Le notizie sullo stato dell’economia dell’Eurozona continuano ad assomigliare a bollettini di guerra o, se preferite, ai bollettini meteorologici della recente primavera mancata. L’estate, anche se in ritardo, arriverà comunque, mentre per l’agognata ripresa bisognerà attendere.
Quanto? Nel mese di aprile la depressione economica che attanaglia la maggior parte d’Europa ha fatto registrare un tasso di disoccupazione salito al 12,2%, il livello più alto mai riscontrato. Un anno fa, il tasso di disoccupazione era già un disastroso 11,2% e il fatto che sia salito da allora mostra come le cose stiano andando di male in peggio. Un punto percentuale di aumento del tasso di disoccupazione della Zona Euro nel corso dell’ultimo anno è un ulteriore segno che la sua economia non mostra segni di stabilizzazione, per non parlare di svolta verso la ripresa.
Questa è la prova, se mai ce ne fosse bisogno, del fallimento delle politiche economiche e della Banca Centrale Europea. In Italia nel primo trimestre del 2013 il tasso di disoccupazione è balzato al 12,8%. Considerando i confronti tendenziali, è il livello più alto dal primo trimestre del 1977. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è salito al dato record del 41,9%.
Si deve notare che il “freno a mano tirato” della politica monetaria della BCE è solo una parte del problema. Forse ancora più significativa è l’impostazione delle politiche fi scali, che hanno visto tagli orizzontali alla spesa pubblica e aumenti della pressione fi scale in una situazione di recessione generalizzata. È assurdo vedere il settore pubblico (che nella maggior parte dei Paesi della Zona Euro rappresenta tra un quarto e un terzo del PIL mentre in Italia ne rappresenta oltre il 50%) mettere la retromarcia nel senso unico dell’austerità fi scale in un momento in cui la residua vitalità del settore privato viene frustrata dalla stretta bancaria e dalla flessione del mercato immobiliare.
Il ballo sul Titanic
Se l’economia reale soffre come non mai, le Borse festeggiano brindando alla festa della liquidità. Si balla sul Titanic.
Può sembrare difficile da credere, data la situazione economica complessiva, ma il mercato rialzista degli ultimi mesi è storicamente uno dei maggiori mai realizzati. Da marzo 2009 a oggi l’indice S&P500 delle azioni americane è aumentato di oltre il 130%. Persino l’indice MSCI Euro, per quanto più contenuto a causa dei problemi specifici del Vecchio Continente, è risalito nello stesso periodo del 60%. E record storico è anche per il Dax di Francoforte, mentre il Nikkei giapponese è ai massimi degli ultimi anni. Anche il FTSE MIB di Milano è cresciuto, recuperando le perdite di inizio anno.
E i mercati hanno premiato pure le obbligazioni. Sono cresciuti i prezzi dei titoli di Stato, sia di quelli considerati più sicuri (Treasury americani e Bund tedeschi) sia di quelli a rischio fi no a un anno fa (tutti quelli dei Paesi PIIGS – Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). Anche i conti di deposito, sempre più lenti ad adeguarsi al trend del mercato, hanno visto diversi tagli nei tassi di interesse.
È importante capire le motivazioni di questa euforia. Perché in una situazione di crisi, i mercati finanziari crescono? La ragione principale è la liquidità immessa sui mercati dalle banche centrali “occidentali”. Le autorità dei Paesi sviluppati (Usa, Gran Bretagna, Ue e Giappone) stanno infatti, chi più chi meno, cercando di fronteggiare la crisi economica stampando soldi, e sperando che questi attivino un circolo virtuoso. Ma queste politiche non possono durare se non sono sostenute dalla crescita reale.
I prezzi degli asset (attività) finanziari sono infatti “drogati” dagli interventi monetari e non rappresentano i fondamentali reali, mentre la loro volatilità è tornata ai livelli del 2006-2007. Dopo anni in cui il mantra era porre attenzione sulla gestione del rischio e sulla sicurezza, adesso sembra essere sulla ricerca di maggiori rendimenti. In aggiunta, oltre alla crescente divaricazione tra economia reale debole e quotazioni azionarie esuberanti, sui mercati pende la possibilità che la banche centrali procedano gradualmente a rimuovere l’eccezionale stimolo monetario sin qui praticato.
