Pazienti, risarcimenti e responsabilità medica

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Massimiliano Sinacori

12 Giugno 2015
Reading Time: 4 minutes

Gli orientamenti dopo la Legge Balduzzi

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Negli ultimi decenni molti fattori, tra cui il progresso scientifico, le accresciute aspettative di cura, l’implemento delle ipotesi di intervento sanitario, hanno ampliato l’ambito di indagine concernente la responsabilità del medico, tanto da travalicare i limiti del circoscritto rapporto che lega il medico al paziente e da far ritener preferibile la locuzione responsabilità medica, al fine di ricomprendere tutti i titoli di responsabilità in materia.

È dato notorio, inoltre, che in Italia si sia registrato un rilevante aumento del numero di azioni giudiziali promosse nei confronti del personale medico e delle strutture ospedaliere. La situazione venutasi a creare è molto complessa: un tempo le ipotesi nelle quali veniva riconosciuto un risarcimento a seguito di un errore sanitario erano rare; oggi, invece, si è invertita. Ciò ha ingenerato un circolo vizioso, etichettato con il nome di medicina difensiva: i medici si sono “difesi” richiedendo esami diagnostici non necessari per i pazienti e particolarmente onerosi per il servizio sanitario, oppure rifiutandosi di trattare i casi più complessi e a rischio denuncia. In questo contesto è stata introdotta la Legge Balduzzi, Legge 8 novembre 2012 n.189, nata con l’obiettivo di interrompere il fenomeno della medicina difensiva appena descritto, in quanto penalizzante anche per la spesa pubblica, e al contempo di promuovere un più alto livello di tutela della salute.

Ai sensi dell’art.3 della suddetta legge “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque l’obbligo di cui all’art.2043 c.c.”. Il richiamo esplicito alla disciplina della responsabilità risarcitoria da fatto illecito (art.2043 c.c.) è stato interpretato da alcuni come una sorta di “atecnico” rinvio alla responsabilità risarcitoria dell’esercente la professione (in tal senso, fra gli altri, Tribunale di Arezzo 14/02/2013 e Tribunale di Cremona 19/09/2013), mentre altri (Tribunale di Varese 29/12/2012) hanno inteso la previsione in esame come volta a chiarire che, in assenza di un contratto concluso con il paziente, la responsabilità del medico non andrebbe ricondotta nell’alveo della responsabilità da inadempimento.

Il primo orientamento resterebbe fedele al consolidato indirizzo giurisprudenziale, instauratosi a partire dal 1999 con la sentenza della Corte di Cassazione n.22/1/1999, del “contatto sociale” tra medico e paziente. Tale orientamento considera l’autore della condotta attiva o omissiva produttiva del danno subito dal paziente, un soggetto con il quale il paziente non ha concluso un contratto diverso ed ulteriore rispetto a quello che obbliga la struttura nella quale il sanitario opera, che è incontrovertibilmente di tipo contrattuale. Pertanto, in tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, l’ente ospedaliero risponde a titolo contrattuale per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione di un medico proprio dipendente ed anche l’obbligazione di quest’ultimo, benché non fondata su un atto scritto, ha natura contrattuale.

Logico corollario di questa impostazione è l’applicazione della relativa disciplina in tema di riparto dell’onere della prova fra le parti, per la quale il paziente ha l’onere di provare il solo contatto con il medico allegando semplicemente l’inadempimento o l’inesatto adempimento del medico, nonché del termine decennale di prescrizione dalla data del verificarsi del danno. A favore di questo tradizionale e maggioritario orientamento si è anche espressa in più casi la Suprema Corte la quale ha insistito sul fatto che il richiamo all’art.2043 non intenda ricondurre la responsabilità civile del sanitario a quella extracontrattuale, bensì solo escludere, in tale ambito, l’irrilevanza della colpa lieve.

Tuttavia, il tenore letterale dell’art.3 L.189/2012 e le esplicite finalità perseguite dal legislatore del 2012 non sembrerebbero legittimare un’interpretazione della norma nel senso che il richiamo all’art.2043 c.c. sia atecnico o frutto di una svista. Il secondo orientamento, a riguardo, ritiene che il richiamo esplicito all’art.2043 c.c. sia indubbiamente quello di limitare la responsabilità degli esercenti una professione sanitaria e alleggerire la loro posizione processuale. Avrebbe dunque una sua logica la minoritaria ma più recente interpretazione fondata sulla convinzione che, a seguito della Legge Balduzzi, il danneggiato che agisca in giudizio nei confronti del medico con il quale è venuto in contatto presso una struttura sanitaria, e senza avere con lo stesso concluso un contratto d’opera professionale, debba provare la responsabilità dell’esercente sostenendo la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale. Corollario di tale orientamento sarebbe la prescrizione in cinque anni del diritto risarcitorio.

Se, poi, insieme al medico fosse convenuta anche la struttura sanitaria, la disciplina della responsabilità andrebbe distinta: extracontrattuale per il medico e contrattuale per la struttura, senza trascurare che essendo unico il fatto dannoso, qualora le domande siano fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno ritenuti in solido al risarcimento del danno. La Corte di Cassazione il 20 marzo 2015 con sentenza n.5590 ha affrontato il caso in cui venga, invece, effettivamente provato un contratto tra esercente e paziente. Il danneggiato avrà l’onere di allegare i documenti comprovanti il contratto insieme con l’aggravamento della situazione patologica e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione del sanitario, mentre l’obbligato professionista dovrà provare che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. Rimangono irrilevanti, sotto il profilo della distribuzione dell’onere probatorio, i gradi di difficoltà degli interventi posti in essere.

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