Un caso del destino

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Vanni Veronesi

20 Maggio 2014
Reading Time: 6 minutes

Anita Kravos

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Si è formata alla scuola teatrale russa dove Stanislavskij faceva le prove con Anton Čechov, ma ha iniziato il cinema per caso, mentre vendeva gelati a Roma. È partita dalla provincia di Gorizia, dal confine estremo d’Italia, ed è approdata a Hollywood con La grande bellezza, Oscar per il Miglior Film Straniero. Parla sei lingue ed è una cittadina del mondo, ma il suo cuore batte ancora a Nord Est.

Non si può non partire dall’Oscar: lei era a Hollywood quel giorno, vero?

«Mi trovavo lì già dalla settimana precedente, per partecipare al Los Angeles Italia Festival, che terminava il 1 marzo: il giorno dopo si sarebbe svolta la cerimonia degli Oscar e così mi sono fermata. In sala erano presenti Paolo Sorrentino, accompagnato dalla moglie, da Toni Servillo e dal produttore Nicola Giuliano; io e altri abbiamo invece atteso il verdetto a casa del console italiano Giuseppe Perrone».

Poi, Ewan Mc Gregor sale sul palco per premiare il Miglior Film Straniero: ci racconta quei momenti?

«Ci siamo accalcati tutti davanti al televisore, fra spinte, “fatti in là” e “silenzio!”… e poi, come se nulla fosse, sentiamo pronunciare “The Great Beauty. Italy!”. Abbiamo lanciato un urlo fortissimo: è stata un’emozione enorme. Poi sono arrivati Sorrentino e tutti gli altri: li abbiamo accolti a spumante, festeggiamenti, applausi… e poi giù con le fotografi e. Bellissimo, davvero, anche perché possiamo vantarci di portare nel mondo un prodotto di qualità e di cultura».

Qual è, secondo lei, la giusta chiave di lettura per un film complesso come La grande bellezza?

«Io l’ho vissuta innanzitutto come un’opera che parla di temi estetici. Quando il protagonista, Jep Gambardella, si rivolge al prestigiatore che fa sparire la giraffa, domandandogli di farlo sparire a sua volta, il mago gli risponde che la sua è solo una ‘baracconata’ per deliziare il pubblico. La grande bellezza parla appunto dell’arte oggi, di quanto sia difficile realizzarla in questa Italia e di come, nonostante tutto, si continui a farla. Parla di come sia necessario perpetrare la magia, financo la ‘baracconata’… ma se ci fa sognare e ci porta anche agli Oscar, ben venga! In verità, il film raggiunge vertici estetici assoluti e, come dice Toni Servillo, mette in scena la dissipazione: dell’arte, del talento, della creatività. Avere tante possibilità e buttarle a mare, per il tipico vizio italiano dell’accidia. Stare davanti a una delle meraviglie del mondo, il Colosseo, e parlare di nulla… che è il simbolo di un’epoca a cui, spero, stiamo dicendo addio».

Lei nel film è Talia Concept, protagonista di una strampalata performance nella quale sbatte la testa correndo contro un muro: quanta produzione cosiddetta ‘culturale’ di quel genere esiste?

«Prima di interpretare Talia non ero a conoscenza di questo mondo, che invece esiste, eccome. A me però piace difendere tutti i personaggi che interpreto: trovo che anche in lei ci sia un cuore di verità. Lei crede davvero a un principio artistico, a quella “vibrazione” di cui, tuttavia, non riesce a spiegare il significato: interpretarla mi ha divertito moltissimo!»

Si dice che il cinema sia povero di grandi ruoli femminili; lei però ha dato vita ad alcuni personaggi meravigliosi. Esiste davvero questo problema di genere?

«Sì, è una semplice questione statistica. Il prototipo del protagonista è principalmente maschile: la classica “storia di un uomo che”. Io però ho avuto la fortuna di incontrare la regista Marina Spada, rispondendo a un annuncio per il suo Come l’ombra, fi lm tutto al femminile che, lo posso dire, mi ha cambiato la vita: girato con pochi fondi, è arrivato alla Giornata degli Autori del Festival di Venezia nel 2006 e da lì in decine di altri festival. Devo molto a Marina Spada: mi ha insegnato a stare “dentro un’inquadratura”, inserendomi nel cinema dopo il mio percorso teatrale».

In Alza la testa ha interpretato un transessuale: cos’ha significato per lei recitare in un ruolo così difficile, specie in un paese come l’Italia?

