I polmoni dei cantierini

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redazione

14 Giugno 2016
Reading Time: 4 minutes

Intervista a Roberto Covaz

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“Gli operai del cantiere erano molto orgogliosi di costruire navi belle e imponenti. Ma un giorno, prima uno e dopo altri mille e mille ancora hanno cominciato a respirare male. Molto male. Fino a morire. Li ha uccisi l’amianto”. Ancora oggi, rileggere le parole di Roberto Covaz scritte nel libro “Amianto – I polmoni dei cantierini di Monfalcone”, edito da Edizioni Biblioteca dell’Immagine, ha l’effetto di scuotere l’animo. A tre anni di distanza dalla pubblicazione, assieme a lui vogliamo capire cosa sia successo nel frattempo e, soprattutto, cosa potrà succedere in futuro. Affinché le vittime non siano dimenticate e quanto avvenuto non ricapiti mai più.

Roberto, cosa ha significato per lei scrivere questo libro?

«Il cantiere è stato la linfa vitale per generazioni di monfalconesi e non solo. È stato un motivo di orgoglio per chi ci lavorava e per la città. Ma quello stesso cantiere, a causa di precise responsabilità che i processi in corso cercano di individuare, ha ucciso centinaia di lavoratori che sono stati esposti all’amianto, ignari della pericolosità di questo materiale e non adeguatamente protetti.  Il libro è un piccolo segno di riconoscenza per queste vittime e, mi rendo conto, una velleitaria richiesta di giustizia morale».

Cosa significa invece l’amianto per il territorio monfalconese?

«La tragedia dell’amianto, pur avendo lacerato migliaia di famiglie, non è concepita come una tragedia collettiva. Ciascuno si tiene dentro il proprio dolore e la propria rabbia. Forse questo attiene al nostro carattere. Si parla poco e mal volentieri dell’amianto. L’attuale Fincantieri non ha alcuna responsabilità di questa tragedia eppure credo che molti non parlino dell’amianto per non infastidire l’azienda. Il posto di lavoro prima di tutto. Posizione legittima, sia chiaro».

Nel suo libro scrive che “da noi il silenzio uccide”…

«Nel libro scrivo che se cade un aereo, dopo pochi minuti tutto il mondo lo sa. Le morti per amianto del cantiere di Monfalcone sono l’equivalente dei passeggeri di quattro-cinque Antonov precipitati. Quando si muore a causa di un’ingiustizia e tale ingiustizia viene insabbiata nel silenzio è come se si fosse ucciso una seconda volta».

Molti parenti delle vittime dell’amianto non hanno invece voluto tacere rivolgendosi alla giustizia. Come giudica i processi che ne sono seguiti?

«In questo momento il Tribunale di Gorizia ha celebrato due processi di primo grado che si sono conclusi con la condanna per omicidio colposo di circa 15-20 ex direttori ed ex dirigenti dell’Italcantieri. Seguirà il giudizio in appello. Altri due processi sono in fase di avvio, ma l’esito dipenderà soprattutto dal numero di giudici a disposizione del Tribunale di Gorizia. L’impianto accusatorio dei primi due processi, accolto sostanzialmente dai due diversi giudici che li hanno celebrati, è che i dirigenti dell’Italcantieri non potevano non sapere della pericolosità dell’amianto e non hanno posto in essere alcuna misura di prevenzione e tutela dei lavoratori».

Come lei stesso scrive, le cause delle morti per amianto sono dovute alle condizioni di lavoro e ai materiali usati decenni fa. All’epoca come si sarebbe potuto evitare tutto ciò?

«Mettendo al bando l’uso dell’amianto come è avvenuto dopo la legge del 1991».

A proposito, com’erano le condizioni di lavoro all’interno delle navi?

«Quello che so è quanto ho appreso da svariate testimonianze, a cominciare da quella di mio padre e di altri familiari cantierini. Negli anni Sessanta e Settanta le condizioni di lavoro erano tali da ritenere quello dell’amianto un problema secondario, pur essendo già nota la sua nocività. Il sindacato ha fatto delle scelte che oggi appaiono sbagliate ma che all’epoca furono  evidentemente ritenute più importanti di altre».

Cosa ha significato e cosa significa ora il cantiere navale per Monfalcone e il suo territorio?

«Distinguerei i periodi storici. Per me il cantiere dei monfalconesi – intendendo con ciò il cantiere in cui lavoravano gli operai provenienti dal Monfalconese, dall’Isontino e dalla Bassa friulana – finisce nel 1989 con la consegna della piattaforma Micoperi, il più grande oggetto galleggiante mai costruito al mondo. Da quella data comincia la stagione delle navi passeggeri ma, contestualmente, Monfalcone assiste impotente all’appalto e al subappalto di svariate lavorazioni e all’afflusso incontrollato di migliaia di lavoratori stranieri senza alcuna tutela. Il risultato è la Monfalcone di oggi, città simbolo della delocalizzazione alla rovescia».

Gli effetti dell’esposizione all’amianto fino a quando continueranno a mietere vittime?

«Gli esperti ritengono che il picco di decessi ci sarà tra due-cinque anni».

Nel suo libro scrive che raccontare la storia di Monfalcone significa raccontare la storia della città dell’amianto. Vale anche per il presente?

«No, l’amianto come ho detto è un argomento tabù. Mi accontenterei che Monfalcone, tra vent’anni, non fosse identificata come la città in cui si muore per la passata esposizione di lavoratori a qualche altro materiale pericoloso e di cui oggi qualcuno timidamente accenna».

Oltre a testi come il suo, in che modo si può mantenere viva la memoria di quanto accaduto affinché non si verifichi più in futuro?

«Non saprei, francamente sono molto sfiduciato. Sono curioso di vedere se nel futuro museo della cantieristica, che sarà allestito nell’ex albergo operai, prevedranno una sezione dedicata alle vittime dell’amianto».

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