«Quest’estrema sponda d’Italia ove la vita è ancora guerra»

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Vanni Veronesi

3 Agosto 2012
Reading Time: 7 minutes
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Trieste nella poesia di Umberto Saba

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Umberto Saba nacque a Trieste il 9 marzo 1883, al n. 25 di via di Riborgo, da madre ebrea, Felicita Rachele Coen, e da padre cattolico, Ugo Edoardo Poli (questo dunque il vero cognome, cambiato in Saba nel 1928), che abbandonò la moglie poco tempo prima della nascita del figlio. La via e la casa natale scomparvero dopo le demolizioni degli anni Trenta, che stravolsero parte di Cittavecchia per far emergere i resti del teatro romano del 104 d.C. e lasciare spazio a palazzi di governo. Il neonato Umberto venne affidato a una nutrice, l’amatissima Giuseppina ‘Peppa’ Gabrovich, presso la quale rimase per qualche anno, mentre la madre e sua sorella Regina si trasferirono prima in via degli Artisti 7 e poi in piazzetta S. Giacomo 1, anch’essa sparita dopo i lavori degli anni Trenta. Una volta sistematasi, Rachele riprese il figlio e congedò la nutrice. Per il piccolo Umberto fu un trauma: la madre, severa e poco amorevole, parlava di lui come del suo più grande dispiacere.

Dopo il ginnasio, Umberto frequentò per un breve periodo l’Accademia di Commercio e Nautica, ancor oggi esistente in piazza Hortis, e nel 1903 si trasferì a Pisa per frequentare l’Università, che però lo deluse molto: rientrò dunque a Trieste nel 1904, anche per riposarsi a causa dei primi gravi segni di esaurimento nervoso. Iniziò a collaborare con alcuni giornali locali e a frequentare il Caffé Rossetti, all’epoca meta di giovani intellettuali: fra questi, lo scrittore Virgilio Giotti, con cui nascerà un’amicizia fraterna. Nel 1906 Saba tentò la strada dell’affermazione poetica andando a Firenze, senza però integrarsi negli ambienti letterari. Cittadino italiano (grazie al padre, di Montereale Valcellina) pur vivendo ancora in territorio asburgico, nel 1907 partì per il servizio di leva a Salerno. Intanto, però, in uno dei suoi fugaci ritorni a Trieste, aveva conosciuto una ragazza: Lina, diminutivo di Carolina Wölfler, residente in via Timeus 12 (all’epoca via delle Acque 18). Fu amore immediato. Nel 1908 Saba ritornò a Trieste e, l’anno successivo, sposò Lina (da cui ebbe la figlia Linuccia l’anno dopo) nella piccola sinagoga di via del Monte, uno dei luoghi cantati nella splendida Tre vie: «A Trieste ove son tristezze molte, / e bellezze di cielo e di contrada, / c’è un’erta che si chiama Via del Monte. / Incomincia con una sinagoga, / e termina ad un chiostro; a mezza strada / ha una cappella; indi la nera foga / della vita scoprire puoi da un prato, / e il mare con le navi e il promontorio, / e la folla e le tende del mercato. / Pure, a fianco dell’erta, è un camposanto / abbandonato, ove nessun mortorio / entra, non si sotterra più, per quanto / io mi ricordi: il vecchio cimitero / degli ebrei, così caro al mio pensiero, / se vi penso i miei vecchi, dopo tanto / penare e mercatare, là sepolti, / simili tutti d’animo e di volti». Con l’eco di questi versi ammiriamo il tempio israelitico, il muro che ricorda la cappelletta e la presenza del cimitero ebraico e, al n. 15, la casa della nutrice Giuseppina: tutto in pochi metri. Per questo, mentre via Rossetti è «la via della gioia e dell’amore» e via del Lazzaretto Vecchio quella in cui egli si specchia «nei giorni di lunga tristezza», via del Monte è per Saba «la via dei santi affetti».

