Il fascino dei Balcani

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«Trieste è stata la vera capitale della Jugoslavia». Attraverso storie reali e personaggi di finzione, l’ultimo libro di Lorenzo De Giusti ripercorre tormenti e speranze di terre indissolubilmente legate all’Italia

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Lorenzo De Giusti a Sarajevo davanti al palazzo simbolo della città, la Vijecnica, la biblioteca incendiata durante l’assedio

Lorenzo De Giusti a Sarajevo davanti al palazzo simbolo della città, la Vijecnica, la biblioteca incendiata durante l’assedio

Tre. Un titolo e un numero. Ma anche un legame che connota storie e personaggi narrati nell’ultimo libro di Lorenzo De Giusti. Che narra vicende ambientate in Paesi dell’Est europeo. Luoghi che l’autore conosce molto bene. E dei quali ha condiviso con noi passato, presente e futuro.

Lorenzo De Giusti, nel suo libro si parla di Bosnia, Slovacchia e Albania. Come mai questa scelta?

«Dopo il diploma di ragioniere e la laurea a Trieste in Scienze Politiche, per dieci anni ho scaldato il comodo scanno di una banca, raggiungendo l’agognato piano alto nella gestione del personale. Di fronte alla mia scrivania facevano bella mostra tre poltroncine: tanti erano i sindacalisti nella banca. Fu una tortura moderna, il tedio elevato alla massima potenza, pur circondato dal paradiso terrestre: il lauto ventisette del mese. Il tentativo di fuga, presso le aziende industriali della famiglia, nello sforzo di metterci ordine, ebbe un’amara sorte: caddi dalla padella alle braci, continuò la dipendenza dalla banca».

Mi sfugge il nesso con la domanda…

«Al successivo disimpegno familiare dalle attività societarie seguii comunque l’istinto avito: la dedizione alla piccola impresa, diventando consulente presso una Associazione di imprenditori. Mi dedicai  maggiormente alle relazioni industriali e a quelle internazionali. L’area di intervento privilegiò i Balcani, alle porte di casa, dove il terreno era fertile per proficue collaborazioni. Divenni un esperto di Bosnia (come dire esperto del tubo), ma anche di Serbia, Croazia, Slovacchia, Albania, Montenegro e, per breve periodo, Ucraina. Ho cercato di dare un contributo innovativo a questo lavoro: grazie a una capillare rete di contatti locali, costituita da imprenditori – il più delle volte personaggi maneggioni, trafficanti e corruttori –, ero in grado di proporre alle aziende italiane le opportunità di business offerte da questi Paesi emergenti. Il Covid, per fortuna, ha posto fine a questo supplizio di Tantalo, dando forza vitale al desiderio represso di una vita: la passione del raccontare storie vissute e un po’ inventate».

Tre è il numero ricorrente nella sua opera: tre storie con tre personaggi… Ma anche tre assiomi che cita in copertina: libertà, identità, moderazione. Perché questa scelta?

«Sono alquanto allergico alle verità assolute, imposte e ai dogmi. I tre assiomi sono solo un pretesto per la creazione delle cornici o dei confini entro cui si svolgono le mie storie. Sono descritti, intuiti e percepiti in una forma dubitativa, come se io e i vari personaggi fossimo alla ricerca delle proprie conoscenze: nessuna certezza quindi».

Eppure quei tre assiomi sono ben definiti.

«L’identità rappresenta la Bosnia e anche i Balcani interi, dove nascono, muoiono, si evolvono di continuo identità vere e anche farlocche. Un fantasma aleggia per i Balcani: la paura di perdere la propria identità. Paura su cui hanno pestato i mestatori nel torbido – i vari Slobo, Franjo, Alija, Rado (i capi delle fazioni nel conflitto fratricida: Milošević, Tuđman, Izetbegović, Karadžić) – e che è stata la benzina che ha alimentato il fuoco della guerra. La moderazione è quasi invocata con l’auspicio che sia più forte degli estremismi. Infine, la libertà non ha bisogno di commenti in quanto aspirazione massima di ognuno, buono o cattivo, bello o brutto».

Da “esperto di Bosnia”, come se la passano ora quei territori?

«La Bosnia vive con le rimesse dall’estero. Supermercati e ristoranti sono cresciuti come funghi e solo là circolano le banconote da 500 euro; girano tanti soldi facili arrivati da chi lavora in Italia, Germania, Svizzera, ma i figli di questi emigrati continueranno a mandarli? No, di certo. Il Paese sembra senza futuro».

Slovacchia e Albania, invece?

«La Slovacchia continua a essere un Paese sconosciuto, senza ‘palle’, che nessuno si accorge che esiste. La nostalgia del regime come le sirene occidentali (gli investimenti europei e la presenza di multinazionali e di un’industria automobilistica straniera) convivono in armonia, per il piacere della non scelta, del rinvio, della pace sociale e dello spirito. L’Albania ha qualche buon numero. Il turismo innanzitutto. Giocano a favore natura incontaminata, ospitalità, perle storiche e cucina intrigante. Vedremo».