«Ivan, che si fa chiamare Sonia, è il personaggio che ogni attore o attrice vorrebbe interpretare: contiene tutte le maggiori contraddizioni ed è alla ricerca di un altro sé. Al provino ero l’unica donna dopo decine e decine di uomini: ho quindi rinunciato al doppio salto mortale dell’identificazione fisica, puntando sul senso della dignità che questo personaggio esige dagli altri. Lei chiede solamente di essere chiamata Sonia: una scelta netta, mentre l’ambiguità è negli occhi di chi la guarda. Nel film la vediamo lavorare duramente, con grande dignità: è il suo modo per conquistarsi il rispetto e la fiducia degli altri. Storie come queste sono vere: il regista mi ha fatto conoscere molti transessuali, con i quali ho affrontato proprio il tema del lavoro, di quanto è difficile vivere circondati da sguardi indagatori, che sembrano chiedere “chi sei?”, quando non “che cosa sei?”. In Italia, questo è un personaggio unico».

Veniamo alle origini: quando è maturata l’idea di diventare attrice?

«Ho iniziato a Gorizia, a sedici anni, frequentando un corso degli Artisti Associati: mi interessava perché proponevano molte cose, dal canto alla voce, dal suono alla danza. Dopo il liceo, ho frequentato il corso Music and Theatre On the Road, organizzato dalla Comunità Europea: è stata una bella occasione per viaggiare in tutta Europa. Quindi l’università a Venezia con il desiderio, il terzo anno, di tentare l’ingresso alla Scuola di Teatro dell’Avogaria. E così è stato: due anni di corso, più un terzo di approfondimento. Poi, nel ’98, è stata la volta dell’Ecole des Maîtres; infine Mosca, al GITIS, l’Accademia di arte teatrale. Ho un ricordo splendido delle lezioni dentro la casa-museo di Stanislavskij, nel saloncino in cui il maestro faceva le prove con Olga Knipper e Anton Čechov. E il mio insegnante, come da tradizione, è morto di crepacuore…»

Russia pura…

«Sì, teatralissimo. Perfetto… Tutto torna! – ride»

E poi?

«Mi sono trasferita a Roma convinta di intraprendere la carriera teatrale: invece mi sono trovata a fare tutt’altro, compreso vendere gelati».

Fino alla svolta.

«Il mio collega di lavoro stava aiutando il regista Francesco Munzi per il casting di un film, Saimir: cercavano albanesi e kosovari, dunque mi è stato chiesto di dare una mano perché, dicevano, “tu sai le lingue”. Alla fine, Munzi mi ha scritturato per un piccolo ruolo: un’ucraina che urla e caccia il protagonista da un bordello… E così – ride – ho iniziato a rispondere ad annunci cinematografici di badanti rumene, prostitute dell’Est… e infine l’inserzione per il cast di Come l’ombra, dove inizialmente volevo fare l’ucraina. Da lì è partita la mia carriera cinematografica: quasi per caso».

Lei arriva dal Friuli Venezia Giulia: che rapporto ha con la sua terra?

«Ci torno sempre volentieri e ogni anno, dalla prima edizione, sono fra le presentatrici del festival èStoria, a Gorizia: è un modo per rimanere legata alla mia città, alle signore che vengono a trovarmi ai giardini e mi dicono “gò visto il film, me ricordo che te ieri a scola con mio fio!”… Amo molto la mia terra».

In che modo la sua provenienza geografica ha formato la sua personalità di attrice?

«Sono nata a Trieste, ho vissuto a Savogna e frequentato la scuola a Gorizia: per me è normale passare dall’italiano allo sloveno e ad altre lingue straniere. Provengo da un ambiente multiculturale, che mi colloca nel cuore dell’Europa, ma anche da un confine che per molto tempo è stato ‘cortina di ferro’. Chi nasce nelle classiche Roma e Milano si trova avvantaggiato all’inizio del suo percorso, ma non subisce la scrematura che tocca a chi arriva dalle periferie. Poi, è vero, c’è anche la fortuna. Alessandro Angelini, per Alza la testa, aveva pensato a un personaggio di Gorizia e la mia provenienza, al provino a Roma, è stata determinante: una coincidenza perfetta. Non avessi fatto quel ruolo, non avrei ottenuto la candidatura al David di Donatello e forse non sarei arrivata a La grande bellezza».

Il cinema targato FVG è oggi alla ribalta: qual è il segreto di questo successo?

«Il cinema si sta decentralizzando rispetto alla direttrice Milano-Roma. Oggi c’è una Film Commission che lavora molto bene, mette in campo maestranze eccellenti e stimola produttori e registi, non solo italiani, a girare in Friuli Venezia Giulia. Dove, in pochi chilometri, si passa dalla montagna alla collina al mare, con paesaggi unici, splendidi vigneti, suggestivi castelli: un patrimonio unico».

Un regista con cui vorrebbe lavorare?

«Paolo Sorrentino!»

Ha mai pensato di mettersi dietro la macchina da presa?

«No, mai. Datemi un libretto d’istruzioni, un elenco telefonico e ditemi “piangi, ridi, salta”: è questo il mio mestiere».

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