Il risveglio dei borghi addormentati

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Michele Tomaselli

6 Giugno 2017
Reading Time: 8 minutes

Le città fantasma del FVG

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Avvolti nel mistero e immersi in una dimensione fuori dal tempo, alcuni borghi fantasma del Friuli Venezia Giulia ritornano a vivere. Spesso si tratta di paesi inghiottiti dalla vegetazione dove la luce filtra con fatica, ma nonostante le parvenze celano segreti, storie e leggende inimmaginabili. Qualcuno li chiama “belle addormentate” altri “paesi fantasma”: si tratta di luoghi che sono stati lasciati dall’uomo per svariati motivi e che conservano le suggestioni del passato. Misteriose le cause  dell’abbandono ma senz’altro riconducibili alle difficoltà di collegamento con il mondo esterno, alle poche speranze di vita e al terremoto del 1976.

Per chi è in cerca di un itinerario di viaggio fuori dalla folla e dalle mete di massa questi borghi, oggi spesso ridotti a ruderi, rappresentano una meta ideale per gite fuori porta. Iniziamo il percorso alla scoperta delle città fantasma del Friuli Venezia Giulia…

È una domenica di gennaio. Fuori nevischia ma il meteo va migliorando, mi aspetta una giornata intensa, un viaggio nel tempo alla scoperta della Val Tramontina, nel cuore delle Prealpi Carniche, un piccolo mondo sospeso, ricco d’acqua. Giampiero, un oriundo del luogo, mi racconta che un tempo la valle era molto popolata, specialmente quando la produzione casearia era un business e l’allevamento delle mandrie era molto praticato. Col tempo queste tradizioni sono venute meno e oggi i villaggi sono stati abbandonati.

Peraltro negli ’50 la Sade (Società Adriatica di Elettricità) costruì la diga che trasformò la vita della Val Tramontina e molti dei residenti furono di conseguenza costretti ad andarsene. Di quel mondo antico rimangono i resti di Movada, un piccolo borgo inghiottito dalle acque del Meduno, che nelle stagioni di siccità spuntano fuori dal lago di Redona. L’itinerario parte da Comesta, una frazione del Comune di Tramonti di Sotto. Dopo circa un’ora e mezza di cammino, attraverso un esile e ripido sentiero arriviamo al borgo fantasma di Tamar: un ammasso di rovine, abitato fino alla fine degli anni ‘50, anche se oggi in parte ricostruito. I proprietari di alcuni stabili hanno deciso di recuperarli e di destinare un locale a ricovero. Il 30 settembre 2007 è stato inaugurato il bivacco “Guglielmo Varnerin”, in ricordo di uno degli ultimi abitanti. Da allora è gestito dalla sezione del CAI di San Vito al Tagliamento. Renato Miniutti, originario della vallata e artefice di questa ricostruzione, ha realizzato con perizia una meridiana, ben visibile entrando nel cuore del borgo. Degni di segnalazione anche un pozzo, un arco in pietra e l’assetto urbanistico originale: le abitazioni venivano disposte secondo una traiettoria circolare molto probabilmente per favorire i rapporti della comunità.

Proseguiamo l’escursione fino a oltrepassare la Cascata del Velo e una vecchia fornace per la produzione di calce; dopo circa un’ora di sentiero impervio, anche se oggi risistemato, arriviamo a Palcoda, un borgo abbandonato tra aceri e noccioli, situato nel Canale del Chiarzó, che stupisce storicamente per il suo sviluppo nonostante l’isolamento. Le case sono ridotte a un cumulo di rovine e la natura si è riappropriata degli spazi che l’uomo le aveva portato via, anche se la chiesa del 1790, costruita dalla famiglia Masutti e intitolata a San Giacomo, è stata recentemente ristrutturata. Una passeggiata tra i ruderi ci riporta indietro nel tempo. Palcoda fu abitato stabilmente fin dal XVII secolo; le attività principali erano l’agricoltura, la pastorizia e la produzione di cappelli di paglia – questi ultimi venduti anche in Norvegia – e nel periodo di maggiore sviluppo arrivò a contare 150 abitanti, fino a quando, nel 1923, i Masutti, gli ultimi abitanti del paese, emigrarono altrove in cerca di fortuna, segnando così il destino della borgata.

Tornò a rivivere, seppure brevemente, dopo l’8 settembre 1943, assieme al vicino borgo di Tamar, quando diventò il quartier generale di un gruppo di partigiani della Garibaldi-Tagliamento. Fu così teatro di rappresaglia tanto che, il 5 e il 6 dicembre 1944, la terza compagnia del plotone “Valanga” della Xª Flottiglia MAS mise a ferro e fuoco il paese uccidendo tre partigiani.

