Anche in Friuli Venezia Giulia crescono i casi di decadimento cognitivo e patologie correlate conseguenti all’allungamento della vita, favorito da condizioni di benessere e progressi medici un tempo inimmaginabili.
Ne parliamo con il dottor Claudio Albiero, specialista in geriatria e gerontologia.
Dottor Albiero, come cambiano le funzioni cognitive con l’avanzare degli anni?
«Ognuno invecchia in modo diverso e perciò l’effetto dell’età sulle funzioni cognitive è del tutto individuale. Le capacità intellettive raggiungono il massimo livello a 30 anni, restando sufficientemente stabili per poi modificarsi in modo variabile dopo i 60-70 anni, quando la velocità di elaborazione delle informazioni diminuisce, rallentando le reazioni e l’esecuzione dei compiti».
Come si modifica la memoria con l’età?
«La capacità di richiamare nozioni immagazzinate rimane invariata, al più rallenta, ma la perdita di memoria è il disturbo neuropsicologico più frequente negli anziani. Viene però mantenuta l’abilità a imparare cose nuove, magari in più tempo e con maggiore concentrazione».
Se si perdono le connessioni neurologiche ne nascono di nuove?
«Anche in tarda età il cervello mantiene la plasticità, cioè la capacità di creare nuove connessioni tra le cellule rimanenti per sopperire alla loro diminuzione. Nel 2019 un team di ricercatori spagnoli, contraddicendo ricerche precedenti, ha trovato prove di neurogenesi, cioè nuovi neuroni generati nell’area ippocampale cerebrale, quella più importante per la memorizzazione, in soggetti anziani deceduti da poco tempo, cosa non rilevata in individui affetti da Alzheimer».
Come si manifestano i primi segnali di decadimento cognitivo?
«I primi segnali sono di varia natura per cui è comunque importante prestare attenzione anche a uno solo dei sintomi iniziali se persistente e progressivo. Si va dalla perdita di memoria di eventi e informazioni recenti al frequente smarrimento di oggetti di uso quotidiano, con disorientamento nel tempo e nello spazio (non orientarsi in un luogo conosciuto, perdere la strada di casa). Ma possono essere anche problemi di linguaggio come perdere il “filo del discorso”, non ricordare nomi, diminuzione della capacità di giudizio, di risolvere problemi semplici, oppure comportarsi in modo non appropriato o ancora difficoltà nel pensiero astratto, nel fare calcoli o esprimere un ragionamento complesso».
Una difficoltà nei compiti abitudinali può essere un segnale?
«Campanello di allarme può essere la difficoltà nelle attività quotidiane (utilizzo di elettrodomestici, guida dell’auto, assunzione della terapia). Così come la riduzione di interesse per le abituali occupazioni, trascuratezza per la cura della casa e di sé, poca voglia di frequentare gli amici. Ma anche rapide variazioni di umore, del carattere e del comportamento senza motivate ragioni. Tali modificazioni possono comprendere allucinazioni, visive e/o uditive, deliri, frequente quello di ladrocinio, irritabilità e aggressività verbale, difficoltà a riconoscere luoghi e persone, insonnia e cambiamenti delle abitudini alimentari».
Perché si manifesta l’Alzheimer?
«L’accumulo a livello cerebrale di frammenti di una proteina chiamata beta-amiloide è una delle cause della malattia che inizia qualche decennio prima della comparsa dei sintomi iniziali».
Come si colloca una persona smemorata fra normalità e malattia?
«L’Alzheimer’s Association Australia ha pubblicato un quadro sinottico per capire se le modificazioni della memoria sono un normale processo di invecchiamento o una forma di demenza. I cambiamenti dovuti all’età prevedono occasionalità nelle dimenticanze di eventi e nozioni recenti. Per contro le abilità funzionali esaminate prevedono nelle demenze una difficoltà progressiva con incapacità graduale. Se il deficit di memoria è sporadico, non associato ad altri sintomi cognitivi e non è progressivo, viene considerato normale invecchiamento cerebrale».
Quali fattori, genetici e ambientali, influenzano i processi di decadimento mentale?
«Oltre all’età avanzata e alla predisposizione genetica sono vari e diversi fra questi l’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia, le cardiopatie. il diabete mellito e l’obesità, i traumi cranici, il fumo e l’alcol ma anche una vita sedentaria».
Ci possono essere familiarità genetiche per queste malattie?
«I fattori genetici intervengono solo per il 25-30% nello sviluppo della malattia, pesano di più gli stili di vita e i fattori ambientali. L’età rappresenta il maggiore fattore di rischio non modificabile. Dopo i 65 anni l’incidenza della malattia di Alzheimer aumenta in modo esponenziale. Fondamentale però è rimarcare che la demenza non è una conseguenza dell’invecchiamento ma è l’espressione di una malattia».
È una malattia che si eredita?
«In un ridottissimo numero di casi, non superiore al 5% e in più persone della stessa famiglia, di solito prima dei 60 anni, con la probabilità del 50% di trasmettere la mutazione a ognuno dei figli. Un test genetico dimostra l’origine della malattia. Nel restante 95%, nelle più frequenti forme dette sporadiche o tardive, per i familiari vi è una generica predisposizione, di poco superiore a quella di persone che non hanno un parente affetto da demenza. Questo serve ad allontanare la preoccupazione più diffusa dei familiari».
