È il 1977 e Yuri sta rientrando a Pyramiden, nell’arcipelago delle Svalbard, dopo aver partecipato a Mosca al funerale del fratello. Considera questo avamposto russo, ai confini del mondo, una casa adottiva. È qui che ha trovato un lavoro come capo ingegnere della città mineraria e, nonostante i pregiudizi del suo assistente Semyon – “il lettone Weasel” che ambiva a prendere il suo posto –, vive con serenità e mai penserebbe che quella vita di abitudini e tran tran, a cui si è affezionato, possa stravolgersi. Così, per sopravvivere al clima artico del 79° parallelo e ai rigidi precetti del Soviet, Yuri adotta tre regole (qui considerate delle sacre scritture): mai fidarsi di nessuno, tenere la testa bassa e aiutare sempre il più forte. Un approccio di vita cinico, ma dettato dalla certezza che a tenere unita l’Unione Sovietica e il suo impero c’è solo e soltanto la corruzione.
Quanto sia opportuno ricorrere a questi espedienti per garantirsi la sopravvivenza, Yuri lo dimostra quando viene rinvenuto il cadavere di Semyon, episodio che peraltro lo porta a essere sospettato dell’omicidio. Un’ipotesi di reato che gli viene mossa da un uomo spietato del KGB: Timur, un despota che oltretutto, nel corso delle indagini, lo ricatta col fine di strappargli informazioni su Catherine, una giovane ragazza inglese arrivata fin quassù per professare la fede comunista e aiutare la madre Russia. Una situazione paradossale e aggravata da un clima tetro, in quel periodo dell’anno dove l’oscurità si protrae tutto il giorno. La vita di Yuri si complica nuovamente a causa di un’altra donna, Anya: un’insegnante bella ed emotiva che Yuri non capirà mai. Tuttavia è solo il preambolo di una storia passionale che lo spinge a rompere con le tre regole e ad affrontare la vita con un altro spirito.
Con i vari fili della trama che coinvolgono spie, disertori, informatori The Reluctant Contact è un thriller interessante in un’ambientazione insolita: Pyramiden. Oggi è rimasta una città fantasma. È stata abbandonata progressivamente a partire dal 1991, a causa del crollo del regime comunista e per la bassa domanda del minerale, anche se in verità i motivi furono altri e ci riportano al terribile incidente aereo del 1996, quando un velivolo proveniente da Mosca con a bordo 130 minatori e i loro famigliari, destinati a raggiungere questo luogo a metà strada tra Murmansk, in Russia, e il Polo Nord, si schiantò nei pressi di Longyearbyen. La comunità fu messa in ginocchio e così, presa dalla paura, decise di evacuare molto velocemente, lasciando effetti personali e buona parte degli arredi; nell’auditorium è ancora possibile trovare un pianoforte perfettamente funzionante: un Ottobre Rosso (il più a nord del mondo), che pare essere stato abbandonato durante l’intermezzo di un concerto, mentre le cucine ancora in buono stato saporano di cibo. Così, dopo il 1998, gli abitanti, circa 1.000 persone, in gran parte ucraini, lasciarono definitivamente la città.
Il Polar girl, la piccola nave mercantile, ci porta a fare un giro lungo il Billefjorden e ferma i motori vicino alla seraccata del Nordenskioldbreen, un incantevole ghiacciaio dell’Artico. È davvero imponente e striato di venature azzurre. All’improvviso su una scogliera cinerea ecco apparire il signore incontrastato di queste terre: un orso bianco femmina col suo cucciolo. Vedere questi splendidi animali in libertà è un’emozione impagabile, perché è raro incontrarli. Da qualche tempo, però, amano raggiungere la città, dove magari riescono a scovare del cibo senza fare una grossa fatica. Si tratta però di animali enormi e potenti; ogni incontro con loro può rivelarsi una trappola mortale. Alle Svalbard vivono circa 2.500 persone ma ci sono almeno 3.000 orsi polari! Un loro attacco recente è avvenuto vicino alla capitale Longyearbyen, il centro abitato più a nord del mondo, con duemila residenti. Per questo motivo nell’arcipelago è obbligatorio armarsi di fucile se si vuole uscire dalle zone sicure, oltre le cittadine di Longyearbyen e di Barentsburg.
