Gabriella Grassi: l’albero nel cortile

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Dopo anni di ricerche ha messo nero su bianco una saga contadina che si svolge in quell’angolo di Bassa Friulana dove vive da secoli la famiglia Clementin. «Amo questa pianura per le suggestioni dei suoi paesaggi»

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Gabriella Grassi (ph. Claudio Pizzin)

TERZO DI AQUILEIA – Miu, Pepi, Checo, e lo sfortunato Antòn, sono coloni dei conti Cassis.

Allo scadere del contratto si dividono andando a lavorare per possidenti diversi, senza però perdere il forte legame che li unisce.

Le vicende dei Clementin corrono attraverso un secolo, mentre i loro gesti operosi si ripetono nei campi e nelle case, nei cortili e nelle stalle. Su di loro si abbattono le piaghe delle epidemie (come il colera del 1855) e delle guerre, come quella che nel 1914 porta i nipoti di Checo sui vari fronti, dall’Europa Orientale a Caporetto.

E così l’emigrazione che segnerà un momento doloroso, eppure mitigato dal forte legame di appartenenza che continua a sostenere la famiglia. E poi la vita tra le mura di casa, dove suocere e nuore sembrano passarsi come un testimone la forza fisica e il calore umano, e una generosità verso chiunque chieda aiuto.

Nel tempo, l’albero nel cortile diventa custode di avvenimenti e memorie in cui affiora una moltitudine variegata di umanità. Memorie protagoniste dell’ultimo di libro di Gabriella Grassi.

Gabriella Grassi quando è sbocciata la passione per la scrittura?

«Da bambina sono stata lettrice appassionata di fumetti, per poi scoprire la letteratura crescendo, ma è stato verso i trent’anni che mi sono accorta di avere anch’io delle storie da raccontare. Sentivo però che mi mancavano quegli studi umanistici che avrebbero potuto guidare la mia vena narrativa, e in pratica non riuscivo a mettere nero su bianco. Finché Antonio Rossetti si interessò alla storia della mia famiglia paterna, di cui gli avevo parlato, e me la fece descrivere in un articolo per ‘Cervignano Nostra’ del 2011. In seguito mi contattò Giorgio Milocco per partecipare al ‘Lunari’ con storie su Terzo, e anche in quel caso ebbi apprezzamenti ai miei scritti da parte di amici e addetti ai lavori che mi stimolarono positivamente. Nel 2017 avevo sottoposto la bozza di un mio saggio alla compianta Paola Tantulli della casa editrice EBI, scomparsa di recente, e lei mi consigliò di riscriverlo in stile narrativo. Devo molto a questa donna davvero unica, perché è così che tutto è cominciato».

Un suo altro grande amore è la storia, in particolare quella locale del territorio.

«Forse si tratta di un interesse innato, ma credo anche che questo amore me l’abbia trasmesso mio padre. Faceva il muratore per una ditta che restaurava edifici storici, e già da bambina percepivo la passione che aveva per il suo lavoro e per il passato. Ricordo il suo entusiasmo durante i lavori a una chiesetta medievale che stava per essere travolta dalle piene del Tagliamento. Ho delle foto, di metà anni ’60, dove mio padre e un altro operaio puntellano parti dell’edificio che verrà poi sezionato e ricomposto a Lignano. Papà era appassionato anche di storia romana, e in famiglia doveva averne respirato il fascino grazie al suo bisnonno, Giacomo Pozzar, che aveva lavorato per il Museo Archeologico di Aquileia. L’archivio del museo conserva le mappe di alcuni scavi di fine ottocento da lui disegnate e le relazioni a riguardo. E poi l’importanza del passato l’ho colta fin da piccola grazie a una condizione particolare: mia nonna abitava vicino al Sepolcreto Romano e ne custodiva le chiavi. Ricordo che mi sentivo orgogliosa di accompagnarla ad aprire il cancello quando arrivavano i turisti».

Il suo ultimo libro è definito “una saga contadina”. Come mai?

«L’accezione di saga si riferisce alle vicende di questo gruppo familiare ma, attraverso gli studi e le interviste, mi si è anche svelata come vera epica quella cultura ormai scomparsa che è stata la civiltà contadina. Grazie ai ricordi dei testimoni ho compreso che i capisaldi di quella società erano gli stretti legami familiari. Non erano solo le necessità pratiche che tenevano legati i congiunti, ma il bisogno di sostegno reciproco durante un’esistenza molto dura. Questi legami erano intessuti e custoditi principalmente dalle donne, una società femminile a sé, dentro quella comune di cui erano parte essenziale. Forte è emersa anche l’intensità del vincolo con la terra e la natura, che ho voluto far vivere ai miei personaggi con una concretezza non priva di un sentire profondo».

Perché ha scelto di narrare le vicende della famiglia Clementin?

