Il viandante e l’hospitalero

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Margherita Reguitti

22 Novembre 2022
Reading Time: 6 minutes
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Luigi Nacci

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Luigi Nacci, triestino, poeta, pellegrino, nomade, ma anche giornalista, insegnante, guida ambientale e naturalistica e scrittore. Il suo ultimo libro – “Non mancherò la strada. Che cosa può insegnarci il cammino”, edito da Laterza – è un invito al cammino, ognuno con il proprio passo, approfondendo il pensiero di filosofi, teologi e intellettuali europei e americani.

Una pubblicazione che segue volumi di versi e in prosa, come “Alzati e cammina”, Ediciclo (editore per il quale è anche direttore della collana “La biblioteca del viandante”) e “Trieste selvatica”, Laterza. Pagine che sono anche diario di esperienze, di incontri, di volti, di atmosfere, di viandanza. Pensieri condivisi, rappresentazione del buio dal quale nasce il desiderio incontenibile dell’andare a piedi, racconti dei doni semplici ma preziosi che ne derivano.

Intrecciati con il fluire del racconto anche consigli utili per girovaghi, suggerimenti di percorsi in Italia e all’estero e strumenti per riconoscere i richiami ma anche la bellezza di andare senza motivo.

Un libro che raccoglie testi scritti in 10 anni. Un tempo lungo che viene consigliato anche per la lettura. “Fai il primo passo fai tutto da capo”, apre il primo capitolo.

«Thich Nhat Hanh scrive: “Dovremmo vivere la nostra vita come ci fosse una cerimonia del “Ricominciare da capo” ogni minuto”. E dice anche: “Non si può amare per meno di ventiquattro ore al giorno”. È fantastico, no? Ricominciare da capo in continuazione e amare tantissimo. Un giorno che è un’esplosione di rinascite, di gesti e parole amorevoli. Il cammino è proprio così: a ogni passo puoi ricrearti, a ogni passo puoi amare ogni essere che ti circonda, animato o inanimato. Più sprofondi nel cammino, più ti abbandoni a esso, più la tua vita esplode».

Camminare è un modo per cercare una forma di libertà?

«Non è il camminare di per sé ad approssimarci a una forma di libertà, ma la consapevolezza che imprimiamo nei passi. Il cammino inizia quando diciamo arrivederci, o addio, al nostro nome, sulla soglia di casa, ed entriamo lentamente in un’altra dimensione, dove tutto è possibile, dove le nostre gambe si trasformano in ponti».

Lei ha fatto l’hospitalero in Spagna.

«È una figura chiave: è la creatura che accoglie. Senza le sue braccia aperte non c’è cammino. Senza questa figura non può esserci un trekking, un’attività senza dubbio salutare ma che poco ha a che fare con il cammino. Il viandante e l’hospitalero sono le due facce della stessa medaglia: il primo va per la strada aperta, offrendo al mondo la propria fragilità; il secondo raccoglie quella fragilità e ne fa pane. Pane condiviso, per tutti coloro che sosteranno sotto lo stesso tetto per una notte».

Cosa fa un hospitalero?

«Sta sulla porta con un bicchiere di acqua in mano, in attesa che qualcuno arrivi, senza sapere se arriverà. La sua vita si illumina e si riempie nell’attesa. E quando qualcuno giunge, allora sorride e disseta. Prepara una tavola con un posto in più, sempre, destinato al più stanco, al più fragile, quello che si è perso, che ha più fame. Ogni viandante dovrebbe farsi hospitalero e viceversa. Insieme danno vita alla sacra figura dell’ospite: chi ospita e viene ospitato. L’oste e il forestiero, il medico e il paziente, il maestro e l’allievo».

In Italia quali sono i cammini più interessanti?

«I cammini più interessanti sono quelli che partono da casa. “Quanti dei nostri problemi nascono dentro casa!”, scrive Thoreau, l’ispettore delle albe e dei temporali, il viandante che ha esplorato ogni filo d’erba dei campi intorno alla sua casa, un pensatore che non smette di parlarci a distanza di centoventi anni. Non è stato un grande viaggiatore Thoreau, ma è stato un grande viandante».

Dunque che significa “viaggio”?

