Matteo Parenzan: Invictus

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A Parigi l’atleta triestino ha conquistato il titolo olimpico che sognava fin da bambino. La chiusura di un cerchio dopo il trionfo ai Mondiali ed Europei di tennistavolo. «Lo sport è la medicina che la scienza non è ancora riuscita a trovare alla mia malattia genetica»

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Matteo Parenzan in Piazza Unità a Trieste con la medaglia d’oro vinta a Parigi (ph. Steven Jewitt)

La voce di Matteo Parenzan non ha esitazioni. Trasmette la passione e la determinazione che il 21enne triestino, nuova stella del tennistavolo paralimpico, dedica ogni giorno negli allenamenti e nello studio.

La miopatia menalinica, malattia genetica per la quale non esiste ancora una cura, non gli ha impedito di coronare il suo sogno fin da bambino: conquistare una medaglia olimpica.

Un traguardo raggiunto attraverso fatica e sacrifici, successi internazionali e rinunce quotidiane. Al termine di un percorso che il giovane campione racconta in questa intervista.

Matteo, com’è nata la passione per il tennistavolo?

«Provengo da famiglia sportiva: papà allenava in serie A di baseball, in Spagna, mentre mamma giocava a basket. Durate le elementari mi sono avvicinato al ping pong e all’età di 7-8 anni mi sono reso conto di non essere solo competitivo, ma di riuscire a giocare alla pari con i miei compagni di scuola. Era l’unico sport che mi consentiva di sfidare e battere i miei coetanei. All’età di 9-10 anni ho iniziato ad allenarmi con il Kras e da lì sono arrivati i primi successi internazionali con il bronzo agli europei giovanili in Croazia. Il mio sogno era giocare a basket, lo sport che amo da sempre. Il tennistavolo però mi ha dato e mi sta dando la possibilità di competere ad alti livelli».

Conquistando l’Olimpiade: il massimo per un atleta.

«Sin da piccolino sognavo di poter partecipare alle Olimpiadi, in qualsiasi sport. Il mio obiettivo è stato quello di allenarmi con costanza perché solo il lavoro può consentire di raggiungere alti livelli. Non ho mai voluto bruciare le tappe, anche se sono il più giovane italiano nella storia del tennistavolo ad aver vinto il titolo nazionale all’età di 13 anni. Ovviamente i risultati aiutano a trovare nuovi stimoli, spingendo a migliorarmi ulteriormente. Sono benzina verso il tuo sogno. E il mio sogno erano le Olimpiadi, per cui ogni giorno facevo tutto quanto era necessario per raggiungere l’obiettivo. La passione poi è diventata anche lavoro: proprio un anno fa ho firmato il mio primo contratto professionistico con il Gruppo Sportivo della Difesa».

A proposito di Paralimpiadi: tu avevi già partecipato a quelle di Tokyo. Parigi che esperienza è stata?

«Un’esperienza fantastica. Se tre anni prima non fossi uscito ai gironi a Tokyo probabilmente non sarei arrivato con questa fame a Parigi. Dove l’atmosfera è stata incredibile. Non c’erano più biglietti per assistere alle nostre gare. Grazie all’aiuto della RAI che ha messo le Paralimpiadi sullo stesso piano delle Olimpiadi, l’impatto mediatico è stato gigantesco. A Tokyo mi ero creato tante aspettative e non avevo giocato sereno. A Parigi non ho voluto commettere lo stesso errore, grazie al percorso di maturazione compiuto in questi anni, anche dal punto di vista mentale. Non aver perso nemmeno un set e non aver concesso in finale più di sette punti a set al mio avversario è stato qualcosa di fenomenale. Il coronamento di un lavoro che ha coinvolto me, i tecnici e la mia famiglia».

Matteo Parenzan ai giochi paralimpici di Parigi 2024 (ph. Steven Jewett)

La testa è già a Los Angeles 2028?

«È un evento ancora lontano, ma sappiamo come quattro anni in realtà passino veloci. In mezzo avrò anche due Europei e un Mondiale. Tutti appuntamenti nei quali mi presenterò da campione in carica e con una pressione particolare che dovrò essere bravo a gestire. Sarà importate presentarsi bene fisicamente: cosa non scontata quando si gareggia in giro per il mondo, rischiando di prendere virus che possono destabilizzarti e mandare all’aria un lungo lavoro. Il primo obiettivo ora è qualificarsi per Los Angeles e arrivare lì in buone condizioni. Il dover vincere, invece, è qualcosa che non mi appartiene. Voglio giocarmela in modo sereno, con grande voglia, ma senza pressioni o obblighi di qualsiasi genere».

Europei, Mondiali, Olimpiadi: hai vinto tutto. Dove trovi gli stimoli per continuare ad allenarti al meglio per tornare a vincere?

