Una partita ancora aperta

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Michele Tomaselli

21 Settembre 2017
Reading Time: 8 minutes

Monte Elbrus

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“Thalassa! Thalassa!” (Il mare! Il mare!): il grido liberatorio di diecimila soldati greci, dall’alto del monte Teche (nell’odierna Turchia) dopo una lunghissima ritirata dal fronte persiano quando si trovarono dinnanzi alle coste del Mar Nero. Alle loro spalle, l’impresa nella battaglia di Cunassa (401 a.C.) e l’arrivo in un territorio ostile, lontano migliaia di chilometri da casa. Una marcia guidata da Anabasi (Senofonte), già allievo di Socrate, aggravata dalle perdite di tanti soldati, colpiti dal gelo e dagli accecamenti della neve nel bel mezzo dei villaggi armeni, impervie mulattiere, precipizi mozzafiato e le aspre vette del Caucaso. Una catena montuosa allora sconosciuta, sebbene già menzionata nell’opera eschilea Prometeo incatenato del V secolo a.C.

Per i Greci e per altri popoli del Mediterraneo, il Caucaso costituì uno spazio liminare, una “(…) terra incognita dove potevano coabitare fatto e finzione, antico e moderno”. Diversamente, per il mondo bizantino e arabo questo territorio a confine tra Asia ed Europa rappresentò una sorta di frontiera culturale del mondo conosciuto verso l’Oriente, che costituì uno dei laboratori culturali più problematici del Mediterraneo: un crocevia spirituale tra islam e cristianesimo, accostato pertanto a simbolo di contrasti e tensioni. Georges Dumézil, storico, linguista e filologo francese, ha dedicato diversi studi alle popolazioni delle sue montagne e a tal proposito ha scritto: “Una cultura in passato comune all’insieme di popoli della pianura del Sud-Est europeo e delle sponde del Mar Nero”. Luoghi che hanno dato i natali al “compagno” Stalin e che altresì nasconderebbero la ricetta dell’elisir di eterna giovinezza. Infatti secondo alcune testimonianze ci avrebbero vissuto numerosi centenari, tra cui Shirali Muslimov, pastore e contadino dell’Azerbaijan, morto a 168 anni.

Vittorio Sella, esploratore e alpinista biellese, effettuò diverse esplorazioni del Caucaso alla fine del XIX secolo, visitando i luoghi più impervi; inoltre da pioniere del bianco e nero immortalò quegli scenari in 800 fotografie. Un patrimonio documentale che contribuì significativamente alla conoscenza della cultura caucasica e dei suoi panorami più tipici. Scatti che peraltro hanno documentato la presenza delle case torri di Svaneti, del IX e XII secolo (dal 1996 inserite nella lista dell’Unesco) e che gli sono valsi l’onorificenza della Croce di Cavaliere dell’ordine di Sant’Anna dallo zar Nicola II e il premio Murchison della Royal Geographical Society di Londra. Dopo la Seconda guerra mondiale la storia del Caucaso fu legata indissolubilmente al destino dell’Unione Sovietica e al suo rapido declino. Dopo il “putsch di agosto” e l’inizio della “perestrojka”, l’area caucasica tornò a dividersi: la parte settentrionale (Cecenia, Dagestan e Inguscezia) entrò a far parte della Federazione Russa, mentre le tre Repubbliche meridionali – Georgia, Armenia e Azerbaijan – divennero indipendenti. Nonostante il nuovo assetto politico e territoriale, le tensioni si riaccesero e dopo gli attentati di Beslan e di Vladikavkaz, la Russia dichiarò guerra alla Georgia per il controllo delle Repubbliche di Abkhazia e Ossezia del Sud.

L’Elbrus è la montagna più alta del Caucaso, oltre che d’Europa, ed è inserita nell’elenco delle “Seven Summits” (le sette montagne più alte di ogni continente); situata in Russia, dista solo un paio di chilometri dal confine con la Georgia. Di origine vulcanica, presenta una forma conica ed è formata da due vette principali: quella Occidentale (5.642 metri) e quella Orientale (5.621 metri). Da diverso tempo volevo salire sulla vetta dell’Elbrus. Così quando nel gennaio del 2011 Filippo mi propose di raggiungerla con gli sci, pensai di realizzare un sogno. La scalata era quasi alla mia portata, perché non richiedeva grandi doti alpinistiche, sebbene si svolgesse sopra i 5000 metri, in un ambiente severo e difficile, nel bel mezzo di temperature polari; nondimeno mi avrebbe dato la possibilità di confrontarmi con una montagna meta ricorrente di alpinisti di tutto il mondo.

