Sua maestà il Wellness

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Michele D'Urso

1 Agosto 2012
Reading Time: 5 minutes
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Gary Lee Dove

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Sono fra noi. Si insinuano dapprima silenziosi, invisibili; poi diventano arcani indecifrabili, ed infine ci dominano. Ebbene sì, sono loro: Spread, Fitness, Coaching, Training, Diet, Marketing, Workout, etc., alieni inglesismi che stravolgono una lingua, ma che per fortuna ne formano un’altra, universalmente comunicativa. Il piccolo limerick non è a caso, perché siamo di nuovo a Trieste, la nostra amata città nella quale la linguistica, partendo dallo “Spritz”, nota bevanda, e finendo alle “Scine”, le rotaie del tram, entrambe parole di origine tedesca, è da sempre un fermento di novità. Sono in un bar di Cavana, ma non per incontrare una bella dalla gamba di legno e dall’occhio di vetro, bensì per intervistare Gary Lee Dove, triestino con papà Cherokee-irlandese, (il cognome Dove è americano e, letteralmente, sta per ‘Colomba’), e mamma istriana.

A Trieste Gary Lee è un’icona; sportiva, ma pur sempre un’icona. Nella sua palestra di via Economo ci è passata mezza città. L’attività nel campo delle palestre dura da quasi trent’anni, ed il nostro è stato uno dei primi in Italia a comprendere l’importanza della preparazione e dell’aggiornamento professionale, dando fin da subito un’impronta di gestione manageriale.

Eppure sei nato come agonista puro, dico bene?

«Ho cominciato da bambino con lo judo, che ho praticato per una decina d’anni e di cui ho ricordi bellissimi, fra i quali una finale di categoria allo storico trofeo ‘Città di Trieste’ persa contro Enzo de Denaro, uno che poi sarebbe arrivato in Nazionale, e oltre. Poi sono passato al pugilato, disciplina della quale sono istruttore per le giovanili e che, sebbene per alcuni anni sia stato completamente fuori dal giro, ha sempre rappresentato per me il concetto massimo di fatica sportiva. Poi, negli anni Ottanta, quando a Trieste ogni quartiere aveva il suo, quasi, campione del mondo di body building (Sassi, Maggi, Braico, Travan, tutta gente che ai Mondiali, se non li ha vinti, è arrivata perlomeno in finale), sono stato un body builder di livello nazionale, ed infine pratico, per mantenere un minimo di agonismo, nelle categorie Master il Powerlifting, specialità di distensione su panca».

Un agonista a tutto tondo; eppure sei stato fra i primi in regione a dotarsi del brevetto di istruttore pilates, cioè a dare molta più importanza al fitness, allo star bene, che alla competizione.

«Vorrei chiarire che io sono più per il concetto di wellness che di fitness…».

Perché, c’è differenza?

«Il verbo inglese ‘to Fit’, fra i suoi significati indica anche “essere capace di svolgere tutte le funzioni vitali previste dalla propria specie”; sottolinea puramente funzioni fisiologiche, ovvero, nel caso di noi umani, essere capaci di correre, saltare, riprodursi etc., e da esso deriva il termine ‘fitness’. In realtà sono poche le persone che non sono in grado di correre, saltare, far l’amore etc., semplicemente ci sono tantissime persone che non lo fanno, che non usano le proprie capacità, e che, così facendo, le perdono e, addirittura, si ammalano. Allora il wellness, o benessere che dir si voglia, è il termine più appropriato per indicare ciò che bisogna fare per stare bene».

Mi sorprende che un simile concetto venga espresso da un agonista puro come te.

«Proprio perché sono stato un agonista ho compreso quella che io chiamo ‘la mera inutilità dell’agonismo’».

Ovvero?

«Non sono contro le competizioni per partito preso, ma di sicuro il mondo troverà più giovamento dall’uomo che inventerà qualcosa di utile piuttosto che da uno che correrà i cento metri in meno tempo o solleverà più chili o abbatterà più avversari, fermo restando che il miglioramento di ognuno di noi apporterà comunque benefici a tutta la collettività. Questo è il senso che voglio dare alle mie parole. Correre per stare bene, per migliorare se stessi, per essere il numero uno di se stessi, senza ricorrere agli eccessi che si vedono in giro».

Effettivamente se si va a correre e lo si dice a qualcuno subito ti chiedono quanto tempo hai impiegato o quanta distanza hai percorso, e mai se ti sei divertito. La chiamano la ‘trappola dell’agonismo’…

«Questo è, in parte, il mio pensiero. Il concetto di wellness non è solo fisico, ma anche etico, morale. Si parla di rispetto per l’avversario, ma poi ci si dopa fino al midollo; si parla di funzione educativa, ma poi si costringono bambini piccolissimi ad affrontare da soli ore ed ore di allenamento. Quale bambino è nato già asceta? E il gioco, e le scoperte fatte confrontandosi con gli altri bambini?».

Che fare, quindi?

«Si deve seguire sempre il talento che è in noi; per esempio, potete mettere un bambino a nuotare ancora in fasce, ma questo non certifica che ne farete un campione. Se fallite nell’intento ve ne potete accorgere solo dopo che il bambino ha già un’età adolescenziale, se non maggiore; che ne sarà di lui? Cosa avrete creato? Un uomo o cos’altro? Siamo di fronte alla vita umana; non è una macchina che potrete accartocciare e poi farne un’altra. Solo se avrete creato l’uomo, o la donna, prima dell’atleta, allora avrete fatto un buon lavoro, altrimenti avrete creato dei disadattati».

Cambiamo argomento: recentemente, sul giornale, ti hanno indicato come cittadino americano. Come vivi questo tuo intreccio di culture?

«Ho la doppia cittadinanza. Quando mio papà, militare di professione, veniva a prenderci con la sua Cadillac, i miei amici si giravano a guardarla, e questo crea un ricordo un po’ americano. Come patria, però, ho sempre e soltanto visto Trieste. La mia lingua ufficiale è il triestino; le altre sono tutte seconde».

Devo scappare perché mi sta scadendo il parchimetro. Saluto e mi metto a correre che non si sa mai… Quante cose ancora avremmo potuto dire con Gary Lee circa l’anima di questa città, anima che lui rappresenta in modo esemplare. E può forse il wellness dipendere anche dal posto in cui si vive? Nel nostro caso penso proprio di sì. Ma il mondo corre, come il tempo, il parchimetro scaduto e la vigilessa già compie il suo dovere. Appena in tempo. Scusa Gary Lee ma dovevo proprio scappar via, e poi, in fondo, ogni intervista finisce sempre così; con una stretta di mano, la speranza di aver creato un ricordo, e la promessa di rivedersi all’uscita della rivista. Già; la promessa di un appuntamento. Come diceva il titolo del famoso, bellissimo, romanzo di Giorgio Scerbanenco, Appuntamento a Trieste. Non mancate!

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