Una piccola scala in legno unisce tra loro otto secoli di storia. Percorrendo i gradini che separano l’antico sito archeologico Maya di Tulum da una tra le più belle spiagge dello Yucatan, si vive l’essenza stessa del Messico.
Un Paese dalla civiltà antichissima, sospeso ancora oggi tra ricchezze naturali immense e uno stile di vita flemmatico, dove il tempo sembra scorrere al rallentatore. Attraverso legami indissolubili con il proprio passato e con la civiltà dei Maya. Per comprenderlo è sufficiente osservare la maestosa piramide El Castillo presso il sito archeologico Chichen Itza, poco distante da Cancun, riconosciuto Patrimonio dell’Umanità. I suoi gradoni di epoca precolombiana oggi non sono più percorribili dai turisti, in seguito a numerosi incidenti mortali, mentre poco distante regnano silenziosi il Complesso delle mille colonne e il Tempio dei Guerrieri, con valorosi combattenti immortalati per l’eternità in pregiati bassorilievi. Attraversando l’antica piazza del Grande mercato si raggiunge il Cenote, dove i Maya precolombiani immolavano al dio della pioggia non solo manufatti ma anche esseri umani. Poco più a nord, El Coracol (la chiocciola, nome dovuto alla scala a spirale presente al suo interno): edificio circolare con piattaforma quadrata che fungeva da vero e proprio osservatorio astronomico. Prima di uscire dal sito archeologico, lo sguardo viene rapito dal più grande campo per il gioco della palla (Juego de la Pelota) di tutta la Mesoamerica, con i suoi 166 metri di lunghezza e 68 di larghezza.
Una bellezza, quella del sito archeologico, che io e mia moglie riviviamo poche ore più tardi. La sera, dopo cena, assistiamo infatti allo spettacolo di luci e suoni, in cui fasci luminosi colorati illuminano proprio El Castillo, accompagnati da una voce narrante che, in spagnolo, ne ripercorre la storia.
La stessa sensazione di antichità che, l’indomani, respiriamo di fronte alla Cattedrale di San Ildefonso, nella Plaza Grande di Merida. Una città ricca di negozi di artigianato, dove tra manufatti di argento e stoffe variopinte decido di acquistare un Panama alla moda. La destinazione successiva è la Ria Celestun, meraviglia naturalistica e paesaggistica della penisola dello Yucatan. Giungiamo all’omonima città di Celestun sotto un sole cocente. Lungo le strade bianche e polverose tutto scorre al rallentatore; perfino i numerosi cani che incontriamo, dopo averci osservato con aria stranita, si rimettono a dormire. Raggiungiamo la spiaggia nello stesso istante in cui un uomo si avvicina proponendosi quale guida per l’escursione: patteggiamo il prezzo migliore per il pomeriggio e in dodici persone, su veloci lance private, ci addentriamo nell’area naturalistica protetta. Dopo la visita all’affascinante foresta pietrificata, il nostro sguardo viene rapito dalla maestosità dei fenicotteri rosa. Nemmeno il tempo di immortalarli con la macchina fotografica che, attraverso una galleria di mangrovie, raggiungiamo un meraviglioso cenote. Per tre ore è un susseguirsi continuo di emozioni, fi no al rientro sulla spiaggia dorata dove, in un locale tipico, degustiamo dell’ottimo pesce.
L’indomani ci dirigiamo di prima mattina verso la stazione degli autobus; lungo la strada scrutiamo due signore che, lavorando su strani macchinari, producono le gustose tortillas. Ci salutano e, dopo brevi spiegazioni in spagnolo, ci offrono le loro prelibatezze, che degustiamo nel viaggio di rientro verso Merida, da dove ripartiamo immediatamente alla volta di Campeche. Qui visitiamo subito il Parque Principal, il centro cittadino dove i residenti si ritrovano per chiacchierare, leggere, ascoltare la banda, riposarsi, asseggiare o farsi lucidare le scarpe.
Per evitare di essere travolti da un corteo tanto numeroso quanto rumoroso, composto da molti giovani, ci dirigiamo a piedi verso il mare dove la sera osserviamo il sole di un colore rosso fuoco gettarsi nell’acqua, in quello che gli abitanti del luogo definiscono “il più meraviglioso tramonto del mondo”. Ma all’imbrunire gli occhi di tutti vengono catturati dalla spettacolare illuminazione della Catedral de la Conception Immaculada, che domina sulla piazza sempre gremita di persone. La gran parte di loro intente nel gioco e impegnate, con in mano i chicchi di mais, a segnare i numeri della tombola.
