Quali sono gli atteggiamenti che prevalgono nella nostra società rispetto al capitalismo? Qual è il clima che si respira in questi anni di crisi, in un contesto di depressione economica e sociale di cui non si intravedono le modalità di superamento?
Si colgono segnali contrastanti, spesso conflittuali, che vanno dagli entusiasmi superficiali ai pessimismi irrazionali, come un pendolo impazzito che oscilla tra nostalgie dello Stato “mamma”, ansie riformatrici dello stesso, denigrazioni dell’impresa privata ed esaltazione dell’individualismo delle start up.
In base alle notizie della giornata c’è chi vede nel Capitalismo soltanto materialismo, egoismo, individualismo, mentre altri ne enfatizzano i valori etico culturali pluralistici e la capacità unica di assicurare la produzione continua di benessere sistemico, altri ancora gli oppongono visioni di tipo comunitario e solidaristico. Ma chi è veramente solidale: un sistema collettivista o un sistema capitalista? Per provare ad abbozzare una risposta si dovrebbe chiarire la natura di un sistema capitalista ripercorrendo alcuni eventi storicamente a noi vicini, ricordando che lo stesso Marx riconobbe nel capitalismo nascente dell’800 una delle forze che nella storia hanno generato promozione sociale.
Con la caduta del Muro di Berlino fu proclamato il trionfo del capitalismo e l’inevitabile avvento della democrazia occidentale. Si arrivò a teorizzare la superiorità morale del capitalismo, in quanto contenitore dei germi dell’altruismo. Fu proprio in quegli anni che iniziò la nuova lunga marcia della Cina, oggi terza potenza economica mondiale. Anche quello cinese è capitalismo? In quale accezione?
Una confusione di pensiero, ancora assai diffusa tra gli stessi addetti ai lavori, è quella che tende a identificare economia di mercato ed economia capitalistica. Si tratta di un errore grossolano: l’economia di mercato nasce alcuni secoli prima del capitalismo. Il capitalismo è un ben preciso modello di ordine sociale, mentre il mercato è un modello di regolazione della sfera economica. Esiste anche il capitalismo di Stato che, come nel caso cinese, cristallizza un modello di ordine sociale fondato sulla dicotomia tra leggi della produzione e leggi della distribuzione della ricchezza. Quando si tratta di produrre ricchezza non si deve guardare troppo per il sottile alla difesa dei diritti umani, al rispetto e all’integrità morale delle persone; quando si giunge alla distribuzione della stessa occorre ricordarsi del legame che tiene uniti tutti i membri della società e mettere in pratica logiche redistributive calate dall’alto.
Tale dualismo è presente in forme e intensità diverse anche in molte democrazie occidentali e può minare alla base la legittimazione del capitalismo come modello di ordine sociale quando il profitto diventa obiettivo esclusivo, il fine ultimo è di natura prettamente economica e viene contrapposto a fini sociali.
La citata supposta superiorità morale del capitalismo portatore di germi altruistici viene quindi messa fortemente in discussione dalle condizioni che storicamente ne determinano la concretizzazione in ordinamenti sociali. Negli ultimi 25 anni, dal 1989, le cose sono infatti andate diversamente. Il mondo occidentale ha sperimentato cambiamenti allarmanti ed epocali a un tempo: la corruttela delle classi politiche accompagnata da più o meno inquietanti livelli di corruzione nel mondo degli affari, la divaricazione tra finanza ed economia reale, l’aumento delle disuguaglianze sociali, il declino e l’arresto dei processi di mobilità sociale, la messa in discussione del welfare state, le migrazioni di massa frutto di conflittualità geopolitiche irrisolte, il riscaldamento globale, numerose promesse di evoluzione democratica svanite. Problematiche ben note a cui si è tentato di dare delle risposte “additive”: capitalismo sostenibile, capitalismo inclusivo, socialmente responsabile, capitalismo consapevole, e altre.
Sembrerebbe che con questi aggiustamenti il percorso trionfale del capitalismo possa riprendere. Non c’è dubbio che il capitalismo ha bisogno di essere ripensato a partire da una rinnovata centralità del bene comune e da una maggiore responsabilità sociale delle imprese. Ma la radice del problema sta più in profondità.
Il superamento del capitalismo duale
La nostra società si fonda su due pilastri. Uno è rappresentato dal settore pubblico e dai servizi per il bene comune, come l’istruzione, la difesa, la sanità, la sicurezza, le infrastrutture. L’altro rappresenta le imprese del settore privato e le risorse che esso mobilita nell’economia di mercato per la fornitura di beni e servizi. Almeno questa è la visione nella percezione più diffusa e comune. Ma c’è un terzo pilastro, poco visibile, scarsamente presente nei media, non urlato, che però svolge un ruolo fondamentale. Sta sullo sfondo ed è quello che dà profondità e sostegno alla nostra casa comune: due dimensioni da sole non sostengono un tetto, siano esse quella pubblica o quella privata.
