L’osservatore della natura

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Margherita Reguitti

7 Dicembre 2020
Reading Time: 7 minutes

Lucio Ulian

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Lucio Ulian racconta in esclusiva per iMagazine una sua giornata immerso nella natura che per lui è il tutto dal quale ricevere e per il quale esercitare le sue competenze, osservando i cambiamenti lungo il cammino, le suggestioni che diventano riflessioni. Un viaggio da condividere con il lettore.

«Alcuni giorni fa – confida Ulian –, camminando in un bosco sopra casa, iniziai inaspettatamente a percepire qualcosa di strano che aveva colpito i miei sensi, ma non riuscivo a individuare cosa fosse. Finché il mio sguardo si posò sul piccolo stagno alla mia destra e notai che la sua superficie era interamente coperta da foglie che galleggiavano sull’acqua. Forme variopinte creavano una tavolozza che donava il fascino della finitezza a un luogo già pieno di seduzione».

Quale era la sua emozione, che messaggi la natura le stava mandando?

«Avevo la sensazione che qualcosa stesse accadendo, confermata dal rumore dei miei passi, infatti ogni passo era accompagnato dal fruscio delle foglie secche sotto i piedi. Immediatamente compresi che l’autunno era finalmente arrivato. La troppo lunga estate mi aveva fatto perdere la percezione che la stagione era cambiata. Le stagioni, appunto, che nonostante mantengano la proporzione, propria in ciascuna di esse, delle ore di luce con quelle di buio, non sono più riconoscibili nell’immediato. Il tempo metereologico, sempre più diverso da come eravamo abituati. Le nostre certezze vengono messe in forse da fenomeni più grandi di noi che in parte abbiamo contribuito a provocare. Riprendendo il cammino, ad un bivio, imboccai il sentiero che sale alla cima del monte. Prima di giungere al grande altopiano, che si estende a Sud Est dalla sommità, mi fermai per fare una sosta e rimasi colpito dai colori, che andavano dall’arancio al rosso fuoco, del fogliame di una macchia di scotano (Cotinus coggygria)».

Da cosa nasce la possibilità di potersi stupire nonostante questi siamo i luoghi della sua quotidianità?

«È uno spettacolo sempre emozionante, lo hai visto e rivisto, ma al suo ripetersi l’emozione che si prova è quella della prima volta. Mi chiesi se l’occhio di un professionista possa cogliere la poesia nel suo lavoro. La risposta era in quello che provavo, la semplice conoscenza, più o meno profonda, non mi aveva tolto lo stupore per il mistero della natura e della vita. Non sempre la scoperta dell’identità di Babbo Natale fa scomparire la magia della notte del 25 dicembre».

Quale era il panorama una volta arrivato in cima alla fine del suo cammino?

«Dopo una breve e ripida rampa arrivai sull’altopiano: un mosaico di praterie, boscaglia e pinete. Dall’alto potevo godere della vista sulla città di Trieste e notare come in questo territorio natura e insediamenti umani si intreccino sino a creare un ordito i cui componenti sono a tratti indistinguibili».

La pandemia lascia un segno nel rapporto fra uomo e natura? Il professionista cosa coglie sia accaduto in questo anno horribilis?

«In queste aree un occhio attento può percepire la continua lotta fra due forze contrapposte, da una parte la specie umana che trasforma e adatta superfici sempre maggiori di terreno per le proprie esigenze, dall’altra la natura che, con la sua forza, in maniera incessante, spinge per reimpossessarsi di quegli spazi. Durante il periodo nel quale eravamo chiusi in casa, in seguito alle disposizioni per fermare i contagi del coronavirus, si è visto, seppure per un attimo, come, non appena viene a mancare la presenza dell’uomo, la natura si riappropria di quanto le era stato sottratto. Sono aumentati gli avvistamenti degli animali selvatici in zone con notevoli insediamenti umani, la vegetazione spontanea ha iniziato ad attecchire nei posti dove il presidio della nostra specie è venuto meno. Senza un continuo intervento la vegetazione si espande come un fiume che esonda dai suoi argini e allaga la pianura. Certo è durato poco e solo occhi attenti sono riusciti a cogliere quanto avveniva».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Che immagini lontane le vengono alla mente?

«A tratti la fantasia mi faceva apparire le immagini dei templi che in Cambogia vengono avvolti dagli alberi della foresta e la memoria mi riportava allo stupore provato vedendo un piccolo fungo spuntare all’aria aperta, dopo aver sollevato un grosso strato di asfalto».

Il tema della sostenibilità del rapporto fra uomo e natura come entra nelle sue riflessioni di professionista e uomo di cultura?