L’indomani con un taxi decidiamo di percorrere i cinquanta chilometri che dividono Campeche dal sito archeologico di Edzna, concedendoci qualche sosta per fotografare le sterminate piantagioni di mango. Il giorno seguente, di buon mattino, nuovamente in autobus, iniziamo il lungo viaggio verso Palenque, in Chiapas: 350 chilometri che sembrano non finire mai. Ma la meta ne vale la pena. Il locale sito archeologico Maya è tra i più belli al mondo. Provvisti di acqua minerale, copricapo e di repellente per gli insetti, ci immergiamo in una passeggiata unica all’interno della giungla. I resti antichi, coperti dalla fitta vegetazione, fanno da preambolo all’opera più attesa: il Tempio delle Iscrizioni.
Un edificio costruito su otto piani, con una scalinata centrale che raggiunge i 25 metri di altezza, passaggio obbligato verso la Tomba di Pakal. Proseguendo oltre al tempio si raggiunge El Palacio: un insieme di quindici edifici destinati a celebrazioni religiose, raccolti intorno a tre cortili e a una torre, su un terreno rialzato di dieci metri, con una larghezza di 65 metri e una lunghezza di 80. I palazzi si susseguono, fino a giungere al Tempio del Sole e al Tempio de la Cruz. Ritorniamo in mezzo alla natura, lungo un sentiero in discesa. Attraversiamo un piccolo rio da cui si sviluppano spettacolari cascate d’acqua. All’improvviso, un urlo ci toglie il respiro. Ci guardiamo attorno, siamo soli. Con il cuore in gola acceleriamo il passo. Le urla si fanno più insistenti. Finalmente troviamo l’uscita. Ci rivolgiamo preoccupati a un venditore ambulante che, alzando il dito verso l’alto, ci indica la presenza delle famose scimmie urlatrici. Non vediamo nulla e, perplessi che anche lui le vedesse, assieme ai compagni di escursione torniamo alle nostre cabanas (costruzioni ricettive abbastanza spartane) nella giungla. Pochi minuti dopo, proprio loro vengono a chiamarci: sui rami degli alberi fuori dalla loro cabana è appollaiato un gruppo di giovani scimmie urlatrici. L’ambulante aveva ragione.
Dopo una notte trascorsa nel silenzio della giungla interrotto solo dalle urla delle scimmie, il mattino seguente arriviamo con un combi (furgoncino del luogo che si ferma sempre quando c’è un passeggero da raccogliere) a Misol Ha, cascata mozzafiato che precipita per 35 metri. Circondata da vegetazione tropicale, la raggiugiamo da dietro attraverso un sentiero, provando l’emozione indescrivibile di veder precipitare l’acqua davanti ai nostri occhi. Uno spettacolo bissato più volte lungo il cammino, con le cascate di Agua Clara e Agua Azul lungo il Rio Shumulha e il Rio Usummancita. Impossibile resistere alla tentazione di un bagno refrigerante.
È di nuovo tempo di ripartire, destinazione San Cristobal de las Casas. Dalle pianure si sale verso gli altipiani del Chiapas, roccaforte del movimento zapatista e territorio di passaggio privilegiato del narcotraffico. Ogni 50 chilometri il nostro bus incontra un posto di blocco e solo dopo alcune ore raggiungiamo i 2110 metri di altitudine di San Cristobal.
Ci inoltriamo a piedi per le vie acciottolate del centro, ammirando le abitazioni dai mille colori. Lungo Calle 20 Novembre posiamo gli occhi sulle vetrine dei numerosi negozi, mentre in un ristorantino locale assaporiamo sopa azteca (zuppa del luogo), della carne gustosa e ottima birra. L’indomani usciamo in escursione prima al villaggio di Zinacantan, dove la popolazione locale parla l’antica lingua Tzotzil, e poi a San Juan Chamula, dove restiamo sbalorditi di fronte al Cementerio indigeno (il cimitero), all’apparenza abbandonato, a dimostrazione di una cultura della morte assai diversa dalla nostra. A piedi raggiungiamo il centro per visitare la chiesa di San Juan. All’ingresso riponiamo le macchine fotografiche nello zaino, le foto sono vietate e trasgredire è pericoloso: secondo l’antica credenza l’anima rimarrebbe intrappolata dentro lo scatto… All’interno della chiesa alcune persone sono raccolte in preghiera, mentre l’odore acre di decine di candele votive avvolge l’intero ambiente. Ognuna di loro ha un colore diverso a seconda della grazia da richiedere al santo: bianca (problemi di nervi), verde (problemi con la foresta intesa come entità spirituale), rossa (ferite di sangue), marrone (problemi con la terra e con i raccolti), nera (pericolo di morte). Secondo l’usanza, se la richiesta viene esaudita, come ringraziamento si deve adornare le statue dei santi con preziose stoffe colorate.
