Musica di famiglia

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Margherita Reguitti

27 Giugno 2022
Reading Time: 8 minutes

Giancarlo e Alessio Velliscig

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Giancarlo e Alessio Velliscig, padre e figlio, in Friuli Venezia Giulia sono sinonimo di musica di qualità. Giancarlo da oltre 50 anni è il deus ex machina di rassegne importanti, che spaziano dal jazz alle nuove tendenze senza dimenticare le radici della musica popolare.

Alessio, dopo la maturità scientifica, ha proseguito gli studi in conservatorio. Compositore, arrangiatore,cantante e chitarrista, si sente un autore in “viaggio continuo”, con tratti di strada percorsi accanto al padre. iMagazine ve li propone perché, in un periodo di cesure fra le generazioni, rappresentano un positivo esempio di continuità nella diversità.

Giancarlo Velliscig, oltre 50 anni di passione e professione fra musica, poesia e intrattenimento. Come sono cambiati i gusti dei friulani?

«Penso che, come un po’ ovunque, anche tra i friulani sia in atto una omologazione nei gusti e nelle scelte musicali che, come tra le più deteriori conseguenze della globalizzazione in cui viviamo, tende a far perdere originalità e specificità, senza indagare più aspetti legati a problematiche sociali condivise, ma limitandosi invece a esaltare microcosmi immaginari in uno scenario che espone, quotidianamente, soprattutto i giovani, a una progressiva frustrante solitudine individuale. L’omologazione globale determinata dai media e dai social sta appiattendo tutto, anche i gusti della gente, e l’uscire dal coro è diventato un difetto, non più una valorizzazione della persona o dell’artista, ma la sua autoesclusione».

Conoscenze culturali e delle dinamiche diplomatiche nelle relazioni con gli enti pubblici che sempre sono coinvolti nelle grandi manifestazioni. Quali i saperi e i segreti della sua duratura carriera?

«Nessun segreto, se non una curiosità verso quanto di bello e valido si muova nel mondo e il volerlo cogliere e riportare nella nostra comunità, cercando sempre di mantenere autonomia e libertà di pensiero anche di fronte alle più condizionanti autorità, mutevoli peraltro nel corso del tempo. Voglio pensare che quanto sono riuscito a fare sia frutto di una qualità nella progettualità che ho cercato di mantenere nel tempo; questo ha dato i suoi frutti come riscontro di pubblico che ci ha sempre premiato, e talvolta anche di critica, per quanto condizionata dal potere politico sempre più invadente».

Un incontro che ha dato una svolta alla sua vita professionale e personale?

«L’approccio con questo mondo ebbe un primo impulso quando, una vita fa, nel mio paese cercammo, con un circolo culturale locale, di portare ad Aiello un concerto degli Area, quelli di Demetrio Stratos… Fu un disastro per colpa di un temporale devastante, ma accese per me una luce forte su quel mondo. Erano gli anni dei grandi concerti prog e rock al Carnera, ma anche della musica popolare in friulano e politica, in cui mi detti da fare con il Canzoniere di Aiello. Nel tempo però fu determinante l’esperienza di organizzatore musicale di un club udinese, il mitico Cadillac che nei primi anni Ottanta rappresentò il riferimento di un nuovo modo di incontrare la musica, soprattutto il jazz. E da lì, pur tra enormi difficoltà, partì una lunga attività che ancora prosegue».

Lei ha iniziato la sua attività di manager, organizzatore di eventi culturali quando non esistevano agenzie, fondazioni e professionisti dal cartellone “chiavi in mano”. Come si sente oggi circondato da un proliferare di “offerta”?