La nostra spedizione si prefiggeva l’obiettivo di raggiungere la vetta dal versante sud, quindi scendere dalla parete nord, lungo valli remote e selvagge prive di basi d’appoggio e impianti di risalita. Dopo aver richiesto il visto per la Russia iniziai ad allenarmi e a togliere “la ruggine” e i chili di troppo. Per migliorare le mie prestazioni praticavo con periodicità lo scialpinismo, la corsa e il ciclismo, oltre a svolgere esercizi aerobici, di forza esplosiva e di allungamento muscolare. Ma pochi giorni prima della partenza la polveriera caucasica tornò a esplodere e le frontiere della Repubblica di Kabardino Balcaria vennero chiuse. Impossibile partire. Una rinuncia necessaria dopo l’attentato di Zayukovo (rivendicato per impedire la costruzione di un polo sciistico nel Caucaso) con un bilancio di 3 morti, diversi feriti e il danneggiamento di un pilone della funivia del Monte Elbrus.

Non fu facile digerire quella bandiera bianca, a cui seguì un’altra beffa: la compagnia aerea non rimborsò i biglietti. Tuttavia, dentro di me la partita con l’Elbrus era solo rinviata. Ne sentii nuovamente parlare a dicembre del 2016, quando mi fu proposto di partecipare a una spedizione di sci alpinismo. Iniziai così nuovamente ad allenarmi. La guida alpina Fabrizio Della Rossa avrebbe coordinato il viaggio. Era un malato di montagna, una specie di spider man con le ali in grado di fare il nono grado a occhi chiusi. Dopo averlo incontrato, conobbi anche i miei compagni di viaggio, tutti friulani: Alberto (Toni) e Simone, due fisici, e l’amico Roberto, avvocato. A prima vista trovai un gruppo eterogeneo e compatto.

Il 19 maggio ecco arrivare il giorno della partenza… 

Da Bologna voliamo su Mineral’nye Vody, cittadina termale della Repubblica di Kabardino Balcaria e via d’accesso alle montagne caucasiche. Dopo diverse ore di aereo e un cambio a Istanbul, verso mezzanotte arriviamo a destinazione. Il nostro albergo è davvero singolare, con alcune gigantografie del presidente russo Vladimir Putin. L’indomani la giornata è  nuvolosa, con pioggia e freddo. Dopo aver consumato la colazione, a bordo di un pulmino raggiungiamo Cheget, ai piedi dell’Elbrus. Che la zona ambisca a diventare una grande stazione sciistica non c’è dubbio: il piccolo centro, malgrado sia semi abbandonato, pullula di impianti sciistici antidiluviani e imponenti scheletri di cemento. Sullo sfondo le montagne lattee, qualche albergo e alcuni palazzoni, reliquie del comunismo.

Nel pomeriggio iniziamo a prendere confidenza con la quota e grazie alla seggiovia monoposto del Monte Cheget, saliamo sopra i 3000 metri, fino ad arrivare a un belvedere. Nevica intensamente, rendendoci impossibile osservare il gigante caucasico e la via di salita che ci impegnerà nei giorni successivi. Tornati a valle prepariamo l’attrezzatura di scialpinismo e consumiamo la cena in compagnia di Anastasia, una bella ragazza che si occupa del nostro viaggio. Lei è poesia, diversamente dalla carne ingollata che sa di suola di scarpa. Affaticati ma felici dopo la lunga giornata andiamo a dormire.

Il giorno successivo siamo nuovamente nella morsa di neve e gelo. Per evitare di inzupparci troppo, decidiamo di utilizzare gli impianti di risalita di Terskol (ai piedi dell’Elbrus) per raggiungere la stazione di Krugozor. Calzati quindi gli sci saliamo a Garabashi (quota 3800 m). Giunti sul posto osserviamo decine di containers cilindrici di colore rosso adibiti a bivacco e un gruppetto di nudisti che sfidano i meno 25 gradi. La resistenza fisica di quei ragazzi ci impressiona anche quando, a causa del freddo, decidiamo di tornare indietro. È in questo momento che avviene un piccolo miracolo: il sole inizia a spuntare dalle nuvole lasciando intravedere l’Elbrus, il Monte Donguzorun Chegetkarabashi e altre cime caucasiche. Uno scenario indimenticabile e meraviglioso che apre il rito alle sciate in un mix di adrenalina ed emozioni.

