Il 10 febbraio 1947 il destino della Venezia Giulia e della Dalmazia era segnato per sempre dal Trattato di Pace di Parigi e, contrariamente alla tanto promessa libertà, ebbero inizio le vessazioni tipiche dei regimi dittatoriali. Tra coloro che volevano crescere e vivere finalmente da uomini liberi c’erano due fratelli: Giovanni e Abdon Pamich, due adolescenti fiumani, rispettivamente di 15 e 14 anni. Prima che sorgesse l’alba del 23 settembre 1947 (martedì, primo giorno d’autunno), i due giovani misero in atto un progetto temerario: abbandonare gli affetti famigliari, la scuola, gli amici e l’amata Fiume con l’obiettivo di ricongiungersi al padre, che li aveva preceduti di poco recandosi a Milano col proposito di farsi raggiungere dal resto della famiglia. A Fiume erano rimasti in angosciosa attesa la mamma e i due fratelli più piccoli, Raoul (11 anni) e Irma (4 anni). L’aver affrontato l’ignoto, che si rivelerà ben più duro del previsto, superando ostacoli, disagi e sofferenza, è stata una prova di fiducia nel futuro, di coraggio e di maturità da parte dei due ragazzi.
A raccontare questa storia di peregrinazioni da un campo profughi all’altro, da una città all’altra, prima della riunificazione della famiglia in quel di Genova, è il professor Giovanni Pamich, uno spirito libero, legato indissolubilmente alla propria terra, Fiume (la citta dell’aquila a due teste e del motto antico Indeficienter [inesauribile]), già valente chirurgo e docente alla Scuola di Specializzazione in Chirurgia Vascolare dell’Ateneo triestino, Ufficiale medico di complemento della nostra Marina Miliare, Primario di Chirurgia Generale presso gli ospedali di Monfalcone e Gorizia, con esperienze professionali in Svizzera (Locarno e Bellinzona), in Inghilterra (“Registrar” in Reparto ospedaliero di Chirurgia Toracica), in Friuli (Palmanova) e una lunga attività a bordo delle grandi navi bianche, rispondendo al forte richiamo del mare.
Il destino ha negato a Giovanni, a differenza di Ulisse, il ritorno alla ‘sua Itaca’, ma non ai suoi genitori, che, grazie a lui quale votum solvit, ora riposano assieme agli avi nel cimitero monumentale fiumano di Cosala, come testimoniato dall’iscrizione incisa sulla loro tomba: “Sono ritornati a casa”.
Giovanni Pamich parla anche per Abdon, il fratello di un anno più giovane, compagno fiducioso in quell’incredibile avventura, ora residente a Roma (lauree in Psicologia e in Sociologia), già funzionario di una multinazionale e di altre aziende pubbliche, che, senza nulla togliere all’impegno professionale, si è dedicato con sacrificio, ottenendo strepitosi risultati, alla dura disciplina sportiva della marcia.
Giovanni Pamich, quale ricordo e quali sensazioni porta nel cuore di quel 23 settembre 1947?
«Ricordando quel giorno mi tornano alla mente una splendida estate non ancora giunta al termine, la ripresa delle lezioni al Liceo Italiano (il Liceo Classico “Dante Alighieri”, da me frequentato, era stato unificato con il Liceo Scientifico “Antonio Grossich” nell’edificio di quest’ultimo, per la drastica diminuzione degli studenti in gran parte già esodati) in una classe dove la metà dei banchi era priva dei coetanei dell’anno scolastico precedente. Alcuni di loro, salvatisi dalle persecuzioni naziste, avevano preannunciato il ritorno nella patria dei bisnonni, chi a Praga, chi a Budapest e chi in altre nazioni dell’ex Impero asburgico. Stranamente, la loro corrispondenza mi giungeva da svariate città italiane. Questo confermava che la strada verso la libertà era a Occidente, la strada che, rompendo gli indugi prima dell’alba del 23 settembre, scelsi con mio fratello. Non fu una decisione facile da prendere: si lasciavano tanti affetti, molte amicizie, bei ricordi di momenti sereni e, soprattutto, si abbandonava una città di cui facevamo parte e che era nel nostro essere. Nella consapevolezza di andare verso l’ignoto. Facemmo appello a tutta la forza interiore per poter andare avanti e cercare di ricostruire una nuova vita, coscienti di dover affrontare molte incomprensioni, tanta indifferenza e talvolta pure marcata ostilità».
