Invictus

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Michele D'Urso

12 Febbraio 2015
Reading Time: 5 minutes
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Maurizio Teghini

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Una volta, quando i film erano ancora in bianco e nero, parlare di rugby nell’italica pallonara nazione era considerato alla stregua di un’eresia. Per fortuna, non è più così. Incontrare Maurizio Teghini, imponente ex atleta che passa abbondantemente il metro e novanta, oggi dirigente del Rugby Udine 1928, per saperne di più sul cavalleresco sport dalla stranissima palla, è una opportunità per contribuire allo sviluppo di questa nobile arte.

Maurizio, comincio con una facezia: chi è nato prima, la palla ovale o la gallina?

«Nel mio caso, a dispetto delle teorie sull’evoluzione, è nata prima la palla ovale. Mia madre dice sempre che sia io sia mio fratello minore Michele stringevamo la palla ovale già nella sua pancia. Probabilmente nostro padre, rugbista anche lui, anziché leggerci le favole ci leggeva le cronache delle partite…»

Per questo ha iniziato a giocare da giovanissimo?

«All’epoca il rugby, agonisticamente parlando, lo potevi iniziare a 14 anni; non c’erano tutte le categorie giovanili di adesso, per cui già adolescente mi sono cimentato con la prima squadra. Questo senza disdegnare altri sport: sono stato anche un buon cestista, arrivando a militare in serie C con la Inter 1904, storica formazione triestina che oggi non esiste più».

La sua è stata una lunga carriera.

«Avevo 16 anni quando esordii in prima squadra con la Fiamma Trieste, ed era il 1976. Ho tenuto botta fino alla stagione 89/90, poi a seguito di un infortunio al ginocchio ho intrapreso la carriera di allenatore, sebbene avessi già cominciato ad allenare squadre giovanili».

E poi?

«Dopo qualche anno mi sono trasferito sportivamente a Udine, continuando però ad abitare a Trieste. In Friuli ho cominciato con le giovanili e poi, nel 2009, sono arrivato nello staff tecnico della prima squadra. Il mio ruolo odierno è ‘Director of Rugby’, un ruolo che va dall’analisi delle partite e dell’evoluzione del progetto tecnico, alla programmazione della stagione, al coordinamento dello staff e ai rapporti con gli atleti, con particolare riferimento alla crescita dei più giovani».

In che ruolo ha giocato?

«Io ero seconda o terza linea, un ruolo che viene identificato nel pacchetto di mischia che è, per capirsi con i neofiti, quell’ammucchiata otto contro otto che dà origine alle azioni».

Nonostante le ammucchiate il rugby è uno sport molto ordinato. Come si fa a passare dal caos all’ordine in così poco tempo?

«Il rugby è uno sport di situazione e quindi costringe a trovare soluzioni immediate; che poi si passi velocemente da una situazione statica alla fase dinamica è insito nei concetti che animano questo sport: avanzare, sostenere, continuità. Sono concetti militari applicati alla competizione, in quanto la partita viene vista come una battaglia in tutti i sensi. Battaglia sportiva, ovviamente».

Ottanta minuti (la durata di un match, ndr) di continua fatica.

«Il rugby comporta sforzi fisici notevoli con recuperi brevissimi; ci sono anche delle interruzioni, ma in questi casi l’arbitro ferma il tempo: alla fine, gli ottanta minuti bisogna correrli tutti».

Però dopo tanta fatica arriva il terzo tempo…

«È una delle cose che rende grande il rugby, perché non si tratta solo di andare a bere qualcosa con l’altra squadra e gli arbitri della partita, ma di aggregarsi, di ‘affratellarsi’ con altra gente; non per niente nel rugby non esistono frange di tifosi violenti, anzi. Certe partite mi sono divertito più a vedere come la gente se la spassava in tribuna, facendo amicizia e ridendo con chi stava loro di fianco e che portava i colori della squadra avversaria, piuttosto che a seguire quello che succedeva in campo».

Il rugby è anche uno sport che non premia solo il risultato…

«Il punteggio assegnato tiene conto anche della qualità del gioco e dello spettacolo offerto: se perdi ma hai realizzato almeno quattro mete prendi un punto; se perdi con uno scarto di punteggio finale pari o minore a sette prendi un punto… Per cui, se giochi bene puoi prendere due punti mentre chi vince al massimo ne prende cinque. Questo fa sì che si può perdere una partita senza compromettere la classifica di un campionato. Cosa che in molti altri sport non avviene».

Cosa manca al rugby italiano per fare il grande salto?

«La ‘crisi’ si fa sentire in tutti gli sport e il rugby non è escluso. Nel nostro Paese poi c’è sempre la mentalità della ‘massa che certifica l’evento’. A noi italiani manca il concetto del pluralismo e della sintesi: ascoltare tutte le voci e scartare quelle inadatte. Invece, così facendo, vincono sempre gli interessi individuali, non quelli collettivi».

La sua mi pare una mentalità ‘non allineata’…

«Come la storia di questo sport. La leggenda vuole che nella cittadina inglese di Rugby, che ha dato il nome al nostro sport, durante una partita di calcio collegiale uno studente abbia afferrato la palla con le mani e abbia cominciato a correre fino a portarla oltre la linea di fondo della squadra avversaria, dimostrando così che ci possono essere modi diversi di valutare un’azione sportiva».

Torniamo a lei: qual è stata la soddisfazione sportiva più grande?

«Aver allenato ragazzi che poi sono arrivati alla Nazionale e alla serie A. Anche la convocazione in azzurro di mio fratello, pur se nel settore giovanile, e i suoi anni in serie A, sono un fiore da portare all’occhiello».

Il rugbista che le piace di più?

«Richie McCaw, il capitano dei mitici ‘All Blacks’, la Nazionale neozelandese».

Il vivaio dal quale le piacerebbe attingere i suoi giocatori?

«Quello della Nuova Zelanda, ovviamente. Loro sono i più forti».

A proposito di stranieri: cosa pensa dell’utilizzo degli ‘oriundi’?

«Prendiamola come una opportunità: aver a disposizione campioni può creare successi che attirano l’interesse. Come di ogni cosa, bisogna farne un uso sensato».

E delle donne nel rugby?

«Favorevolissimo; sono un volano di sviluppo per il nostro sport. E abbiamo una Nazionale femminile che si è fatta molto onore nelle ultime competizioni».

Già, farsi onore nel campo dello sport; quella dolce emozione che poi può essere trasferita all’identità di una Nazione, come avviene nel film ‘Invictus’ di Clint Eastwood. E allora chiudo augurando ai rugbisti nostrani, Maurizio Teghini in primis, di farci gloriare delle loro future imprese.

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