Dobbiamo abituarci a convivere con queste dinamiche? Enormi impulsi di liquidità, iniettati nel sistema finanziario per contrastare il rischio di collasso, alimentano nuove forme di “esuberanza” più o meno razionale delle quotazioni, sino al momento in cui accade un evento che fa scoppiare la bolla. A seconda dell’entità del crollo, le banche centrali accorrono in soccorso dei mercati, rimangiandosi l’ipotesi di rimuovere gli stimoli monetari o fornendone di nuovi, e il ciclo ricomincia.
Per rispondere alla domanda vorrei utilizzare un aneddoto.
Tra l’inflazione dei mercati finanziari e la deflazione di quelli reali: una via pericolosa
Immaginiamo che Piero, vista la riduzione dei tassi di policy (il tasso della BCE) e il parallelo aumento dei corsi dei mercati azionari e obbligazionari, decida di investire una parte dei soldi che teneva in un conto corrente (remunerato sempre meno per le stesse cause) in azioni e titoli di Stato. Il suo obiettivo è di trovare dei rendimenti che integrino parzialmente il suo reddito, ormai fermo da qualche anno. Diciamo che investa 1.000 euro in azioni e 4.000 euro in obbligazioni.
La settimana seguente il valore dei titoli acquistati rimane pressoché invariato, ma nel frattempo è cambiato qualcosa. Il suo amico John, che aveva fatto lo stesso investimento consigliandolo anche a Piero, ha conosciuto un bravissimo falsario e ora può destinare all’acquisto di titoli altri 5.000 euro falsi.
E così all’apertura del mercato John acquista subito 5.000 euro di titoli. Quando il giorno dopo Piero vorrebbe investire gli altri 5.000 euro che teneva sul conto corrente, i prezzi sono aumentati rispettivamente del 3% per le azioni e dell’1% per le obbligazioni. Piero decide così di temporeggiare, aspettando una flessione dei prezzi. Nei giorni seguenti John ragiona tra sé e sé: “Poiché non ho altri risparmi da investire posso provare a realizzare il 50% dei titoli acquistati a un prezzo del 4% superiore”.
Trova subito un compratore, Mario, che investe 5.200 euro per la stessa quantità di titoli. Anche Piero lo segue, vendendo il 50% di quanto inizialmente investito a Josè per 2.600 euro. Essendo titoli ad alto rendimento e quindi merce tendenzialmente scarsa, nel mercato inizia una fase di rialzi che contagia altri titoli simili, ingenerando ulteriori aspettative di crescita.
Che cosa ci insegna questo breve aneddoto esemplificativo?
– I primi a ricevere la moneta nuova incrementano il loro reddito a spese di chi la moneta non la riceve: John riesce in un primo tempo ad acquistare i prodotti al “prezzo vecchio”, Piero dopo l’adeguamento dei prezzi può vendere e ricomprare più titoli di quanto riuscisse a fare in partenza, il tutto a spese Mario e Josè, che comunque hanno aspettative future positive.
– Il prezzo aumenta in seguito a un incremento della domanda. Il mercato non è un operatore cattivo e speculatore ma lo diventa in seguito a un aumento della domanda innescata dai 5.000 euro falsi di John.
– I prezzi vengono adeguati in modo istantaneo e pervasivo. Quando tutti cominciano a essere ottimisti, di solito vuol dire che si crede in migliori opportunità future: l’euforia può durare per mesi e combattere contro di essa è un processo molto difficile.
Nei mercati dell’economia reale invece trascorre del tempo tra l’introduzione della moneta nuova e l’impatto sui prezzi, i quali però in un contesto di recessione e di eccesso di offerta si muovono in modo lento ma inesorabile verso il basso.
Vediamo perché.
Siamo sempre al “mercato”, ma stavolta ci occupiamo di Laura, proprietaria di un negozio di elettrodomestici. I prezzi di questi beni negli ultimi anni non sono aumentati e spesso sono diminuiti per effetto di una domanda che langue, di una domanda di sola sostituzione e di un’offerta concorrenziale da parte di catene distributive aggressive e di prodotti provenienti dal Far East. Laura in questi anni si è dovuta indebitare per mantenere le scorte di elettrodomestici invenduti in magazzino e per acquistarne di nuovi per aggiornare la gamma. Aveva già acceso un mutuo per ammodernare la zona del negozio dedicata all’informatica.