«L’albero nel cortile completa la mia storia di famiglia, dopo il primo libro in cui ne ho descritto il ramo paterno. Rispetto a Le stagioni ritrovate, che comprende un arco di tempo lungo secoli, a questo romanzo ho pensato di dare un taglio diverso, basandomi sui ricordi della famiglia di mia madre, che partivano da metà ottocento. Per me ripercorrere la storia dei Clementin è stato un percorso quasi naturale, da bambina trascorrevo molto tempo a casa dei nonni e ho potuto percepire gli ultimi sussulti di quel mondo, di cui ho nostalgia. Ciò nonostante mi sento fortunata a vivere il mio tempo. Mi sono impensabili le fatiche che rendevano difficile la vita delle mie antenate, donne che hanno un ruolo importante nel romanzo. Alcune le ho conosciute perché me ne hanno parlato, con altre ho vissuto parte della mia vita: la nonna Elsa e mia madre. Sono loro grata per l’amore con cui mi hanno cresciuta, e per avermi testimoniato coi loro modi un’amabilità verso il prossimo in difficoltà che al giorno d’oggi, purtroppo, non sembra più un valore».

Alla famiglia è piaciuto il libro?

«I familiari più diretti hanno in qualche modo contribuito al mio lavoro, li aggiornavo regolarmente su quello che scrivevo, e non di rado avevano qualcosa di utile da specificare. Appena l’ho pubblicato, ognuno di loro si è approcciato al mio libro con una sorta di devozione, mi hanno fatto sentire che quanto avevo raccontato era prezioso, e questo mi ha emozionata molto. Fra i parenti, alcuni sono lontani geograficamente, si tratta dei discendenti di uno zio del mio bisnonno, Antonio, emigrato in Argentina nel 1885. Grazie ai contatti con una di loro, Maria Rosa Clementin, il mio libro viene letto a un corso di italiano che lei ha deciso di frequentare proprio per leggere L’albero nel cortile».

Il suo ultimo romanzo ha richiesto anni di ricerche d’archivio, studi e interviste a testimoni del passato. Che esperienza è stata?

«La ricerca d’archivio è appassionante, e scoprire qualcosa che si stava ricercando da tempo, regala momenti di felicità pura. Interessanti sono state le indagini all’Archivio Comunale di Aquileia, che conserva molti documenti su Terzo, come liste di leva di metà ottocento o le richieste di indennizzo per l’alloggiamento di soldati di passaggio nel 1859. Una prospettiva importante sulla vita in paese durante il XIX secolo mi si è rivelata poi dalle carte delle Zitelle, consultate nel loro archivio di Udine. Questa congregazione aveva ampi possedimenti a Terzo, e il mio antenato Checo lavorò saltuariamente per loro. Molto appassionante è stato sfogliare giornali d’epoca per esaminare i bollettini meteorologici: le citazioni del mio libro sul tempo atmosferico si riferiscono al meteo reale di quel giorno. Le interviste a mio zio Orlando, che ci ha lasciati alcuni mesi fa, sono state essenziali per il romanzo».

Lei vive a Terzo di Aquileia: qual è il rapporto con la Bassa Friulana?

«Il rapporto con la mia terra ha subito variazioni nel tempo, in base all’età. Come per tutti i giovani la vita di paese mi stava stretta, poi col tempo le cose sono cambiate. Ora la Bassa Friulana mi appare un posto dove è bello vivere. Che sia un luogo tranquillo è una considerazione che for- se si adatta alla maturità, ma io noto con piacere giovani famiglie venute da fuori che trovano la nostra terra il luogo adatto a crescere i propri figli. Non mi addentro negli aspetti economici o urbanistici del territorio, perché non ho elementi di conoscenza validi a riguardo, ma mi auguro che diventi un valore imprescindibile mantenere l’integrità delle campagne e dei nostri alberi, perché non sono solo soggetti importanti del panorama, ma hanno a che fare con la nostra salute e quella del pianeta. Amo questa pianura per le suggestioni dei suoi paesaggi e amo i nostri tramonti incredibili, dove solo l’orizzonte è limite all’immensa tavolozza accesa del cielo».

Quali sono altre storie di questi luoghi che desidererebbe raccontare nei suoi libri?

«Ci sono diversi luoghi o persone che mi suggestionano e che mi piacerebbe inserire in una novella o in un romanzo. Lo sfondo è la storia di questa terra, sempre. C’è un racconto che avevo scritto, ambientato nel ’700 fra Terzo e Monastero, che potrebbe diventare un romanzo. Mi piacerebbe anche realizzare alcune storie prettamente a Monastero, in una o più epoche in cui erano presenti le Benedettine. Un altro periodo che mi affascina è quello fra le due guerre del secolo scorso, quando la gente cercava di vivere una sua normalità in mezzo ai limiti imposti dalla dittatura. C’è poi la vita del mio antenato Giacomo Pozzar, che meriterebbe una biografia approfondita. A volte ci penso, ma ancora non è il momento di affrontare uno studio che si rivela piuttosto impegnativo».

A proposito di nuovi libri: c’è già qualcosa in cantiere?

«Ho un progetto per un nuovo romanzo a sfondo storico e, anche se non so ancora se andrà in porto, sto facendo il mio lavoro di ricerca. Posso anticipare che voglio cimentarmi in una storia completamente inventata per fatti e personaggi, anche se per evidenziare le caratteristiche dei singoli e dei gruppi familiari voglio basarmi su una società precisa. Invece territori e località saranno reali e riconoscibili nella Bassa Friulana, e faranno da sfondo forse a un giallo…»

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