Tre
La copertina del libro

Il suo libro mette in evidenza lo stretto legame tra i Paesi dell’Est Europa e l’Italia. Questo rapporto come si è evoluto negli ultimi anni?

«A parte un po’ di revanscismo croato, l’Italia gode di grande stima e simpatia nei Balcani. Bisogna porvi maggiore attenzione e diventare il Paese amico, più che guida. Attenzione che però l’assenza dell’Unione Europea sta allontanando alcuni Paesi. Esempio: l’ingombrante presenza cinese in Serbia e Montenegro».

Lei è nato ad Aiello del Friuli e vive a Udine. La nostra regione di confine ha sempre avuto un’interazione intensa con i Balcani. Proseguirà anche in futuro?

«Io esprimo un paradigma: Trieste è stata la vera capitale della Jugoslavia. Non perché la comunità ortodossa è ben integrata in città, non perché l’Amatori Ponziana militò nella Prva Liga jugoslava, ma perché da Croazia, Bosnia, Serbia, Macedonia si guardava a Trieste come a un padre superiore. Tutti aspiravano a venire a fare shopping a Ponte Rosso (jeans, bambole, souvenirs); i business si impostavano in città; gli operatori e gli intellettuali trovavano il clima occidentale accogliente e disponibile a dispetto del cupo e nostalgico ambiente orientaleggiante che guardava a Mosca o a Istanbul».

Quali sono le principali differenze tra vivere in Italia e vivere nei Balcani?

«Sembra un paradosso, ma non lo è: si vive bene nei Balcani. Si mangia, si beve, si canta, si balla. I bosniaci hanno un senso dell’autoironia unico. Ho passato intere notti a suon di barzellette. Ma è tutto lì. Si vive e si lavora meglio in Italia. Ovviamente il regime ha lasciato in eredità una macchina burocratica inefficiente e inutile».

I protagonisti del suo libro che abbandonano l’Albania per cercare la libertà in Italia, alla fine scoprono che la libertà sta nel rientro nella terra d’origine. Cosa significa?

«Bisogna partire dalle tradizioni e usanze dell’Albania. Il desiderio o bisogno di libertà ha un’origine atavica; è nel Dna. Il Kanun, il codice tribale albanese, afferma che “non è uomo chi non mantiene le promesse”. La chiamano besa. Orbene gli albanesi del libro ritrovano la loro libertà proprio rientrando dopo aver dimostrato in Italia capacità e voglia di riscatto. Avevano promesso di diventare ricchi e una volta diventati sono ritornati per mostrare di essere liberi di adempiere ai canoni del Kanun».

Nel sul libro c’è una domanda ricorrente: “Il male del Comunismo, se male è, è stato il Comunismo in sé o la sua caduta?” Perché la pone?

«Nei miei primi viaggi, caduto da pochi anni il muro, mi scontravo con mentalità, abitudini, stili di vita ovviamente distanti anni luce dalla nostra ‘civiltà’, per modo di dire. Poi piano piano ho capito il gioco e ho tarato i comportamenti. Ma il nostro e il loro sono due mondi diversi, forse inconciliabili. Retaggio del comunismo, a mio avviso. Quindi il male è stato il comunismo che ha creato questa diversità: oppure il male è stata la caduta del comunismo che ha fatto emergere questa rottura degli equilibri ormai consolidati?»

De Giusti accanto al monumento di Ivo Andric a Sarajevo
De Giusti accanto al monumento di Ivo Andric a Sarajevo

Lei che risposta darebbe?

«Sono di parte: non mi piace il comunismo».

Lorenzo De Giusti sta già lavorando a nuovi libri?

«Chi ama scrivere come me ha nel computer e nei taccuini un fiume di parole e di pagine. Per scaramanzia non dico di più. Il libro è fatto per scriverlo, più che per leggerlo. Continuo finché il buon Dio mi dà forza e ispirazione a trarre piacere dalla scrittura».

Nel 2025, anno di Gorizia Nova Gorica Capitale Europea della Cultura, ricorreranno i 30 anni degli Accordi di Dayton, che stabilirono la spartizione della Bosnia in due entità con l’istituzionalizzazione delle etnie. Una soluzione destinata a durare anche in futuro?

«Gli Accordi di Dayton sono serviti per porre fine alla guerra; difatti avevano una scadenza, ormai trascorsa da decenni. Il risultato è stata la costituzione di un mostro costituzionale: tre parlamenti, tre governi, due eserciti, due polizie, due sistemi giudiziari e amministrativi. La situazione attuale è che nessun attore internazionale ha voglia o interesse a metterci le mani in quella cosa lì, estremamente complicata. La Bosnia si barcamenerà cercando di sopravvivere: sarà la popolazione a trovare una soluzione. I miei amici bosniaci imprenditori mi dicono che per loro gli assetti di Dayton sono più che superati».

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