Come pensavate di superare la Cortina di Ferro, entro cui foste inclusi il 10 febbraio 1947 col Trattato di Pace di Parigi?
«Inizialmente non avevamo un’idea ben chiara, quindi decidemmo di acquistare un biglietto ferroviario per Trieste e salimmo sul primo treno che partiva verso le due del mattino in quella direzione. Avevamo previsto di scendere all’ultima stazione sotto controllo jugoslavo, per poi attraversare il Carso eventualmente a piedi, fino alla zona controllata dagli Anglo-americani. Ipotesi errata, perché il convoglio non era diretto a Trieste bensì a Lubiana, per cui prima del sorgere dell’alba fummo costretti a scendere a San Pietro del Carso (Pivka) e aspettare infreddoliti il treno per Trieste. Finalmente, a mattina inoltrata arrivò la coincidenza. Purtroppo, sbagliammo salendo su una carrozza della sezione che andava da Lubiana a Fiume, invece di salire su una di quelle della sezione diretta a Trieste. Ci accorgemmo dell’errore dopo che il treno aveva già percorso alcuni chilometri».
Cosa faceste?
«Nella concitazione del momento ci mettemmo a correre verso la coda del convoglio incappando in un miliziano, il quale, avendoci probabilmente inquadrato alla partenza da Fiume, ci chiese arcigno dove esattamente fossimo diretti. Evitammo di rispondere e sgattaiolammo in avanti, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra, continuando a correre. Per nostra fortuna dopo un po’ il treno si arrestò in mezzo al Carso, probabilmente per un semaforo rosso, e noi scendemmo precipitosamente sulla massicciata ferroviaria avviandoci a piedi di nuovo verso San Pietro, dove giungemmo a mezzogiorno suonato».
Lì cosa successe?
«Dopo aver atteso pazientemente fino al tardo pomeriggio la coincidenza successiva per Trieste, ecco un’ulteriore sorpresa: la linea di demarcazione era stata spostata verso est, da Sesana a Divaccia. Qui i miliziani fecero scendere tutti dai vagoni, ammassando le persone nella sala d’aspetto della stazione per controllare i documenti. Regnava una gran confusione, mio fratello e io ci facemmo guardinghi e molto attenti a ciò che succedeva, avendo notato che erano numerosi i respingimenti e i divieti di superare il confine. Cercammo di arretrare sempre più in attesa di cogliere un momento favorevole per superare il controllo. L’occasione si presentò quando ci trovammo circondati da un gruppo di donne triestine vocianti di ritorno dalla ricerca dei famigliari internati in Jugoslavia: vedendoci straniti, in pantaloncini corti, stanchi e piuttosto tesi, ci chiesero da dove venivamo e le nostre intenzioni. Compreso il problema, ci tennero vicini come fossimo loro figli, così al controllo dei documenti, complice la ressa e la gran confusione, passammo inosservati o non considerati dai ‘graniciari’ e risalimmo velocemente sul treno con le signore sempre vocianti, che al nostro tentativo di ringraziarle ci intimarono di tacere guardandosi preoccupate intorno. Il treno non aveva ancora valicato la linea di demarcazione tra Jugoslavi e Alleati e l’OZNA (Dipartimento per la protezione del popolo, ndr) aveva occhi e orecchie dappertutto».
Lo sbarco in Italia come fu?