John destina il suo guadagno all’acquisto di un nuovo forno a microonde, ma gli altri tre investitori ritengono di rinviare la spesa per approfittare del mercato toro (termine che indica un periodo di rialzo dei mercati) in borsa e della tendenza al ribasso dei prezzi di beni semi durevoli come gli elettrodomestici. Pensano eventualmente di uscire dal mercato azionario al momento giusto per tesaurizzare i guadagni a scopo precauzionale, perché il futuro dell’economia reale non è roseo…
Le entrate di Laura si riducono significativamente, mentre il peso dei debiti aumenta: ha preso a prestito 10.000 euro e, anche se gli interessi non aumentano, deve restituirli con un reddito ridotto del 40%.
Col passare del tempo, man mano che la nuova moneta “non circola” nell’economia reale rimanendo “intrappolata” nell’economia finanziaria, vi è la tendenza ad adeguamenti al ribasso nei prezzi di tutti i beni (ed eventualmente anche nei salari). L’effetto globale è proprio quello di una riduzione continua e generalizzata dei prezzi e dei salari accompagnato da un trasferimento di ricchezza reale dagli ultimi a “ricevere la moneta nuova” (i salariati, le imprese) ai primi a utilizzarla.
Dobbiamo abituarci a convivere con queste dinamiche?
Credo proprio di no, se non vogliamo peggiorare ulteriormente le prospettive delle nuove generazioni, minando alla base perfino le fondamenta dei valori su cui si fondano le democrazie.
La via di mezzo
Che cosa pensano i nostri governanti quando vedono il tasso di disoccupazione in Grecia al 27% e al 26,8% in Spagna? O quando altri 12 Paesi su 27 dell’Unione europea hanno un tasso di disoccupazione superiore al 10%? Altri tagli alla spesa? Aumenti delle tasse? Tagli ai salari, ai servizi, al lavoro come politiche per rimediare ai mali economici dell’Europa?
Nonostante in questi ultimi mesi ci sia stata qualche piccola tregua nel fervore con cui tagli di bilancio e aumenti delle tasse sono stati realizzati, il settore pubblico continuerà a deprime la crescita del PIL in Europa almeno fi no al 2015. Ciò potrebbe portare il tasso di disoccupazione sopra 12,5% se il settore privato non si riprende.
Parte di questo accanimento terapeutico è legato al timore di una ripresa del fenomeno inflazionistico. Ma come ho cercato di illustrare nell’aneddoto, tale timore sembra essere una fobia assurda date le condizioni economiche depresse e la disinflazione che si presenta con sempre maggiore regolarità.
Oltre ai dati sulla disoccupazione, l’Eurostat ha pubblicato i dati sull’inflazione di aprile che hanno confermato un’inflazione annuale all’1,4% nella Zona Euro nel suo complesso e all’1,2% per l’Italia (a marzo era dell’1,6%). Questo basso tasso di inflazione non dovrebbe essere una sorpresa dato che l’Europa ha registrato sei trimestri di fi la di crescita negativa del PIL, con condizioni di recessione e deflazione in molti Paesi. Anche quando la zona euro stava registrando una crescita decente prima della crisi, l’inflazione è sempre stata contenuta intorno al 2%.
Va bene restare vigili contro l’inflazione, come tutti i buoni banchieri centrali devono essere, ma sembra di difficile comprensione una così distorta lettura dei rischi di inflazione quando l’economia sta affondando nelle sabbie mobili.
C’è una convinzione difficile da scardinare nelle elaborazioni e nelle prassi dell’ortodossia economica. Si dice che l’inflazione cronica somiglia al fumo: una volta che si supera una soglia minima, è molto difficile sfuggire a una dipendenza che tende ad aumentare progressivamente.
Oggi però l’economia è drogata da altre politiche “stupefacenti”. Serve una manovra coerente e integrata sia di stimoli “keynesiani” alla domanda che di riforme dal lato dell’offerta (mercati del lavoro, politiche della concorrenza), superando le dispute ideologiche e autoreferenziali tra keynesiani e “offertisti”. Ciò che si richiede a una governance politica italiana ed europea responsabile è di intraprendere la strada delle nuove possibilità, una via di mezzo tra deflazione e inflazione. Una moderata infl azione al 4% può ridare fiato e fiducia all’economia, superando il tabù del 2% come obiettivo. Forse passare da 2 a 4 bicchieri di vino alla settimana ci farebbe diventare tutti alcolisti?