Nel 1911 uscì a stampa il suo primo libro: Poesie. L’anno dopo fu la volta di Coi miei occhi, il cui titolo diventerà in seguito il ben più famoso Trieste e una donna. È un capolavoro assoluto che ha del miracoloso: lontanissimo dalle avanguardie, convinto assertore di una poesia ‘del vero’, con questa raccolta Saba si rivelò lirico puro, capace di mettersi a nudo come nessun altro. Ed è con i versi di Trieste che camminiamo nella parte alta, dove la vista sulla città lascia a bocca aperta, con quella sua «scontrosa / grazia» che, «se piace, / è come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore; / come un amore / con gelosia». Poi scendiamo e gironzoliamo in Cittavecchia, laddove spunta l’Arco Romano di Riccardo e le vie si fanno strette e tortuose: è qui, nel ventre più profondo di Trieste, romano prima e medievale poi, che Saba amava passare. Città vecchia ci racconta la vita di questi luoghi: «Spesso, per ritornare alla mia casa / prendo un’oscura via di città vecchia. / Giallo in qualche pozzanghera si specchia / qualche fanale, e affollata è la strada. // Qui tra la gente che viene che va / dall’osteria alla casa o al lupanare, / dove son merci ed uomini il detrito / di un gran porto di mare, / io ritrovo, passando, l’infinito / nell’umiltà. / Qui prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / il dragone che siede alla bottega / del friggitore, / la tumultuante giovane impazzita / d’amore, / son tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore. // Qui degli umili sento in compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la vita». Ma basta scendere sulle rive e improvvisamente cambia tutto: luce infinita e vista che spazia sul mare. E, negli anni di Saba, la fremente attività mercantile testimoniata da Il molo, dedicata allo stupendo Molo San Carlo, oggi Audace: «Vedo navi il cui nome è già un ricordo / d’infanzia. Come allor torbidi e fiacchi / – forse aspettando dell’imbarco l’ora – / i garzoni s’aggirano; quei sacchi / su quella tolda, quelle casse a bordo / di quel veliero, eran principio un giorno / di gran ricchezze, onde stupita avrei / l’accolta folla a un lieto mio ritorno, / di bei doni donati i fidi miei. / Non per tale un ritorno or lascerei / molo San Carlo, quest’estrema sponda / d’Italia, ove la vita è ancora guerra; / non so, fuori di lei, pensar gioconda / l’opera, i giorni miei quasi felici, / così ben profondate ho le radici / nella mia terra. // Né a te dispiaccia, amica mia, se amore / reco pur tanto al luogo ove son nato. / Sai che un più vario, un più movimentato / porto di questo è solo il nostro cuore».

Nel 1913 il poeta e Lina si trasferirono a Bologna; fallito il tentativo di guadagnarsi da vivere con l’attività letteraria, Saba si spostò a Milano nel 1914. Qui si improvvisò segretario e poi direttore di un caffè concerto, ma la Prima Guerra Mondiale stravolse tutto e lo costrinse a girare per l’Italia. Terminato il conflitto, tornò a Trieste e si stabilì con la famiglia in via Crispi (all’epoca via Chiozza) 62, definitivamente.

In via Dante sorge da qualche anno una statua bronzea raffigurante Saba. Il luogo non è casuale: nel palazzo che sta alle sue spalle, infatti, c’era il Cinema Italia, che il poeta ha diretto per qualche tempo; davanti, invece, inizia via San Nicolò, dove sorge la libreria antiquaria che Saba rilevò nel 1919 grazie all’eredità della zia Regina. La libreria, consacrata nel sonetto 15 di Autobiografia («Una strana bottega d’antiquario / s’apre, a Trieste, in una via secreta. / D’antiche legature un oro vario / l’occhio per gli scaffali errante allieta»), fu il suo antro lavorativo, artistico, umano fino alla morte. Nel 1938 fu formalmente venduta al fidato amico e collaboratore Carlo Cerne, «il famoso Carletto» di tante poesie, per eludere le leggi razziali; terminata la guerra, Saba riscattò la sua parte e ne fu proprietario fino alla morte. Dal ‘57 all’81 a gestirla fu di nuovo Carletto; dall’81 ad oggi, suo figlio Mario perpetua la memoria del padre e del poeta. Nel corso degli anni Venti, Saba riprese a frequentare gli intellettuali della città come Voghera, Quarantotti Gambini, Mattioni, Stuparich, Bazlen e gli artisti Ruggero Rovan e Vittorio Bolaffio: dal 1935, uno dei luoghi di ritrovo, oltre al Caffè Municipio (oggi Garibaldi) e al prestigioso Tommaseo, fu il salotto dell’artista Anita Pittoni, in via Cassa di Risparmio 1. Ma le amicizie e i primi, agognati successi letterari non frenarono le sue nevrosi; così, nel 1929 si affidò a un allievo di Freud: Edoardo Weiss. Un cartello ne ricorda lo studio, in via San Lazzaro 8, e fa una certa emozione pensare che, superato questo portone, Saba apriva la sua anima. La cura non lo guarì, ma fu una straordinaria fonte di ispirazione: iniziò da qui il ‘secondo tempo’ della poesia sabiana, ancora più limpido e maturo. Nacque così, anni dopo, Amai, dove la psicanalisi viene definita la verità che giace al fondo: «Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo. // Amai la verità che giace al fondo, / quasi un sogno obliato, che il dolore / riscopre amica. Con paura il cuore / le si accosta, che più non l’abbandona // Amo te che mi ascolti e la mia buona / carta lasciata al fine del mio gioco».

Fallito il tentativo di trovare rifugio a Parigi, Saba fu costretto durante la Seconda Guerra Mondiale a peregrinazioni continue: a Milano, Roma (dove fu ospitato da Ungaretti), Firenze (dove trovò rifugio grazie a Montale) e altrove. Un girovagare che non si fermò nemmeno al termine del conflitto, pur interrotto da lunghi periodi a Trieste. Poi, la fine: Lina, la compagna di una vita, morì nel novembre del 1956; il 25 agosto del ‘57 toccò a Umberto, alla clinica Fatebenefratelli di Gorizia. Ma Saba vive ancora grazie ai suoi versi, tra i più belli della poesia mondiale, e alla libreria antiquaria che finalmente ha ottenuto il riconoscimento di ‘locale storico’ e la tutela da parte dello Stato. Consiglio a tutti una visita e una chiacchierata con Mario. Per riscoprire un angolo di bellezza intatta.

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