«Il segreto è non accontentarsi mai e continuare sempre a lavorare, una mentalità che il mio allenatore mi ha trasmesso dalla scuola jugoslava. La vittoria e la sconfitta fanno parte di un cerchio continuo: non è la medaglia o l’insuccesso a definire chi sei. Gestire la fama e le delusioni è fondamentale. Anche perché vincere sempre abitua le persone accanto a te a ritenerla una cosa semplice, che invece non è. Con il rischio che la prima sconfitta faccia crollare tutto. Dopo ogni successo torno subito in palestra ad allenarmi. La determinazione è fondamentale tanto quanto non dare niente per scontato».

Quanto tempo dedichi agli allenamenti?

«Ho sempre lavorato molto al tavolo piuttosto che in palestra, visto che la mia malattia muscolare non mi permette di forzare con i pesi. Ho puntato sulla tecnica, rendendo efficaci i miei allenamenti su ciò che serve per fare il punto. Ripetendo all’infinito i movimenti. Dedico 2-3 ore al giorno all’allenamento: di più, con la mia malattia, sarebbe controproducente. A Sgonico mi alleno con le ragazze del Kras che giocano in Serie A2, atlete di un livello più alto del mio, cui riesco a tenere botta».

Campione paralimpico ma anche studente di Scienze politiche all’Università.

«Il mio sogno è sempre stato quello di vivere di sport. Sono però consapevole che il tennistavolo non è uno sport redditizio. L’Università rappresenta sia un obiettivo al di fuori dello sport che la possibilità di completarmi a 360 gradi».

Qual è il tuo rapporto con Trieste?

«Una città stupenda in cui sono nato, vivo e spero di continuare a vivere. Una città che mi ha dato tanto. Ancora oggi nel centro di Trieste mi fermano per foto e autografi: qualcosa che mi dà un piacere enorme, perché tutte queste persone si sentono parte del mio risultato. Dopo la vittoria all’Europeo e al Mondiale non era accaduto, a dimostrazione della visibilità unica che offrono le Olimpiadi».

Matteo Parenzan premiato in municipio a Trieste dal sindaco Roberto Dipiazza

Primeggiare nello sport e studiare nonostante la tua malattia cosa significa per te?

«La malattia pone dei paletti sulle cose che posso fare a livello fisico, ma mi consente di fare quasi tutto. A scuola quando si studia non si nota se uno ha una malattia genetica o ha un arto amputato, ma a ricreazione o negli altri momenti in cui si gioca o si fa attività motoria emergono le difficoltà fisiche. Io non sono mai stato discriminato o emarginato, ma ho sempre cercato di essere partecipe nelle attività con i compagni. Non potevo giocare a calcio? Facevo l’arbitro. Ma non restavo in disparte a guardare gli altri. Ero partecipe del gruppo, degli scherzi, delle condivisioni. Ora quello che faccio è finalizzato ad arrivare in salute alle competizioni sportive. Prima dei grandi appuntamenti per un mese non esco di casa e quindi non vedo nessuno per evitare di poter contrarre virus o semplici raffreddori. Sono le rinunce che ho scelto di fare: come non frequentare le feste o allenarmi a Capodanno invece di festeggiarlo con gli amici».

Lo sport quanto ti ha aiutato a diventare una persona autonoma?

«Lo sport è la medicina che la scienza non è mai riuscita a trovare. Lo sport mi ha consentito di essere autonomo senza il bisogno di avere qualcuno accanto che mi aiuti per fare qualcosa. Ho delle limitazioni, ma la consapevolezza di averle mi consente praticamente di non farle vedere».

La tua è una malattia genetica per la quale, a oggi, non esiste ancora una cura. Com’è la convivenza con questo pensiero?

«Da piccolo ai miei genitori chiesi “Perché è capitato proprio a me?”. Loro mi risposero che non volevano più sentire una frase del genere perché non potevo vivere con quel pensiero. In un tema a scuola mi venne chiesto quale animale volessi essere. Scrissi un uccello, perché così non serviva che corressi, ma potevo semplicemente volare velocemente come i miei coetanei. Poi ho capito che era importante trovare delle alternative per ciò che non riuscivo a fare. E crescendo non pensi più alla medicina o alla cura che non esiste, ma pensi solo a cercare di godere al massimo di ciò che hai e a non rimpiangere quello che non hai».

Ogni malattia e ogni individuo hanno la loro storia, per cui è impossibile e insensato fare similitudini. Ma se dovessi dare un consiglio ai giovani che convivono con malattie genetiche cosa diresti loro?

«Di accettare quello che siamo, di migliorare la persona che siamo e di essere contenti di poter vivere. Non guardare a quello che manca. Fare qualsiasi tipo di attività o seguire la passione che consente di poter esprimere il proprio potenziale. Ognuno di noi ce l’ha e talvolta bisogna solo capire quale sia. Dando e pretendendo rispetto».

Il sogno delle Olimpiadi lo hai realizzato. Ce ne sono altri?

«Creare una famiglia e avere dei figli a cui trasmettere e insegnare quanto ho imparato nella vita e nello sport».

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