«A tarda sera, ben oltre le 22, finalmente posammo piede nella stazione di Trieste da dove fummo avviati al famoso Silos, che fungeva da prima tappa per coloro che avevano varcato la Cortina di Ferro. Spogliati e inondati di DDT, ci venne assegnata una branda dell’ex Regio Esercito, una coperta e pure una pagnotta con della mortadella, che addentammo con voracità. L’indomani, sotto una pioggia battente, venimmo indirizzati a un ufficio del Governo Militare Alleato (GMA) per ritirare un documento di transito dal Territorio Libero di Trieste (TLT) all’Italia e un biglietto ferroviario per Milano, dove ci attendeva nostro padre. Si era così conclusa la parte più perigliosa della nostra fuga da Fiume».
Ma l’avventura non era ancora terminata…
«Purtroppo no. Il viaggio notturno da Trieste a Milano, su un treno gremitissimo, fu un tormento continuo, passato in piedi e non perfettamente in verticale. Giunti a destinazione al mattino presto, impiegammo mezza giornata per trovare nostro padre, che non era presente in via Dante 4, come previsto. Con lui trascorremmo un mese e più in condizioni molto precarie, sia perché la multinazionale nella cui succursale di Milano papà avrebbe dovuto trovare lavoro e appoggio era sparita nel bailamme bellico e postbellico, sia per difficoltà di alloggio in una città ancora piena di macerie. Fu giocoforza, allora, essere avviati al Campo di transito per profughi di Udine, ubicato in via Gorizia, in una Scuola elementare, da dove, dopo circa un mese, fummo trasferiti in modo definitivo al Campo profughi di Novara».
Quale fu l’impatto con Novara e la vostra permanenza tra nebbie e risaie?
«L’impatto fu decisamente traumatico. Venimmo sistemati in una caserma semidistrutta, in una camerata priva di infissi, che ospitava nuclei famigliari separati gli uni dagli altri da coperte appese a delle corde. Ci fu assegnato un spazio ove si trovavano due posti letto formati ciascuno da due cavalletti metallici, che sostenevano un insieme di doghe sulle quali era disteso un sacco contenente foglie di granoturco a mo’ di materasso e due coperte, considerata la stagione invernale. I servizi igienici erano latrine aperte e un trogolo con rubinetti dai quali d’inverno usciva una stalattite di ghiaccio. Rancio in cortile, distribuito in gavetta con cucchiaio da capienti marmitte ex militari».
Non proprio quanto speravate partendo da Fiume…
«Abdon e io, seduti sul bordo dei letti, ci guardammo l’un l’altro per due giorni, quasi inebetiti. Alla fine ci demmo uno scossone e andammo a iscriverci a scuola per riprendere gli studi interrotti da due mesi: io alla prima del Liceo Classico e Abdon all’istituto Tecnico per Geometri: il suo sogno di frequentare il Nautico veniva così, di necessità, accantonato. Papà, intanto, aveva raggiunto Genova in cerca di lavoro e di una sistemazione definitiva per tutta la famiglia».
Per quanto tempo siete rimasti a Novara?
«A Novara io e mio fratello concludemmo con profitto i nostri rispettivi impegni scolastici. Papà intanto era riuscito a trovare a Genova una soluzione abitativa accettabile, che avrebbe consentito di ritrovarci finalmente tutti assieme. Così, a fine estate 1948, profilandosi a breve l’inizio del nuovo anno scolastico e con la speranza che, nel frattempo, anche mamma e i fratelli potessero raggiungerci, prendemmo congedo dal Campo profughi e raggiungemmo nostro padre a Genova. A metà ottobre andai a Udine incontro a mamma, Raoul e Irma in arrivo da Fiume per accompagnarli a Genova, dove l’intera famiglia finalmente poté cominciare una nuova vita».
Come fu questa nuova vita?
«Furono anni duri per una famiglia numerosa come la nostra in pieno periodo postbellico, poiché lavorava solo papà. Nel 1950 mi iscrissi alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Genova e, per procurarmi una certa indipendenza economica, accettai l’incarico offertomi dal Provveditorato agli Studi di Genova come insegnante di educazione fisica presso un Istituto superiore della città. Conseguita la laurea nel 1956, dopo un breve periodo da assistente medico ospedaliero, venni chiamato a prestare servizio di leva nella Marina Militare presso l’Accademia Navale di Livorno, dalla quale fui congedato nel giugno del 1959 col grado di Sottotenente medico».
