San Valentino oltre ogni confine

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Il 14 febbraio si celebra la festa degli innamorati. Ma in queste terre in onore del santo sorsero numerose confraternite e che tramandarono la testimonianza

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Statua lignea di San Valentino a Privano

In tempo senza agende, materiale scrittorio a tiro, la rima era ancillare alla memoria.

Ci sovviene, per questo mese, un proverbio friulano, il terribile “Fevrarut, piêz di dut!”. Diminutivo, non vezzeggiativo, per il mese più corto; il freddo, uno dei nemici della povera gente.

San Valentino – ricorre al 14 – ancora è legato al freddo: “A San Valentin, si inglazza al mulin” e anche qui era un guaio: le farine erano base per l’alimentazione. Freddo convinto: “San Valentin, sclapa la glaz cul manarin”.

Sì, adesso è una data topica per gli innamorati, dove il consumismo, insieme con l’affetto, ha la sua parte: la natura si risveglia. Con San Valentin, si rima “…al nass al jeurin”, nasce il leprotto; “… al cjante l’odulìn”, cinguetta l’allodoletto e si allungano i giorni “… al vacjâr al distude il lumin”, il vaccaro spegne il lume.

A Pavia di Udine antica una confraternita del Santo, idem a Clauiano, nella ampia pieve di Trivignano che comprendeva fino al Quattrocento anche le ora “goriziane” Chiopris e Viscone.

Confraternita non da poco a Fiumicello (400 i confratelli!) e nella veneta Cavenzano, poi “goriziana” dal 1818.

Ora, il Santo è universalmente noto per la – non infondata – tradizione che lo vuole protettore degli innamorati, spiegando il fatto con l’uso di donare l’abito da sposa in quel giorno, a Roma, in una chiesa a lui intitolata, o per il risvegliarsi della natura verso la sua festa

Si cita l’antica usanza, in Inghilterra, di scambiarsi biglietti affettuosi tra innamorati…

Nelle nostre terre, evocava aspetti più prosaici della vita, mali tremendi: era invocato contro l’epilessia, in friulano chiamata mâl di Sant Valentin; o mâl dal azident ; si ricorreva a lui, inoltre, in occasione di pestilenze tra uomini e animali i cui destini erano veramente legati.

Difficile dire se l’epilessia fosse più frequente allora (oggi non fa più paura), certo è che la segale, assai coltivata, poteva essere inquinata da segale cornuta e il grano dal loglio. Le farine che ne uscivano provocavano convulsioni, così come altre malattie, per le quali i rimedi erano scarsi; non restava che il Santo.

Ma perché tanta gente, pur vedendo che i mali ritornavano implacabili a tormentare e ad accorciare la vita, o a spegnerla in frequenti epidemie, continuava a rivolgersi ai santi; per un altro verso, è giusto guardare a uomini e donne solo angosciosamente presi da superstizioso terrore?

Si trattava piuttosto di fede disperata, di aggrapparsi a un sostegno nel faticoso, e pur breve viaggio, tra la terra e il cielo.

Forse è così vero questo, che gli antichi fedeli non avevano alcun interesse a discettare se, il Valentino che essi volevano dipinto da mani celebri per le loro chiese e le loro fraterne, fosse il presbitero romano

(forti i dubbi sulla sua esistenza) o il vescovo di Terni, ambedue martirizzati nel terzo secolo (il “nostro” decapitato intorno al 280, a sentire Jacopo da Varagine nella sua Leggenda aurea).

Venerato, proprio ab antiquo, sia nel mondo latino, che in quello tedesco, aveva un forte radicamento dove friulani, italiani e sloveni si incontravano.

Un polo di questa devozione, era, difatti sul San Valentin, accanto Gorizia. Li c’era tutto: una maggiore vicinanza fra la terra e il cielo; la metafora dell’ascesa; il silenzio. Una chiesa c’era, almeno dal Trecento, e accanto un convento.

Nel Cinquecento vi pellegrinavano Lucinico, Mossa, Corona, Mariano.