La vecchiaia non è dunque la causa dell’Alzheimer.
«Nel 2019 sono stati pubblicati alcuni sondaggi: 2 persone su 3 pensano che la malattia sia causata dall’invecchiamento e, cosa veramente sorprendente, lo pensa anche il 62% del personale sanitario intervistato. Questa errata convinzione è facilitata dal frequente e improprio uso del termine “demenza senile” che in realtà non indica una forma specifica di malattia e induce a pensare che l’anziano, in quanto tale, possa diventare demente».
Quali sono i comportamenti corretti verso il malato?
«È importane che il familiare caregiver conosca le problematiche della malattia e come approcciarsi ai nuovi bisogni. Utile a questo scopo l’edizione italiana di A. D. – Help for Caregivers. In un ideale protocollo è importante stabilire una routine quotidiana e mantenere le stesse attività alla stessa ora in base agli interessi precedenti e alle abilità residue. Sostenere l’autonomia della persona ammalata, non sostituirsi precocemente, rispettando in ogni fase di malattia la dignità del malato. Evitare scontri, commenti negativi cause di stress inutili sia al malato sia al caregiver, tenere conto che il malato potrebbe non essere in grado di comprendere le spiegazioni e le istruzioni e, quindi, passibile di ripetere gli stessi errori. È importante entrare nel suo mondo, cercando di comprendere meglio i nuovi bisogni, evitando di rimarcare gli insuccessi».
Quali sono le necessità per una persona disorientata e confusa?
«Essere rassicurata, poter mantenere il senso dell’umorismo, sentirsi al sicuro, sempre in grado di comunicare. Ma anche essere incoraggiata nel mantenimento di una buona forma fisica e gestire al meglio eventuali comorbilità».
Cosa fare alla comparsa dei primi sintomi comportamentali?
«Domandarsi dove, quando, come e con chi. Ricordiamoci che il malato diventa prigioniero di una realtà unica, del tutto personale e non più condivisibile. Le demenze per le dimensioni epidemiologiche, per la sofferenza dei malati, per il carico angosciante di travaglio psicologico, professionale, familiare ed economico dei caregivers, sono uno dei principali problemi socio-sanitari che però sembra continuare a rimanere non ben visibile al sistema, quasi in una forma ulteriore di ageismo, stante la carenza di servizi e strutture specifiche, dedicate e collegate in rete».
Le deprivazioni sensoriali come sordità e ipovisione incidono?
«Da una serie di studi effettuati negli Stati Uniti, e pubblicati su Jama Neurology, si è evidenziato che il deficit visivo potrebbe determinare circa il 2% di casi di demenza. Anche la perdita dell’udito rappresenta un fattore di rischio che aumenta a seconda del grado di sordità. Entrambi portano all’isolamento sociale favorendo la depressione e la possibilità di demenza, in una sommazione di disabilità».
Quali esami possono rivelare propensione o presenza di problematiche di decadimento cognitivo, demenza o patologie correlate?
«Si inizia dall’anamnesi, dalla raccolta dei dati della storia passata e recente del malato, sentendo anche i familiari. Quindi si procede all’esame fisico generale e neurologico, si richiedono le analisi del sangue e dell’urina, e un esame di neuroimaging cerebrale. Indispensabile per orientare la diagnosi è la valutazione neuropsicologica con la somministrazione dei relativi test».
Quali sono le raccomandazioni, per prevenire o rallentare il cammino degenerativo?
«Dieta mediterranea e attività fisica riducono i rischi per cui è importante un elevato consumo di frutta e vegetali, legumi, cereali, noci, olio di oliva, pesce, pomodori e formaggi freschi. Per quanto riguarda l’esercizio fisico il consiglio è camminare almeno 30 minuti al giorno, a passo sostenuto, per stimolare anche la produzione di nuovi neuroni e sinapsi. Importante è mantenere relazioni sociali ed essere intellettualmente attivi».
A chi rivolgersi
Gli specialisti di riferimento per patologie di decadimento cognitivo sono il neurologo, il geriatra, lo psichiatra, il neuropsicologo e il radiologo. Alcuni riferimenti utili in regione sono i Centri Disturbi Cognitivi e Demenze delle Aziende Sanitarie, a Gorizia il Centro Alzheimer Mitteleuropeo (cell. 335 5307753) e S.O.F.I.A. (Sostenere Ogni Famiglia In Autonomia) (Numero verde 800 301171). A Monfalcone è presente l’Associazione Alzheimer Isontino (390 9011893), a Udine Associazione Alzheimer Udine (0432 25555) a Latisana l’Associazione Alzheimer (0431 520496). Possibili riferimenti sono anche la Residenza protetta e Centro diurno Argo Alzheimer a San Canzian d’Isonzo (0481 76409), l’Associazione De Banfield a Trieste (040 362766) e l’Ambito dei Servizi Sociali Sanvitese (0434842911) che gestisce vari Centri diurni.