Morirono Giannino Bosi, detto Battisti (comandante del gruppo “Sud”), Jole De Cilia, detta Paola (la sua compagna) e Eugenio Candon, detto Sergio, mentre quasi tutti gli altri furono processati e poi impiccati. Mauro Daltin, scrittore e appassionato viaggiatore, scrive nel libro I piedi sul Friuli: “Palcoda ha il sapore di tutti quei posti dove la natura si è andata a riprendere lo spazio che l’uomo le ha sottratto. Gli alberi occupano le strade, il muschio copre le pietre dei pavimenti, le ragnatele disegnano mezze lune agli angoli di archi pericolanti. I tronchi crescono sbilenchi, uno sopra l’altro e si appoggiano ai muri, attraversano finestre e puntano diritti verso le montagne che, ad alzare il naso all’insù, le vedi lì e non  riesci a distinguere il cielo dalla roccia. (…) I Masutti erano stati i primi a mettere piede in questo pezzo di terra, a rendere vivo, a costruire le case, la piazza, il mulino e la chiesa. Oltre alla loro famiglia c’era anche quella dei Moruzzi e un altro centinaio di persone, centocinquanta al massimo. Era un posto dimenticato da tutti. Non c’era una scuola e ai bambini veniva insegnato a leggere e scrivere secondo la buona volontà di una persona del borgo. Solo per pochissimo tempo, e in un anno imprecisato, ci fu una maestra. Le case erano illuminate da piccoli lumini a olio, non si mangiava né carne né pane e tutta l’alimentazione era a base di polenta e patate. Le donne producevano il carbon dolce che poi vendevano nei paesi vicini. Nel giro di un decennio dopo la Prima guerra mondiale, le famiglie cominciarono ad abbandonare il borgo per sistemarsi in luoghi diversi, in Friuli, a Trieste, a Fiume, a Torino, a Padova, alcuni nelle Americhe. E l’ultimo a lasciare Palcoda, in quell’autunno del 1923, non poteva che essere un Masutti”.

Sulla via del ritorno ci fermiamo a Vuar. Si tratta di un piccolo insediamento semidistrutto costruito dalla famiglia Rugo, nell’800: incorpora una casa patriarcale, architettonicamente molto interessante, che presenta una facciata a doppio ordine di loggiati. La settimana successiva con il fotografo Igino Durisotti arrivo in Val d’Arzino, una valle selvaggia e incontaminata nel cuore delle Prealpi Giulie. Un percorso interessante è quello che parte dalle sorgenti del torrente Arzino, sotto Sella Chianzutan, fino ad arrivare a Pozzis. Questo borgo, abbandonato nei primi anni ’60 per il fenomeno dell’emigrazione, è molto isolato da Verzegnis ed è famoso sopratutto per l’atroce delitto avvenuto nel 1999. Mauro Daltin lo definisce “L’ultimo avamposto del mondo”.

Ad accoglierci troviamo il silenzio. Scendiamo lungo una strada strettissima; a un tratto un pastore belga mi viene incontro, mordendomi le gambe. Proseguiamo senza timori fino a oltrepassare un arco in legno che recita “Hasta la Victoria siempre”, e troviamo il Cocco, l’unico abitante della borgata, che ci offre ospitalità, ci prepara un the caldo e comincia a raccontarci le sue storie. Alfeo “Cocco” Carnelutti, classe 1944, originario di Pers di Majano, incontrò la borgata per la prima volta negli anni Cinquanta grazie a suo papà Guglielmo (uno dei più grandi cacciatori della zona), al ritorno da una battuta di caccia, quando allora vi risiedevano 40-50 persone. Nel 1982 non ci abitava più nessuno ma lui decise di venirci a vivere. Arrivò a Pozzis con una Renualt 4 tutta sfasciata e con dei caproni a bordo; occupò abusivamente una stanza semidistrutta di 3 metri per 3, senza acqua corrente e riscaldamento, quindi sistemò i bovidi nella vicina stalla. Per due anni visse da eremita mangiando polenta, formaggio e qualche trota dell’Arzino.