Il pavimento della chiesa è invece cosparso di aghi di pino, simbolo della fertilità della terra e dell’accordo tra l’uomo e madre natura. Sacro e profano si mescolano come le candele disposte tutt’attorno e le bottiglie di Coca Cola utilizzate per riti officiati spesso da praticanti stregoni, in cui polli e galline vengono sacrificati per trasferire in loro il male che ha colpito i fedeli. Male che, potere delle credenze, può essere estirpato bevendo Coca Cola mista a grappa ed emettendo dei suoni con la bocca determinati dal gas, in una bevanda spesso offerta anche ai bambini, prova concreta dell’aumento esponenziale dei casi di alcolismo nella regione.
Le pareti della chiesa sono adorne di statue di santi custodite dentro apposite teche: come guardiani silenziosi di una fusione tra cattolicesimo e paganesimo. In questa chiesa tradizionalista, infatti, non ci sono né sacerdoti né messe: il prete arriva solo una volta all’anno per i battesimi, affidando tutti gli altri giorni la gestione a una sorta di collettivo indigeno. Tornati all’aria aperta riprendiamo in mano le macchine fotografi che, ma la popolazione locale è disposta a farsi immortalare solo dietro compenso: declinando la proposta rubiamo di nascosto qualche scatto e ripartiamo alla volta di San Cristobal.
Qui la prima visita è alla cattedrale del 1528, ornata con bellissimi retablos barocchi in legno (pale d’altare), ricoperti da foglie d’oro, e dipinti da Juan Correa. Sacralità che traspira anche dalla chiesa ed ex convento di Santo Domingo, dalla bellissima facciata splendidamente decorata. L’ultima visita della giornata la dedichiamo alla Chiesa della Merced e al Museo del Ámbra, ubicato nell’annesso convento, uno dei primi tra quelli fondati da San Cristobal, al cui interno sono riposti circa quattrocento oggetti d’ambra, sia in pezzi grezzi che in vere e proprie opere d’arte.
Prima di rientrare all’ostello che ci ospita, passiamo davanti a una barberia: sull’uscio l’anziano proprietario è intento a osservare una partita di calcio in tv. Decido di entrare per farmi radere barba e capelli. Vengo fatto accomodare sulla sedia, accorgendomi solo in quell’istante che la lametta usata ha conosciuto tempi migliori. Pochi minuti più tardi, dopo avermi scorticato e tamponato i tagli provocati, l’uomo mi saluta con cortesia e chiude la serranda: con il mio pagamento si è guadagnato la giornata.
L’indomani partiamo alla volta di Chetumal: il viaggio in autobus dura quattordici ore, nelle quali uno dei due autisti che si alternano alla guida, nonostante fossimo in notevole ritardo, dopo aver bevuto Coca Cola e mangiato pannocchie lesse di mais per tutto il viaggio, decide di fermare il mezzo per trascorrere del tempo assieme ad amici di vecchia data incontrati durante il tragitto. Con buona pace dei passeggeri.
Ma in Messico tutto è possibile, anche raggiungere il giorno seguente il vicino Belize senza documenti (scordati in ostello), semplicemente spiegando il disguido alla guardia che pattuglia il confine. Ripenso alla scena mentre passeggio lungo le chiassose vie di Playa del Carmen, dove le oreficerie e i negozi di souvenir sono il luogo prediletto dagli americani in vacanza per il loro shopping. È il nostro ultimo giorno di permanenza. Ripenso alla scaletta in legno di Tulun e agli iguana che, sugli antichi resti delle costruzioni Maya, restano immobili a crogiolarsi ai raggi del sole.
Sta scendendo la sera; la brezza del mare accompagna la voce dei Mariachi mentre cantano allegre canzoni popolari fuori dai locali. L’indomani ripartiremo verso l’Italia, eppure avverto già il desiderio di tornare. Arrivederci, e Viva Messico.