Quest’ultimo è un villaggio russo decadente, con meno di 500 abitanti, usato per l’estrazione del carbone. Per contrastare la minaccia degli orsi, le tradizioni impongono di non chiudere mai a chiave le porte di casa, una precauzione per garantire un rifugio sicuro a chiunque ne incontri uno per strada. Non mi sembra fuori luogo sentirmi dire che “se si vede un orso ed è ancora lontano, lasciate cadere un oggetto e sfruttate la sua curiosità, magari facendogli pensare che gli si offra del cibo, nell’intento di guadagnare tempo e trovare un riparo”. Paese che vai, tradizione che trovi: il bello di viaggiare è anche questo.
Non è strano nemmeno venire a sapere che in queste terre vige l’usanza “qui non si nasce e non si muore”. E la gente ama ripetermelo, visto che per partorire bisogna andare in Norvegia e per trovare sepoltura si deve raggiungere il continente, a causa della presenza del permafrost. Quel terreno ghiacciato, caratteristico delle aree artiche, il cui spessore è legato alle condizioni climatiche. Alle Svalbard infatti tutti gli edifici sono rialzati da terra, mediante l’uso di palafitte.
Ripresa la navigazione, ai piedi di una montagna, ecco apparire Pyramiden. È una città che nemmeno la fantasia umana può immaginare, che deve il suo nome alla vetta che la sovrasta. Ha edifici imponenti, ampie piazze e viali, monumenti imperiosi, ed è raggiungibile solo con la nave. L’Urss di Stalin la costruì come avamposto dell’Unione Sovietica per lo sfruttamento delle sue risorse naturali, secondo il Trattato delle Svalbard, del 1920, un documento che estese alle 40 nazioni firmatarie, tra cui la Russia, il diritto di estrarre le risorse naturali. Così l’URSS (l’unico stato che applicò l’accordo) ci costruì palazzi di cinque o sei piani: edifici mai visti a quelle latitudini. Poi, in piena guerra fredda, Pyramiden diventò covo di spie e vi si trovava perfino un ufficio del Kgb. Le famiglie vivevano in caseggiati denominati The Crazy House, per via della presenza di bambini, mentre i single maschi alloggiavano al quartiere Londra; le donne celibi al rione Parigi.
Pyramiden aveva tutto quello che serviva: un asilo, una scuola, un ospedale, un auditorium, un cinema, una biblioteca con 50.000 volumi, un campo da basket e da calcio, una piscina riscaldata, una grande mensa per i minatori. C’erano poi serre nelle quali si coltivavano frutta e verdura, delle stalle piene di maiali, polli e bestiame. Fu addirittura portata della terra fertile dall’Ucraina, per produrre dell’erba che ancora oggi spunta in gran quantità durante l’estate. Aggirarsi tra le sue costruzioni è un’esperienza a dir poco “spettrale” e si ha quasi l’impressione di essere sopravvissuti a una guerra nucleare. Il freddo estremo e le particolari condizioni ambientali favoriscono la conservazione dei suoi manufatti che probabilmente tra duecento anni saranno ancora lì, intatti. Di Pyramiden si è occupata una puntata del programma televisivo di History Channel, La Terra dopo l’uomo (Life after People). Inoltre di recente è stato aperto l’hotel Tulip con l’intento di rendere il luogo un’attrazione turistica. Ma la strada da percorrere è ancora molta, visto l’isolamento e la mancanza totale di copertura telefonica.
Nella piazza principale, un busto di Lenin guarda ancora la città. Tutto è rimasto come era. Niente si muove nelle strade, dai camini non esce fumo e nessun rumore si sente tra le sue strutture di cemento armato.