«Non serve andare lontano. Possiamo fare lo zaino e avventurarci nel nostro quartiere come fosse una giungla. Possiamo essere gli avventurieri dei vicoli. Sognare a occhi aperti in giardino comunale, fare la rivoluzione in un parcheggio. Possiamo provare a farci nomadi, almeno un po’, ogni giorno di più, e comprendere che viviamo in una società stanziale, di stanziali che pur prendendo mille aerei e treni restano stanziali, iperconnessi e iperstanziali, diffidenti verso i nomadi…»

Il suo è un diario intimo di viaggio fisico e intellettuale: quali sono i suoi riferimenti?

«Thoreau, Chatwin, Emerson, Herzog, Buber, Jabès, Hillman, Fermor, Sebald, Zambrano, Pavese, Lorca, Machado, Woolf, Dante, Handke, Lopez, Leopardi, Slataper, Nietzsche, Merton, Panikkar, Rigoni Stern, Solnit, Wordsworth, Snyder, Pessoa, Neruda, Celati, Bloch, Gurdjieff e molte e molti altri. Non tutti allo stesso livello, ma senza dubbio tutti in cammino con me. Sono grandi che mi insegnano, mi fanno sentire piccolo, e sentirsi piccoli credo sia una buona cosa. Mi fanno compagnia sui sentieri, soprattutto quelli oscuri».

Il viaggiatore che proviene dal Veneto entra in Friuli per dissolvenza”, scrive Pasolini. Quale il suo rapporto con il Friuli e i territori confinanti?

«Fulvio Tomizza diceva di sentirsi italiano a Belgrado, istro-italiano a Zagabria, croato-italiano a Lubiana, slavo-istriano a Trieste e triestino-italiano in Istria. Anch’io, nel mio piccolo, mi sento sempre qualcos’altro, a seconda di dove mi trovo. Però triestino sempre, quando sono lontano da Trieste, che sia il Friuli o la Slovenia o qualsiasi altro luogo».

Triestinità: per lei cosa significa?

«Mi sento triestino perché mi sento simile a un refolo di bora, a una dolina, a uno scaricatore di porto, a un tramonto in faccia al Molo Audace, a un calcare, a una città piena di contrasti e lingue e differenze e identità che si affastellano, si toccano, si abbracciano, si picchiano e poi si abbracciano, identità che si bevono l’un l’altra. Mi sento un cielo mitteleuropeo, balcanico e latino. Mi sento una osmiza quando sono a teatro e mi sento un verso di Saba quando sono in osmiza. Ma sempre e comunque un refolo di bora, che non conosce confini. Una bandiera bianca che sventola anche in assenza di vento».

Da scrittore e giornalista che rapporti ha con i social?

«Sui social lascio, spero con parsimonia, tracce delle mie peregrinazioni – della mente e dei piedi. Non faccio selfie, non amo essere fotografato. Non conto nulla. Non sono nessuno. La mia faccia non ha rilevanza. Rimbaud diceva: “Non sono nient’altro che un pedone”. Se lui si sentiva così, io posso aspirare a definirmi al massimo un pedone dimezzato».

Ogni capitolo del suo libro inizia con una poesia. Una scelta di cadenza e linguaggio?

«La poesia è ritmo, piede. Ed è esplorazione dei margini. Si cerca la parola che riesca a dire ciò che esiste negli interstizi. Il poeta è un esploratore: cerca un’ombra, vi entra in relazione, prende commiato dall’ombra e torna a casa con un passo nuovo – in quell’andatura, che è prosodia, cerca le parole per riferire il suo incontro con l’ombra. Il viandante è un esploratore a sua volta: la sua vita si fonda sul piede, sul ritmo, sulla ricerca di vie segnate e soprattutto non ancora segnate, fa scoperte in continuazione, e quando torna a casa lo fa con altri piedi».

Quale è il rapporto fra poesia e viandanza?

«Si sovrappongono. La letteratura è un’altra cosa. Nel bosco non servono a nulla le citazioni. Le biblioteche che abbiamo in casa non ci serviranno a nulla se incontreremo un orso o un lupo. Il poeta scopre, il letterato ricorda, cita le scoperte altrui. Ecco perché Scipio Slataper afferma che deve essere poeta e non letterato. Il Carso non potrà svelarsi che a un poeta, cioè a una creatura inerme, senza protezioni, che si offre al mondo soltanto con la sua voce e il suo piede. Un’ombra in canto».

 

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