Quelli di Mariano riconoscevano lo sforzo fisico al loro sacerdote e allargavano di quattro soldi la borsa, in più rispetto alla consueta lira da messa di pellegrinaggio; otto i soldi che andavano a banderaro, “monaco” e crocifero.

Sul San Valentin si andava con la pieve (di Cormons), difatti, nel ritorno, a Lucinico (1567), la Chiesa coronese dispensava ai pellegrini di Mariano e Medea pane vino, companatico impegnativo, adeguato allo sforzo del lungo cammino: carne di manzo, “quartuzze” (carne di quarti d’ agnello e capretto).

Sicché, ci si andava ancora, benché ci fosse già il santuario di Monte Santo.

Nel Settecento, il primo arcivescovo di Gorizia, Carlo Michele d’Attems lo trova ancora attivo, ma in crisi: al parroco di Salcano decreta di riparare una pala d’altare rovinata da un fulmine; di aggiustare il tetto e di dare aria alle suppellettili. Sette anni dopo (1758), il parroco di Sempas, raccontava al presule che andavano in pellegrinaggio sul San Valentin, ma senza mangiar e bere, a prevenire osservazioni restrittive, e l’anno seguente ai Caprivesi, che ci andavano ogni anno, impone di trovare meta più vicina ad evitare scandali.

A Udine, grande festa in Borgo Pracchiuso, con il “pane di San Valentino” e le chiavi di stagno.

Festa di San Valentino a Clauiano e il pane benedetto.

Pala di Sant’Antonio da Padova, San Biagio e San Valentino a Visco

Privano era, ed ancora è, per tutti i paesi dei dintorni la festa del “pan di San Valentin”, che si benediva in quel giorno e si consumava attribuendogli facoltà preventive; prima di mangiarlo si baciava.

Nelle case si confezionavano “pagnocutis” tonde di pane di “sorgturc”, il pane giallo dal colore della farina “pan zâl”. Un tempo era molto apprezzato, perché alternativa alla quotidiana polenta anche nelle famiglie contadine che “l’avevano corta” sotto padrone.

Era festa grande: i giovani preparavano numerosi archi infiascati di verde nei luoghi dove passava la processione; il verde era soprattutto di edera raccolta nelle boschette.

I tre giorni prima della festa c’era un triduo di funzioni. L’unica osteria, quella di Giovanin, in quel giorno faceva faville: il titolare, per una giornata aveva bisogno di aiuti dato il numero degli avventori. Oltre che tanta gente di Joannis e di Strassoldo, numerosi i Palmarini, ospitati per amicizia dalle famiglie perché numerose donne privanesi andavano nella città fortezza a vendere il latte. A loro veniva offerto il pane giallo.

Chiese, statue: chiesa “recente” a Bistrigna; chiesa ottocentesca, ma titolo antico, e statua di Carlo da Carona – Cinquecento – a Fiumicello); bei quadri a Visco (primo Settecento), a Romans, tela di Antonio Paroli (Settecento) a Nogaredo al Torre (altare e pala settecentesca).

Processione con statua a Ruttars; Mernicco altare; pane e processione con statua a Cavenzano: devozione antichissima, con folle di fedeli.

Processione istituita nel 1903 da don Giuseppe Parmeggiani, che acquistò una statua dell’onnipresente gardenese Perathoner (Perini); dappertutto bacio delle reliquie.

Era una festa, quella di San Valentino, che superava i confini della diocesi (e, prima della grande guerra, anche di stato), difatti a Privano andava, ad esempio don Giuseppe Marcosig, parroco di Muscoli, che raccontò di una festa andata parzialmente male per la pioggia, nel 1949: la banda di Aiello, non potè suonare. Invece della processione, “predica di 22 minuti dall’altare e coroncina di San Valentino”.

Unica cosa che non era andata male fu il pranzo, del resto “Rimase molto pane per il mancato intervento dei forestieri”.

“Così rifulse maggiormente il lato spirituale della festa”, concluse il popolare Pre Bepo”, che, però, ebbe modo di apprezzare un ottimo desinare offerto dal parroco del luogo e da lui descritto in ogni pietanza.

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