor, nei pressi di Calafate, la famiglia Masters individuò finalmente, nel 1914, il luogo da colonizzare: si trattava della futura Estancia Cristina.

Ai Masters non restava che raggiungerlo. Per arrivare in avanscoperta, utilizzarono la barca dell’esploratore Francisco Pascacio Moreno (colui che scoprì il colossale ghiacciaio argentino, a lui poi intitolato), quindi, a conclusione dell’impresa, trasferirono 500 pecore e tutto l’occorrente per l’insediamento.

Tuttavia, di quel globale armamentario, rinunciarono a trasportare i materiali da costruzione, poiché facilmente rinvenibili in loco: il nuovo insediamento infatti era ricco di legname. Joseph Percival Masters riuscì con l’utilizzo delle potenzialità naturali a realizzare autonomamente i casolari della fattoria, gli arredi interni, il mulino idraulico e la piccola barca. Nel contempo lo spirito pioniere e i tanti sacrifici ricompensarono quegli sforzi: il gregge si accresceva sempre più, la tosatura delle pecore prosperava e l’estensione del pascolo lambiva il ghiacciaio Upsala. Gli scambi commerciali della lana consentivano floridi commerci con Rio Gallegos e l’intero entroterra argentino. A tal fine venne costruita una nuova imbarcazione in legno di 56 metri, in grado di vincere la collera del Lago Argentino.

Traguardo dopo traguardo, i Masters affinarono anche il loro ingegno superando il profondo isolamento del luogo: l’estancia fu fornita di una potente stazione radio, onde consentire di sintonizzarsi con i radioamatori. Contestualmente vennero costruite una rete di canalizzazioni e una centrale idrica per l’innesto del sistema irriguo e domestico. Un canale sopraelevato distribuiva l’acqua in tutti i casolari dell’estancia. Il capannone della tosatura disponeva di una vasca di raccolta dell’acqua. Tutto divenne un vero capolavoro di ingegneria idraulica. 

Ma la sorte iniziò a girare contro.

Un brutto e maledetto giorno del 1924, la fi glia di Joseph Percival Masters, Cristine, si ammalò di polmonite e da lì a poco morì. Fu proprio in questa circostanza che nacque il nome dell’estancia.

Un’altra vicenda colpì duramente la famiglia Masters. Nel 1937, a seguito dell’istituzione del parco nazionale Los Glaciares (il secondo più grande dell’Argentina) – che inglobava anche l’Estancia Cristina – Joseph Percival Masters corse il rischio di vanificare quanto fino ad allora costruito. Il Governo argentino non offriva più la possibilità di convertire la concessione governativa dell’estancia in proprietà: il sogno di diventare proprietari era ormai svanito. Fino a quella data le leggi in vigore prevedevano il diritto di proprietà ai coloni dopo appena 30 anni di concessione: nel caso dei Masters sarebbero stati necessari ancora 7 anni.

Ma la storia incredibile dei Masters non era ancora finita. Lo spirito pioniere e l’audace coraggio permisero a Joseph Percival di ricominciare, pur sapendo che non avrebbe mai ottenuto la proprietà. Venne poi il tempo della seconda generazione: il figlio Herbert Masters coadiuvava l’attività del padre e a questo punto si inserisce la parte romantica della storia. Jessie Elisabeth Warning, anziana e malata di artrite, chiamò al suo servizio una badante scozzese, Janet, che conquistò l’animo di Herbert Masters. I due si innamorarono, instaurando una relazione passionale, molto contestata dall’ormai vecchio Joseph Percival, tanto che i due giovani, per celebrare la loro unione, dovettero attendere la morte dei genitori, deceduti rispettivamente a 96 (Joseph) e 99 anni (Jessie), sposandosi così tardivamente all’età di 79 e 72 anni.

Ma un’altra controversia si abbatté sulla complicata storia dei Masters: Herbert e Janet, non avendo discendenti, non avrebbero garantito il perdurare della concessione. Nel 1984, quando Herbert morì, la moglie Janet si ritrovò in difficoltà economica e decise di aprire le porte dell’estancia. In breve tempo iniziarono ad arrivare alpinisti da tutto il mondo, compresi gli italiani, intenti ad a esplorare lo Hielo patagonico sur (l’enorme calotta glaciale patagonica che costituisce la terza fonte di acqua dolce del mondo dopo l’Antartide e la Groenlandia) lì adiacente. A seguito della morte di Janet, nel 1997, decadde la concessione governativa: tramontava così, dopo 83 anni, l’era dei Masters. Oggi l’Estancia Cristina è una delle tenute più straordinarie della Patagonia: soggiornarvi rappresenta una fantastica esperienza, alla scoperta della flora e della fauna.

E, se al nostro rientro in Italia, ci sembrerà di vivere in un altro mondo, non allarmiamoci troppo poiché questo è l’effetto della Patagonia…

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