“I metodi italiani in Rwanda? Impossibile, per ora”

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Don Modeste Muragijimana ripercorre i suoi 4 anni nella Bassa friulana: “Sono giunto in tempo di pandemia. Lascio relazioni speciali e strutture che nel mio Paese non ci sono”

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Don Modeste Muragijimana

CERVIGNANO DEL FRIULI – Nelle scorse settimane don Modeste Muragijimana ha salutato le comunità dell’Unità Pastorale Bassa Friulana.

Nei prossimi giorni tornerà nel suo Rwanda, dove sarà chiamato a operare in una nuova parrocchia.

Abbiamo voluto ripercorrere assieme a lui l’esperienza vissuta in questi quattro.

Don Modeste, gli anni trascorsi in Italia a Cervignano del Friuli e a Padova come hanno influenzato la sua crescita?

«Quando entri in contatto con una nuova cultura, con la gente, cresci umanamente. Nel mio Paese d’origine, il Rwanda, la popolazione è molto giovane con il 65% sotto i 35 anni, ma ci sono anche co tanti problemi, conseguenza delle guerre del passato, oltre e mancanza di lavoro e povertà. Qui sono stato in contatto con un popolo a maggioranza non giovane: tanti amici, tante persone con cui ho avuto relazioni e legami forti sono di una certa età. Mi hanno condiviso la loro ricca esperienza e ne ho approfittato. Abbiamo spesso discusso sui problemi del mondo di oggi e soprattutto sui problemi del mio paese e mi sono commosso vedendo quanta voglia c’è nel cuore di tante persone di aiutare gli altri a stare bene. Da più di una persona, ho sentito questa frase: “Don, quando arriverai nel tuo paese e avrai il bisogno di aiutare la tua gente, scrivimi! Mandami un messaggio”. Si cresce umanamente quando entri in relazione con le persone diverse; ne ho fatto esperienza».

Quali esperienze porterà con sé in questo nuovo capitolo della sua vita?

«Ho vissuto diverse esperienze, ma ne cito due. Sono arrivato nel tempo della forte pandemia del Covid-19: ho apprezzato come ognuno voleva proteggersi proteggendo anche il suo vicino, il fratello, la sorella. Ho capito che siamo tutti sulla stessa barca come l’ha detto Papa Francesco: dobbiamo aiutarci a vicenda. Spesso, poi, passavo nel centro di ascolto della Caritas di Cervignano: ho apprezzato il loro modo di fare e di ascoltare attivamente tutte le persone bisognose. Farlo rispettando la dignità di ogni persona, accompagnandola a uscire dai problemi di povertà per diventare autonoma. È stata per me una bella esperienza».

Il passaggio dall’Italia al Rwanda comporta un adattamento a un contesto culturale, sociale e ambientale molto diverso.

«È vero, ma io sono nato, cresciuto e ho lavorato in Rwanda. Conosco la mia terra e il mio popolo: non ci saranno difficoltà di adattamento. Ma per chi non è cresciuto in Rwanda sarebbe più difficile adattarsi. La prima difficoltà sarebbe imparare la lingua Kinyarwanda, che si parla in tutto il Paese. Per non parlare dei trasporti: in Rwanda, non ci sono ferrovia o autostrada. Anche la cucina è diversa da quella italiana. Ma troverà gente più accogliente e conviviale».

Lei com’è stato stato accolto nelle varie comunità dell’Unità Pastorale “Bassa Friulana”?

«Al mio arrivo in tempo di pandemia non c’era possibilità di interagire facilmente. Ma con il tempo ci siamo conosciuti, aiutati a vicenda, affezionati. Ho notato che ogni comunità ha la sua originalità. E questo mi ha sorpreso. Comunità vicinissime come quelle di Muscoli e Strassoldo, ad esempio, hanno modi di fare diversi».

Quali sono secondo lei i principali benefici e arricchimenti da lei portati alle comunità che l’hanno ospitata?

«Non ho portato nient’altro che il desiderio di essere un pastore in ascolto dei fedeli quando il tempo lo permetteva. Ho avuto tante occasioni di essere con i fedeli senza fretta per condividere la vita e la fede».

Quali ricordi conserverà per sempre?

«Io e un mio confratello siamo arrivati lo stesso giorno nell’Arcidiocesi di Gorizia. Siamo andati a salutare l’Arcivescovo Carlo nell’arcivescovado, dopo aver concluso insieme la quarantena. L’Arcivescovo ci ha accolti e ci ha offerto un caffè preparato da lui, nella sua cucina. Era la prima volta nella mia vita che vedo un vescovo in cucina! Sono stato commosso dalla sua semplicità».

I metodi di evangelizzazione, catechesi e animazione giovanile applicati in Italia possono essere adattati al contesto ruandese, tenendo conto delle specificità culturali e religiose?

«Ho osservato da vicino questi metodi. Ho visto che i giovani dell’unità Pastorale della Bassa Friulana sono più fortunati che i giovani ruandesi: ci sono le strutture come Ricreatorio o Rikstoro per aiutare i giovani a stare insieme, a fare i compiti, a giocare, a pregare, a sentire il gusto della vita. Hanno la facilità di visitare insieme i luoghi come le grandi Chiese, Santuari, musei… per il loro arricchimento culturale, intellettuale e spirituale. Ho notato che anche loro partecipano in prima persona nelle decisioni che li riguardano. Tuttavia sarebbe un errore pensare che si può adattare quello che si fa qui in Italia perché la Chiesa in Rwanda – anche se celebrerà 125 anni dell’Evangelizzazione prossimo anno – è ancora una Chiesa con mezzi finanziari limitati. Alcune iniziative che richiedono mezzi finanziari sono sospese. Ma nel poco che c’è, la Chiesa in Rwanda è vicina alla sua gioventù per ascoltarla e accompagnarla nella sua crescita. Valorizzando il modo sinodale, la Chiese dovrebbe continuare a dare più tempo ai giovani nei diversi progetti pastorali visto che sono una maggioranza».

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