Processo troppo lungo? Arriva l’indennizzo

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Massimiliano Sinacori

8 Maggio 2014
Reading Time: 5 minutes

Il caso di irragionevole durata

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La Corte di Cassazione, nei primi giorni dell’anno nuovo, è tornata a occuparsi di equo indennizzo per irragionevole durata del processo civile. La legge del 24 marzo 2001, n. 89, recante “Previsioni di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 c.p.c.” nasce con lo scopo di rendere effettivo a livello interno il principio della durata ragionevole, introdotto dalla Costituzione in seguito alla riforma del suo articolo 111.

Il legislatore nazionale, infatti, ha dato attuazione all’articolo 6 della Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui lo stesso garantisce il diritto di chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale in conseguenza della irragionevole durata del processo a ottenere il riconoscimento di un’equa riparazione in suo favore.

Con sentenza n. 585 del 14.01.2014 la Corte di legittimità a Sezioni Unite ha statuito che l’indennizzo per la violazione della durata del processo previsto dall’art. 2 della suddetta (la cosiddetta legge Pinto) compete anche a chi non si è costituito (o per il tempo in cui non si è costituito), poiché comunque “il contumace è parte del giudizio”.

La decisione trae origine da un ricorso volto a ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole di una causa civile di divisione ereditaria rimasta pendente avanti al Tribunale di Frosinone dal 6 dicembre 1976 e, all’epoca della pronuncia, ancora pendente presso la Corte d’Appello di Roma. L’indennizzo inizialmente concesso al ricorrente era stato commisurato esclusivamente al tempo successivo al 23.05.1994, quando il ricorrente medesimo si era costituito dopo essere rimasto sino ad allora contumace.

Il ricorso veniva fondato sul fatto che senza alcuna motivazione l’indennizzo era stato limitato al periodo successivo alla costituzione in giudizio, quando né l’art. 2 della legge 89 del 2001 né l’art. 6 della Convenzione, subordinano il diritto all’equa riparazione alla condizione dell’attiva partecipazione al processo in oggetto.

L’articolo 2 della legge n. 89/01 stabilisce, infatti, che: “Chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto a una equa riparazione”. L’art. 6 della Convenzione attribuisce tale diritto ad “ogni persona” relativamente alla “sua causa”.

Sulla questione, attesi i diversi orientamenti tenuti dalla Corte in tempi passati, è intervenuta la pronuncia delle Sezioni Unite. La Corte stessa, nella propria pronuncia, ha analizzato i due indirizzi giurisprudenziali dominanti nel corso degli ultimi 7 anni: secondo il primo, l’indennizzo compete anche a chi non si è costituito perché comunque il contumace è parte del giudizio; così secondo le sentenze dd. 12.10.2007 n. 21508, dd. 02.04.2010 n. 8130, dd. 10.11.2011 n. 27091, dd. 14.12.2012 n. 23153 e dd. 21.02.2013 n. 4387.

Il secondo orientamento, invece, ritiene che “la necessità di una costituzione in giudizio della parte che invoca la tutela della legge a sanzionare l’irragionevole durata è premessa indiscutibile per una ragionevole operatività dell’intero sistema della legge 89/2001”; ciò in quanto tale sistema di liquidazione è fondato sul “concreto patema che sulla parte ha avuto la durata del processo” con la conseguenza che “solo la parte che abbia, in realtà, attivamente partecipato al processo in quanto costituita può subire quel patema d’animo ovvero quella sofferenza psichica causata dal superamento del limite ragionevole di durata e quindi assumere la qualità di parte danneggiata”.

Il danneggiato in questo secondo ragionamento veniva contrapposto a chi “ha scelto, consapevolmente, di non costituirsi nel giudizio e quindi, di disinteressarsi dello stesso dimostrandosi, in linea potenziale, incurante degli effetti di una possibile decisione negativa nei suoi confronti”.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto di aderire al primo orientamento e hanno esplicitato in motivazione i seguenti principi.

1) In primo luogo il diritto a ottenere una pronuncia giudiziale tempestiva è riconosciuto sia alla parte costituita che a quella contumace. “Tale tutela è apprestata indistintamente a tutti coloro che sono coinvolti in un procedimento giurisdizionale”.

2) Di conseguenza risulterebbe arbitrario, secondo la Corte, escludere il contumace dalla garanzia di ragionevole durata in virtù dell’inserimento di questa nel complessivo insieme di garanzie che secondo l’art. 111 della Costituzione costituiscono il principio del giusto processo, “insieme con quelle del contraddittorio, della parità delle parti, della terzietà del giudice”, tutte garanzie che certamente competono anche a chi non si sia costituito.

3) La contumacia, in quanto potenziale elemento che può influire sui tempi del giudizio, consiste anch’essa in un comportamento della parte ed è perciò valutabile ai sensi della legge Pinto. Questa, infatti, statuisce all’art.2 che “nell’accertare la violazione, il giudice valuta la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione”.

4) La scelta, invece, della contumacia può dipendere da varie ragioni e non è di per sé indicativa della indifferenza per il risultato o i tempi della controversia. I Giudici hanno espressamente previsto quale motivo di contumacia anche “la totale plausibilità o la assoluta infondatezza delle ragioni avversarie, che possono far apparire inutile affrontare le spese occorrenti per contrastarle, costituendosi in giudizio”.

5) “L’esito della causa, peraltro” aggiungono “è ininfluente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo, che compete anche alla parte soccombente”. Questo risulta essere un principio indiscusso sulla legittimazione a ricorrere; infatti il diritto all’equa riparazione del danno è previsto a prescindere da quello che sia l’esito della lite, ben potendo anche la parte soccombente aver subito un danno, soprattutto di tipo non patrimoniale, a causa della irragionevole durata del processo. A sostegno di questa tesi vi è anche l’espressa esclusione, ai sensi dell’art.2 quinquies, dall’equo indennizzo della parte eventualmente condannata ai sensi dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria, con ciò automaticamente ricomprendendo le altre parti (incolpevoli) nel diritto al risarcimento.

La Corte pertanto conclude con un principio generale secondo il quale “la mancata costituzione in giudizio, può influire sull’an e sul quantum dell’equa riparazione ma non costituisce di per sé motivo per escludere senz’altro il relativo diritto”. 

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