Le vite di prima

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redazione

11 Marzo 2021
Reading Time: 4 minutes

Daniela Galeazzi e Giuseppina Minchella

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La vita di “Giovanna la Turca” è la storia vera di una bambina che a sei anni viene catturata sulla nave del padre, finendo nell’harem del gran visir. Solo una tappa di una vita che la condurrà a Istanbul, Cefalonia, Corfù, Zante, Venezia e Roma. E che le due scrittrici di Palmanova, Daniela Galeazzi e Giuseppina Minchella, hanno voluto narrare nel romanzo Le vite di prima, edito da Kappa Vu, come raccontano in questa intervista.

Com’è nata l’idea di scrivere un romanzo sulla vita di “Giovanna la Turca”?

«Lo spunto principale è stato un processo dell’Inquisizione conservato nell’Archivio di Stato di Venezia e nell’Archivio del Sant’Ufficio di Roma, che rimanda a una vicenda incredibile accaduta a una donna nella seconda metà del Seicento. Ci è parsa subito una documentazione ricca di elementi originali che poteva dar vita a un singolare romanzo storico».

L’avete intitolato Le vite di prima: perché?

«La protagonista ha vissuto tante vite, è stata una schiava e una donna libera, è nata cristiana ed è vissuta da turca, ha conosciuto la miseria e ha sfiorato la ricchezza, è stata amata, abbandonata, umiliata, benaccolta, scacciata… Giovanna racconta tutte queste sue vite incredibili, in terre diverse, tra culture diverse, nel tentativo di mettere ordine nella sua memoria. Racconta le sue vite soprattutto a sé stessa facendo un uso particolare dei suoi ricordi: attraverso un intreccio tra detto e pensato, i fatti si mescolano, si confondono, non seguono un ordine cronologico, vengono modificati o sottaciuti. “La mia vita reinventata per quel tanto che mi serve”, dice lei stessa».

Quella narrata è una storia vera. Com’è avvenuto il lavoro di documentazione?

«La storia narrata è sostanzialmente vera, i personaggi sono in gran parte esistiti e le vicende realmente accadute. Al di là della consultazione di alcuni saggi per tratteggiare i diversi contesti storico-ambientali, il lavoro di documentazione si è basato su fonti archivistiche, per la precisione su processi dell’Inquisizione».

Oltre alle vicissitudini della protagonista, nella vicenda si intrecciano anche le storie di altri personaggi. Come li avete ideati?

«Una caratteristica di questo romanzo è l’uso del racconto nel racconto. Accanto al racconto della propria vita, la protagonista narra le vicende di tante donne incontrate nel suo tormentato percorso. Anche queste figure di donne traggono spunto da processi dell’Inquisizione, persone umili che sarebbero scomparse per sempre se non avessero lasciato traccia di sé nei verbali giudiziari e se non fossero state riportate in vita da chi ha consultato quei verbali. In questo senso il nostro romanzo vuole essere una memoria restituita, vuole ridare voce e dignità a figure altrimenti inesistenti per la grande Storia».

Quale messaggio desiderate trasmettere attraverso questo romanzo?

«Il parlare della protagonista è occasione di riflessione su temi universali, temi che da sempre accompagnano la storia umana: l’amicizia, la malinconia, la solitudine, la speranza, l’amore, il rimorso, la verità, la morte… Un tema molto presente nel romanzo è il ruolo giocato dalla sorte e dal caso nelle nostre vite. Giovanna è cresciuta con la convinzione che sia la sorte a governare le vite degli uomini, già scritta per ognuno dalla nascita per volere divino. Ma nel guardarsi indietro, nel riconsiderare la propria vita, si accorge che non basta la sorte a spiegare tutto quello che le è successo e giunge alla conclusione che tutto è frutto del caso, tutto succede senza un senso: “Mi sembra che la mia vita non sia stata altro che un gioco d’azzardo, una grande lotteria dove i numeri sono usciti a caso”».

Due scrittrici che narrano la vicenda di una protagonista donna: in qualche modo vi rivedete nella figura di “Giovanna la Turca”?

«A differenza del nostro primo romanzo, che narrava le vicende di un soldato olandese, la protagonista questa volta è una donna. Per tanti aspetti è stato più facile, come donne, entrare nella mente di un personaggio femminile e parlare con la sua voce. E l’abbiamo fatto volentieri anche perché oggi come allora, in qualsiasi società, cristiana o islamica che sia, sono sempre le donne a pagare il prezzo più alto e a essere dimenticate. Da un lato Giovanna la Turca è molto lontana da noi, troppo diversi dal nostro i contesti in cui vive, ma dall’altro riusciamo a riconoscerci – noi e speriamo i lettori – nei suoi sentimenti, nei suoi desideri, nella sua rabbia per la vita che l’ha maltrattata, nella sua sofferenza per le scelte penosissime che è costretta a compiere, nella sua ricerca della libertà. Comunque, i personaggi di ogni libro hanno sempre qualcosa   dell’autore, della sua vita interiore, che d’altra parte è l’unica che ognuno di noi può dire di conoscere bene».

L’intera vicenda è ambientata nei Seicento, esattamente come quella descritta nel vostro precedente romanzo storico L’abiura. Come mai questa scelta?

«Perché i nostri interessi storici vertono sul Seicento, un secolo cerniera di cui abbiamo imparato a conoscere la complessità e il fascino, un secolo che ha già in sé tutti gli elementi della modernità e prelude i grandi cambiamenti del Settecento illuminista».

Un detto recita “non c’è due senza tre”: avete già un nuovo romanzo in cantiere?

«Certo, si può dire che è quasi ultimata la prima stesura. Ma questa volta non siamo più nel Seicento, abbiamo voluto metterci alla prova e affrontare un periodo e un argomento per noi completamente nuovi: il primo dopoguerra del Novecento attraverso le vicende di un ebreo triestino tra guerra d’Etiopia e leggi razziali. Per la prima volta non ci siamo basate su documenti d’archivio, ma su molte e svariate letture e sulla nostra capacità creativa. Sempre nuove sfide per la nostra scrittura a quattro mani».

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