Nel frattempo si era anche sposato.
«A un anno dalle nozze nacque mio figlio Marco e, sette anni dopo, arrivò Sara. Seguì la mia prima esperienza professionale quale Assistente Chirurgo in Svizzera, presso l’ospedale di Locarno e, poi, come aiuto chirurgo presso l’ospedale di Bellinzona. Raggiunto un buon grado di formazione venni invitato da un amico e collega triestino a continuare il mio percorso negli ospedali italiani e così fu. Finalmente nel 1974, dopo anni di lavoro e di studio, mi fu assegnato il mio primo incarico di primario chirurgo a Monfalcone e la mia posizione venne confermata dopo che ebbi sostenuto e vinto il concorso nazionale nel 1977. Dall’inizio del 1999 fino alla fine del 1995 ressi come Primario la Divisione Chirurgica dell’ospedale di Gorizia. Rientrato a Monfalcone, andai in quiescenza alla fine del 1999. Durante gli ultimi 13-14 anni della mia professione ospedaliera, fui cooptato dal Direttore dell’Istituto di Patologia Chirurgica – il Prof. Nemeth – come professore a contratto e poi come professore associato presso la Scuola di Specializzazione in Chirurgia Vascolare dell’Università di Trieste. In seguito, per altri 11 anni, ho cercato “… uno spazio di rigore e di libertà …”, come scriveva Victor Hugo: lo trovai nel mare, con la sua vastità e il suo fascino, ragione per cui mi sono imbarcato sulle grandi navi bianche in qualità di Direttore Sanitario».
Suo fratello Abdon divenne invece un fenomeno sportivo. È vero che fu lei a indirizzarlo alla marcia?
«Quando iniziai gli studi universitari, per seguire il consiglio degli antichi “mens sana in corpore sano” mi iscrissi all’Associazione Amatori Atletica di Genova (AAA), dove venni avviato, per la mia conformazione fisica, a scegliere la ‘marcia’ fra le varie specialità dell’atletica leggera. Raggiunsi subito buoni risultati, vincendo il premio ‘Pavesi’, una gara nazionale per esordienti. A quella vittoria ne seguirono altre in campo regionale e buoni piazzamenti in quello nazionale. I miei successi stimolarono Abdon, che intraprese la stessa disciplina con i risultati prestigiosi che ben conosciamo, mentre i miei traguardi sportivi ebbero fine per l’impegno di completare gli studi nel tempo previsto».
Torniamo da dove siamo partiti: cosa rappresenta per lei la città di Fiume?
«Più che la mia culla, Fiume equivale al grembo materno: là trascorsi gli anni felici della prima e della seconda infanzia, interrotti da una guerra cruenta e crudele di cui vidi gli effetti devastanti con occhi ancora troppo acerbi; effetti che hanno lasciato segni indelebili nella mia mente. In quel contesto nacquero le prime amicizie con ragazzi dalle più varie origini – amicizie tuttora vive nei miei ricordi – e mi è rimasta nel cuore la memoria di una città che era un microcosmo in cui convivevano numerose lingue, culture e religioni in completa sintonia. Tutti si sentivano cittadini alla
pari, ognuno primus inter pares».
Quale consiglio darebbe ai giovani?
«Consiglierei loro di studiare per avere un certo grado di cultura che li aiuti a discernere la verità dalle menzogne per non farsi irretire da falsi profeti, da ambiziosi sfrenati, da gente avida di potere o di denaro, mascherata da salvatori dell’umanità; di aprire la propria mente senza farsi condizionare, dando retta al proprio sentire e cercare di raggiungere libertà di pensiero, scevro da inquinamenti nazionalistici, rispettoso di culture, religioni e lingue altrui. Ricordando sempre l’insegnamento di un grande pensatore quale Immanuel Kant: “La mia libertà finisce dove comincia quella degli altri”».