Continuiamo il nostro viaggio. Da Longyearbyen, con un aereo Dornier da 15 posti, voliamo verso Ny Alesund, alla Baia del Re, alle origini un piccolo villaggio minerario considerato l’ultimo avamposto umano prima dell’estremo. Oggi ci si trova un importantissimo insediamento per la ricerca scientifica polare internazionale e a cui hanno aderito 10 nazioni, tra cui l’Italia con la base artica “Dirigibile Italia” del Consiglio Nazionale di Ricerca italiano. Il tempo si preannuncia magnifico così il pilota livella la rotta dell’aereo a soli 8.000 piedi, per farci godere al meglio le viste magnifiche sulla calotta glaciale. L’atterraggio è da mozzare il fiato, e avviene su una lingua di terra stretta e corta. D’inverno è tutta ricoperta di ghiaccio e neve battuta e in caso di brutto tempo non sono consentiti ammaraggi e decolli. È la stazione meteo più a nord della Terra. Si può arrivarci solo se invitati dagli Enti di ricerca della base, utilizzando un aereo o una nave. Da questo luogo partì nel 1926 la spedizione vittoriosa di Nobile e Amundsen del dirigibile Norge e nel 1928 quella catastrofica del dirigibile Italia di Nobile, per la conquista del Polo Nord. Luogo ricco di fascino e da dove s’incrociarono i diversi destini. Una traccia evidente delle imprese polari ancora presente è il famoso pilone (anche se a dir la verità oggi è un po’ arrugginito… ) a cui vennero ancorate le due aeronavi.
Cesco Tomaselli finì qui entrambe le due esplorazioni. È grazie al CNR, alla spedizione scientifica Polarquest di Paola Catapano e a Pino Biagi (il nipote dell’omonimo marconista dell’Italia) se sono arrivato fin quassù. In occasione del novantesimo della traversata del dirigibile Italia e dell’arrivo dell’imbarcazione Nanuq del team “Polarquest2018”, che a breve inizierà la ricerca del relitto del dirigibile, sono riusciti a riunire alcuni eredi della tragica spedizione e a portarli fin al 79° parallelo. Hanno preso parte al viaggio, oltre a chi scrive e a Biagi: Filippo Belloni, Paola e Mattia de Grassi, Sergio Alessandrini, rispettivamente discendenti di Filippo Zappi, Alfredo Viglieri e Renato Alessandrini. Davanti al monumento delle otto croci innalzato a ricordo delle vittime, grazie a Tina Zuccoli e a Aldo Caratti, si è proceduto a commemorare degnamente quella tragedia, leggendo la preghiera degli esploratori dell’aeronave Italia e depositando una corona di rose rosse a fianco della targa lì affissa, con impressi i nomi dei deceduti che furono Renato Alessandrini, Ettore Arduino, Attilio Caratti, Callisto Ciocca, Ugo Lago, Finn Malmgreen, Vincenzo Pomella e Aldo Pontremoli.
Sono le 5 di pomeriggio e il sole splende intensamente, si ricorda una delle più grandi esperienze esplorative della storia italiana, affiorano aneddoti e ipotesi sulla sciagura, ma si può certamente affermare che “se ci fosse stata una giornata come quella odierna, la tragedia dell’Italia, novant’anni fa, non sarebbe mai successa”. Il viaggio volge al termine, ma abbiamo ancora il tempo per visitare il North Pole expedition museum di Longyearbyen: il museo delle spedizioni polari aperto dal milanese Stefano Poli, due piani di cimeli, di foto preziose, di libri, bauli, barche, vestiti lettere, modellini e testimonianze che raccontano le gloriose spedizioni dei dirigibili America, Norge e Italia.
Ora il viaggio è davvero finito, ma l’esperienza significativa che ci ha regalato emozioni e nostalgie dal primo all’ultimo minuto rimarrà indelebile dentro ciascuno di noi.