La società ha bisogno di una terza dimensione per l’equilibrio complessivo. Alcuni lo chiamano terzo settore appunto, altri settore plurale, altri ancora “società civile” o l’ambito delle ONG e delle organizzazioni non-profit. Ma questa terza dimensione non ha la stessa rilevanza e legittimazione delle altre due, anche se comprende tutte quelle associazioni, molte basate su comunità, che svolgono un ruolo importantissimo e complementare. E non sono di proprietà né di investitori privati né dello Stato. È sorprendente scoprire quotidianamente che ci sono tantissime persone che in silenzio si mettono al servizio di organizzazioni di volontariato, al fi ne di condividere i loro interessi comuni e perseguire i loro sogni comuni. Le loro motivazioni hanno natura non strumentale: si fa qualcosa per il significato o il valore intrinseco di quel che si fa e scaturiscono da una speciale passione, la passione per il bene comune.
Il settore plurale è enorme e di primo piano nella nostra vita. Lo viviamo sempre più frequentemente e lo consideriamo quasi come un fenomeno scontato: dal far la spesa in una cooperativa locale all’assistenza ai non vedenti, all’accompagnamento dei bimbi a scuola, alla associazione sportiva locale, al gruppo di sostegno ai profughi e ai rifugiati. Eppure questo settore si perde in mezzo ai grandi dibattiti in corso: sinistra contro destra; nord contro sud; settore privato contro settore pubblico. Tutti contro tutti. In una società sana, ciascuno dei tre settori coopera con gli altri due in uno sforzo di co-sviluppo equilibrato, contribuendo a un’evoluzione congiunta e mutuamente controllata, adattando dinamicamente i propri confini per il bene comune.
Quando uno dei settori diventa dominante, la società nel suo complesso soffre. Troppo potere nel settore pubblico si traduce spesso in dirigismo statale, dove lo statalismo invade e limita la sfera delle libertà private. Molti regimi che hanno abbracciato e perseguito questa mono-dimensionalità sono crollati sotto il loro stesso insostenibile peso. Un settore privato senza bilanciamenti si traduce nelle disparità di reddito e di irresponsabilità sociale d’impresa che stanno emergendo in molti Paesi.
E anche un settore plurale troppo diffuso è in grado di creare fenomeni di tipo populista in cui aggregazioni dal basso e gruppi di comunità prevalgono sulle altre. I periodi di progresso sociale ed economico sono contraddistinti da condizioni di equilibrio, anche solo temporaneo e frammentario, delle tre dimensioni. Cosa fare allora per promuovere uno sviluppo bilanciato delle 3D? In un mondo con le forze del settore privato così influenti e diffuse in ambito globale e con l’emergere di potenti e nuovi capitalismi di Stato, il settore plurale deve e può svolgere un ruolo centrale nel ripristino di condizioni di equilibrio. Bisogna favorire la propensione ad associarsi anche attraverso nuove forme di rappresentanza e di riconoscimento del valore sociale ed economico creato. C’è grande bisogno di intrapresa sociale per consentire al mercato di svolgere appieno il suo ruolo di regolatore dell’economia.
La figura centrale di un terzo settore con forte legittimazione sociale è rappresentata dall’imprenditore sociale che non è semplicemente un filantropo che dona parte del proprio reddito o del proprio tempo, ma è tipicamente anche un imprenditore che pone risorse e know-how imprenditoriale al servizio di una causa di interesse collettivo. Quello che serve è uno sforzo organizzativo comune, anche nella prospettiva di una maggiore istituzionalizzazione e legittimazione della terza dimensione, che condivida le innovazioni in ambito sociale e metta a fattor comune le migliori esperienze per dotare anche il settore plurale di quelle competenze e strumenti che consentano di diffonderne il successo sociale.
Ma anche questo non sarà sufficiente se ciascuno di noi non si sente attore impegnato, almeno parzialmente, e soggetto non passivo. Possiamo lavorare nel settore privato e coinvolgerci nel settore pubblico, o viceversa, nelle dinamiche sempre più articolate della nostra modernità, ma gran parte della nostra vita è vissuta nelle comunità e in modo diretto o indiretto nei più diversi mondi associativi. Possiamo permetterci di non esserci?
Dedicato con affetto a Fausto Felli, caro amico e mentore recentemente scomparso, che mi ha trasmesso la sua passione per il bene comune con l’esempio e l’impegno per l’innovazione sociale. Per anni Fausto si è battuto a livello nazionale ed europeo per promuovere una maggiore equità della salute e trovare soluzioni sostenibili per garantire l’accesso universale alla salute e alle cure a lungo termine.