«Che l’offerta sia enormemente cresciuta è di certo una realtà, ma spesso non corrisponde a una crescita di qualità e di livello artistico; è di certo un bene che molta gente si dedichi all’arte, alla musica, e cerchi di esprimere sé stessa in un percorso creativo; i problemi secondo me nascono dalla mancanza di filtri e di criteri di valutazione autorevoli, in grado di determinare il valore di un progetto o di un artista. Questo determina un proliferare di management, agenzie di booking, uffici stampa, che molte volte perdono completamente il legame con l’oggetto del loro lavoro, che dovrebbe rimanere un prodotto culturale e artistico, ma viene invece trattato come un qualsiasi articolo di mercato. Io cerco di ascoltare tutto quello che mi arriva e che mi viene proposto in mille modi, ogni giorno, ma alla fine mi soffermo su quanto davvero mi ha colpito e ritengo abbia valore. In questo modo è accaduto spesso che le mie scelte abbiano anticipato il “successo” di giovani artisti che poi hanno avuto riscontri nazionali e internazionali».

Musica jazz, poesia, canzoni popolari friulane, pop e canzoni d’autore italiane: dove batte il suo cuore?

«Se posso, rispondo tutte. In realtà la musica mi ha sempre coinvolto in tutti i suoi modi e generi espressivi; amo anche la lirica. Di certo comunque posso dire che ritengo insostituibili nella storia dell’umanità la musi ca prog, dai King Crimson ai Genesis, agli Area, ai Pink Floyd… e poi, proprio per la valenza e l’impatto sociale che ha rappresentato e per certi versi anche determinato, la canzone d’autore francese e italiana. Sono due generi che secondo me hanno saputo esprimere livelli irraggiungibili di ricchezza compositiva e testuale, tant’è che ritengo debbano essere destinati a rappresentare quella che si potrebbe definire una “nuova classicità”. Il jazz è diventato un amore successivamente, avendogli dedicato tempo e attenzione solo dopo gli ascolti più giovanili; in questo caso si tratta di un rapporto più intellettuale che di cuore. È per questo che detesto il jazz eseguito come “sottofondo pastorizzato” o come abbinamento a vini o salumi piccanti e via degradando. Non semplice da descrivere».

Come immagina il futuro dello spettacolo dal vivo, in teatro e nelle arene/piazze/parchi?

«Ritengo che lo spettacolo, e i concerti in primis, trovino la loro vera essenza nel potersi proporre dal vivo, con un pubblico con cui è fondamentale rapportarsi e connettersi; il pubblico rappresenta il giustificativo dell’impegno creativo di un artista o di una band ed è funzionale alla qualità della performance; in termini mercantili certo può viaggiare tutto on line e nell’etere, ma il coinvolgimento emozionale che si stabilisce tra il musicista e il suo pubblico è insostituibile. Ciò premesso, temo in verità che, in nome dell’omologazione dei consumi che molti vogliono imporci, si vada sempre più verso una fruizione “a distanza”, digitalizzata e gestibile dalle major del pianeta che in ogni settore vorranno sempre meno imbattersi con capacità di originalità e diversità, troppo rischiose per i loro business».

Quale talento di suo figlio vorrebbe avere?

«Di Alessio vorrei aver avuto la voce, che rappresenta la vera sintesi tra quelle dei genitori. Rappresenta quanto di più espressivo e blues, vorrei dire “internazionale”, si possa ascoltare tra le nostre contrade friulane. Spero possa trovare modo di esprimersi e imporsi anche per le sue davvero straordinarie capacità compositive che meriterebbero platee ben più attente».

Alessio Velliscig, vantaggi e svantaggi dell’essere figlio d’arte?

«Tra i vantaggi c’è il fatto di essere cresciuto in un’ottica di rispetto e apprezzamento per arte e cultura in senso lato: la mia famiglia ha sempre guardato alle possibilità tanto dell’arte affermata quanto di quella emergente. Abbiamo sempre creduto nelle qualità artistiche ed espressive delle “minoranze” e questo a mio avviso ha nutrito la mia creatività in maniera significativa; in secondo luogo l’opportunità di crescere nella vicinanza e amicizia di artisti straordinari. Grossi svantaggi non ne trovo, se non quelli che possono conseguire dall’essere (ed essere circondati da) sognatori, visionari e idealisti».

Come si immagina fra 10 anni?