«Riflettendo su uomo e natura mi accorgo che la distinzione fra quanto è umano e quanto è naturale sia una classificazione, anche utile per comprendere e sottolineare di quanto l’uomo determini gli equilibri sul nostro pianeta, ma frutto di una visione che ci pone al centro dell’universo. In realtà siamo un’emanazione della natura e ne facciamo del tutto parte. Ogni alterazione degli equilibri che determinano le condizioni di vita sulla Terra hanno conseguenze su tutti gli esseri viventi che la popolano. Ma la natura non conosce i giudizi di valore, per essa non esiste il bene e il male, il bello e il brutto, questi sono concetti frutto della nostra razionalità: la natura esiste e basta. Questo ha come conseguenza che, se altereremo gli equilibri che permettono la nostra vita, non ci sarà un sentimento di pietà nei nostri confronti, la vita continuerà con equilibri mutati, e a noi non sarà garantito nulla».

Torniamo al suo cammino, che emozioni le donava?

«La vista del panorama era appagante, stentai a distaccare gli occhi da quello spettacolo per proseguire il cammino in direzione di una piccola valle che si affaccia su un altro versante del monte. In pochi di minuti giunsi in un ambiente inaspettatamente diverso. La vegetazione, man mano che mi avvicinavo alla valle, diventava sempre più rigogliosa, la boscaglia carsica era scomparsa, come pure la prateria, il luogo era più fresco e umido, il terreno ricco. Ben presto vidi dall’alto le imponenti chiome di grandiosi alberi e scendendo verso il fondo venni sovrastato da maestosi cerri, testimoni di cose antiche».

Profumi, colori, luci e ombre che altro senso è stato sollecitato a quel punto del cammino?

«L’udito. La diversità di quanto avevo davanti agli occhi era notevole, ma c’era qualcos’altro che era mutato; fino a poco prima e durante l’ascesa avevo come sottofondo il rumore della città, un ronzio continuo al quale siamo così abituati che neanche lo notiamo. Lì dove mi trovavo si udivano solamente i rumori del bosco; il suono del vento fra i rami, i passi di qualche animale e il canto degli uccelli a sottolineare la magia del posto».

Dopo tanta bellezza, stimolo per riflessioni, stava arrivando il tempo del ritorno?

«Per il rientro scelsi un sentiero che, passando a fianco ad un antico castelliere portava ad una zona rocciosa, dove sgorga una sorgente particolare. Un rivolo d’acqua scende lungo uno stato impermeabile di terreno sovrastato da un gran cumulo di pietre: la sorgente è generata dalle gocce che si formano per condensazione dell’umidità a contatto con la roccia fredda. Ed era l’umidità, quel giorno, presente nell’aria, che rendeva l’appuntamento immancabile. Scendendo ancora mi trovai di fronte ad uno spettacolo favoloso, l’umidità nell’aria faceva aumentare la rifrazione dei raggi del sole, donando al paesaggio un colore rosso acceso, ma quello che mi lasciava incantato era il colore del mare che rifletteva e amplificava la grandiosità spettacolo. I tramonti sono indimenticabili, emozionano sempre, anche quando fanno parte del tuo quotidiano. Del mare incanta il senso dell’infinito e dell’indefinito che riesce a trasmettere».

Terra di confine significa un mix di ambienti di fauna, flora e microclimi?

«Mi considero fortunato perché vivo e lavoro in una varietà fantastica di ambienti, all’incrocio di tre diverse regioni biogeografiche: quella illirico balcanica, quella alpino centro-orientale e quella mediterranea. In pochi chilometri, posso raggiungere aree con diversi climi e vegetazioni diverse e una biodiversità inimmaginabile».

Il mare è uno dei soggetti delle sue fotografie…

«In questi anni l’ho fotografato migliaia di volte, cercando di cogliere le emozioni che mi suscitava, la pace di quando la sua superficie è liscia come l’olio, la malinconia, nelle giornate ammantate dal grigiore, il senso di potenza, quando si scatena con tutte le sue forze, il fascino dei disegni delle creste delle onde. Capisco quando mi sento rapito dal rumore della risacca, che narra di storie e di profondità insondate, starei lì per delle ore ad ascoltare e perdermi in esso».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lucio Ulian è un uomo di passioni vissute con entusiasmo, onestà e attenzione agli altri. Goriziano di nascita da circa 20 anni vive a San Dorligo della Valle. Il Carso e la costiera per lui non hanno segreti: dal 1986 infatti fa parte della Guardia forestale regionale e attualmente comanda la Stazione di Trieste. La politica prima, lo studio (laureato in Scienze politiche), la lettura sempre sono le sue passioni alle quali si è aggiunta da alcuni anni la fotografia.

I primi scatti pubblicati sui social network da subito gli hanno fatto raggiungere migliaia di contatti. Originali le diverse angolazioni dalle quali Lucio Ulian guarda e scatta, indifferente se trattasi di una visione macro o micro. Poesia, passione, attenzione al particolare i suoi tratti identificativi.

Nel tempo ha affinato la tecnica utilizzando mezzi più sofisticati, strumentali rispetto al desiderio di comunicare all’altro che probabilmente è lui stesso, con altri occhi, altri valori e un’altra storia. I suoi lavori, curatissimi nella fase di stampa, alcuni realizzati con la moglie Alessandra, anche lei esperta fotografa, sono stati esposti in diverse esposizioni. L’ultima in ordine di tempo, dal titolo “Epifanie” a Trieste all’DoubleTree by Hilton.

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