L’indomani riprendiamo la fase di acclimatamento. Dalla stazione a valle di Terskol, utilizziamo la solita ovovia per raggiungere il Krugozor; successivamente, rimessi gli sci, saliamo alle stazioni Mir e Garabashi, fino a raggiungere i resti del rifugio Priut. Nonostante la bufera di neve e le temperature siberiane proseguiamo lungo la via normale dell’Elbrus, fino ad arrivare alle rocce di Pastukhov, a 4600 metri. Le condizioni sono estreme e si stanno protraendo all’intera settimana. Le previsioni annunciano un miglioramento solo per il venerdì, giornata in cui è prevista la nostra ripartenza…

Rientrati a valle non ci resta che ordinare una vodka per dimenticare le brutte notizie e verificare la veridicità del proverbio locale: “bevendo la vodka non si incontrano donne brutte”. Non è una coincidenza allora conoscere Xiaojing, una ragazza cinese emigrata negli Stati Uniti e giunta fin qui per scalare l’Elbrus.

La mattina dopo Anastasia ci informa di un guasto all’ovovia: l’unica possibilità di salita è quella di utilizzare la vecchia funivia. Di primo acchito tutto pare normale, ma ben presto scopriamo il nostro destino. L’impianto è obsoleto, forse risalente ai tempi di Stalin, con le cabine rattoppate dalla lamiera, senza porte e sprigionano sinistri cigolii. Ragion veduta per farsi il segno della croce prima di utilizzarla. Caricati i bagagli e gli sci raggiungiamo incolumi il campo base. Ci sistemiamo in uno dei container del Barrels, poco sopra l’ultimo impianto sciistico. Il vento è fortissimo e la tormenta soffia senza sosta, depositando in meno di dieci ore quasi tre metri di neve. Nonostante il tempo da lupi, decidiamo ugualmente di tentare la vetta il giorno seguente, sfruttando un’attenuazione del maltempo. Un’impresa difficile, specialmente per i 1900 metri di dislivello da affrontare in un colpo solo. C’è anche la possibilità di ridurre la salita utilizzando il gatto delle nevi, un servizio però a caro prezzo con un esborso di seicento euro.

L’indomani le previsioni non sono azzeccate. Le temperature sfiorano i -30°C e nevica intensamente. Malgrado le avversità non ci demoralizziamo, decidendo di partire ugualmente. Verso le 4 stiamo procedendo di buon ritmo, seguendo le tracce del gatto delle nevi, facendoci strada nella nebbia senza vedere a un palmo dal naso. Dopo alcune ore di salita raggiungiamo le  rocce Pastukhow e iniziamo ad affrontare il lungo e pericoloso traverso in direzione della crepaccia terminale. Dopo otto ore di avanzata e tanta fatica, giungiamo in forcella, tra la cima est e la ovest, dove lascio un ricordo della mia città.

Siamo arrivati a 5400 metri, sempre più vicini all’impresa. Consideriamo la tregua del maltempo un soccorso divino, ma proprio quando tutto sembra volgere per il verso giusto succede l’irreparabile. D’improvviso ci troviamo minacciati da una tormenta di neve e costretti ad affrontare un pendio che presenta un forte rischio valanghe. Utilizzando il buon senso, decidiamo di tornare indietro. Perché rinunciare “a una vetta non significa arrendersi ma essere umani anche quando si tenta di fare qualcosa di disumano. È proprio grazie alla capacità di riconoscere i propri limiti e accettare i propri “fallimenti” che si può trovare in se stessi la determinazione per affrontare nuovi progetti” (Intervista a Simone Moro: “In montagna bisogna anche saper perdere”, La Stampa).

La spedizione sta ormai volgendo al termine, così ci concediamo ancora il tempo per visitare il villaggio medioevale di Eltyubyu, del popolo Balkar, con le sue tombe a torre conoidali del XII secolo e il lungo muro con incisi i versi del poeta Qaysin Quli; quindi di volare su Mosca per visitare la città. E proprio nella capitale russa ci giunge la bella notizia che Xiaojing, la ragazza incontrata davanti a una vodka, è riuscita ad arrivare sulla cima dell’Elbrus il venerdì mattina, con il sole.

Ora la mente è già alla prossima avventura: le isole Faroe.

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