Quest’uomo appassionato di motoraduni, donne, sesso, rock&roll e Harley Davidson, di fede comunista, con tre matrimoni alle spalle e quattro figli si rese colpevole, nel 1996, di un crimine efferato: l’omicidio a colpi di pistola di una lucciola albanese poco più che ventenne, “Giuliana”, uccisa dal Cocco per evitare che informasse il racket della prostituzione della presenza di una donna nella sua casa. L’uomo infatti dava riparo ad Albana (all’anagrafe Entela Zaçaj), una giovane squillo sottratta dalla strada che, alla pari della vittima, si prostituiva per i marciapiedi. L’assassino dormì sonni tranquilli fintantoché l’ex amata prostituta, dopo essere fuggita, lo denunciò alla Polizia. Il cadavere di “Giuliana” venne poi ritrovato vicino al cimitero di Pozzis. Il Cocco venne condannato a 12 anni e 4 mesi di galera. Uscito per buona condotta dal carcere di Tolmezzo, raggiunse la Cina per sposarsi la terza volta. Oggi, Cocco ha chiuso col passato e a sentirlo parlare sembra l’ultimo difensore di questo mondo perduto.

Ma anche altri avvenimenti storici coinvolsero Pozzis. Nel luglio 1944 divenne un caposaldo cosacco in cui fiorirono amori e matrimoni con la comunità locale; fu un feudo di partigiani russi e, nel 1872, l’epicentro di un’epidemia di isterodemonopatie (possessioni demoniache), molto probabilmente causata da una ragazza di 25 anni, tale Margherita Vidusson, che contagiò altre 24 ragazze e un giovane carabiniere del circondario. Del fenomeno s’interessò la scienza ma pure la Chiesa: tuttavia non si riuscì mai a dare una spiegazione scientifica, per questo Pozzis fu soprannominato “il borgo dell’orrore e della follia”.

Secondo la testimonianza di Markus, un bavarese che ci ha comprato casa, Pozzis ospitò Giuseppe Taliercio, l’ingegnere sequestrato e ucciso dalle brigate rosse nel 1981 prima della sua prigionia a Tarcento. Secondo alcuni abitanti di San Francesco (la piccola frazione del Comune di Vito d’Asio che s’incontra in direzione di Pielungo sulla strada Regina Margherita) fu per un breve periodo il covo di Adriana Faranda, ex terrorista italiana militante delle brigate rosse. Dulcis in fundo sempre qui sono state girate alcune scene del film ‘Porca vacca’, con Renato Pozzetto e Laura Antonelli.

Nelle settimane seguenti raggiungo invece Moggessa di Qua e Moggessa di Là, nel comune di Moggio Udinese. Ebbene sì: esistono due Moggesse che si trovano a mezz’ora di distanza l’una dall’altra. Ambedue sono raggiungibili solo a piedi, sebbene da una decina d’anni una stradina, riservata ai soli proprietari, collega Moggessa di Là alla Val Aupa. Nel primo

Novecento Moggessa di Qua contava oltre 170 abitanti, ma oggi è ridotta a un cumulo di rovine e a qualche abitazione ristrutturata. Le tante bandierine colorate con le preghiere del Mantra che sventolano nell’aria e che creano un’atmosfera di pace fanno sembrare il borgo un angolo di Tibet.

Per poter parlare con qualcuno mi devo recare a Moggessa di Là, oltre il Rio del Mulin, spartitraffico tra le due frazioni. Anche in questo caso scopro che degli abitanti non c’è nemmeno l’ombra. Mi raccontano che l’ultimo moggessano, Silvio Simonetti, se ne è andato per vivere con la figlia. Qui aveva trovato la pace dopo aver lavorato nella miniera di Cave del Predil, ma alla soglia degli ottant’anni è dovuto emigrare per vincere l’isolamento. Anche se disabitato il posto è magnifico: ci sono tre fontane con l’acqua che sgorga purissima, una chiesetta ristrutturata e interessanti esempi di architetture spontanee, quasi tutte risistemate.

Nel racconto autobiografico Mestri di mont Tito Maniacco ricorda la borgata nella sua prima esperienza di insegnamento, durante una supplenza nella scuola elementare, in quell’unica classe di diciassette alunni, maschi e femmine, dalla prima alla quinta. Ci arrivò nel 1956 da Prapaveris, percorrendo quello stesso sentiero di oggi, in mezzo a un fitto bosco di faggi, ghiaioni e pini mughi per incontrare una comunità destinata a scomparire.

Termina così il nostro viaggio, sebbene ci siano tanti altri luoghi da visitare: da Chiout degli Uomini (Chiusaforte) a Cja Ronc (Pinzano al Tagliamento), a Praforte (Castelnovo del Friuli), a San Vincenzo (Tramonti di Sotto), a Erto (Erto e Casso), a Riulade (Moggio Udinese), a Chisalizza (Lusevera), a Puller (Pulfero) a Picon e Cernizza (San Leonardo), a Cišnje, (San Leonardo) quest’ultima una sorta di Angkor Wat della Benecia: piccoli mondi abbandonati che custodiscono storie e curiosità tutte da riscoprire.

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