«Mi piacerebbe far parte di una scena musicale rinvigorita ed eterogenea, riconosciuta e supportata dalla comunità, e con un pubblico forte e responsabilizzato, che si voglia prendere il tempo di ascoltare e interpretare quello che sente e non voglia solo essere intrattenuto, possibilmente con un minor monopolio mediatico dei “talent show”. Io in ogni caso sarò a dare il mio contributo preferendo le performance dal vivo, sperando di aver scritto qualcosa di significativo e riprendendo a esplorare questo pianeta meraviglioso in lungo e in largo. Sento questa necessità in particolare dopo le restrizioni causate dalla pandemia, per cui so bene che cosa farò ma non esattamente dove».

Come definisce la sua anima musicale?

«La mia anima musicale direi che è proprio quella di un cantante-autore in viaggio continuo».

Musica e lettura di testi in teatro: una modalità di spettacoli che sta ritrovando un forte appeal. O è solo questione di contenimento dei costi?

«Sono fiducioso nel potenziale di questo tipo di rappresentazioni: sono stimolanti tanto per gli artisti che peril pubblico, una buona occasione per conoscere argomenti, storie e personaggi davvero curiosi e per affinare la relazione tra ambiti espressivi diversi. Spesso sono progetti a cui collaboro con mio fratello Giuliano, anche lui musicista (ed editore), e con cui ho un’intesa speciale, fatto che in questo ambito artistico è davvero importante, date le strutture e i ritmi spesso liberi e dinamici».

Un suo sogno da realizzare nella professione?

«Un sogno nel cassetto che avevo era quello di proporre una collaborazione a Franco Battiato (che non molto tempo fa ci ha lasciati), ho sempre pensato che una mia canzone (Apnea) sarebbe stata magnifica insieme al Maestro… Quindi, tolta questa possibilità, sogno semplicemente di tornare a esibirmi anche fuori dall’Europa con la mia musica originale, in festival carichi di energia e umanità straordinaria. Vorrei che il mio prossimo album potesse rappresentare con profondità ed energia il mio spirito “nomade”».

La marginalità geografica del FVG ha più punti di forza o di debolezza?

«Una forza sta ovviamente nella varietà linguistica e culturale del nostro territorio e la sua possibilità/necessità di essere ancora scoperto e rappresentato artisticamente, oltre che il diffuso talento dei nostri artisti. Le debolezze credo stiano solo nel cuore di chi non crede in questi punti di forza e a volte nel provincialismo di un certo pubblico e di certi promotori».

Quanto contano le radici per lei?

«Le radici possono essere geografiche o culturali e, sebbene entrambe siano importanti, preferisco dare più valore alle seconde. In questo senso direi sicuramente la tradizione di musica popolare tramandatami dai miei genitori e dal Canzoniere di Aiello, la poesia di Leonardo Zanier ma anche il sound degli Inti Illimani, di Jimi Hendrix e del progressive rock che ho ascoltato fin dall’infanzia e che considero seminali per la mia crescita artistica. A livello geografico la mia famiglia ha origini da quasi ogni provincia della regione, in particolare dalle Valli del Natisone (ricordo con emozione la voce di mia nonna paterna che a volte intonava canti tradizionali nel suo dialetto beneciano) e dalla “bisiacaria”. E dove non ci sono le origini sono arrivate sicuramente tante amicizie e collaborazioni artistiche. Mi piace pensare di avere delle radici in continua espansione».

In cosa si sente diverso, professionalmente, da suo padre?

«Mio padre oltre a essere un abile cantautore è sempre stato devoto alla causa di promuovere la cultura con le sue capacità organizzative. Non posso negare di aver appreso parte del mestiere anch’io e di avere a cuore lo sviluppo culturale del territorio, ma a me appassiona di più stare dall’altra parte della “barricata”, voglio essere un musicista e le due attività (organizzativa e performativa) non sempre convivono facilmente. Se parliamo invece di come differiamo sotto il punto di vista artistico, ammesso che gli devo molto e lo stimo tantissimo come autore, personalmente credo di essere attratto più dalle questioni metafisiche e lui più da argomenti pragmatici, per quanto ci siano tanti elementi di continuità spero, per mia fortuna».

 

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