Artista della vita

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redazione

12 Luglio 2019
Reading Time: 8 minutes

Valentina Bressan

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Quando all’età di 4 anni Valentina Bressan rimase a bocca aperta all’interno del teatro della sua Gradisca d’Isonzo

aveva probabilmente già intuito che quel mondo sarebbe stato parte integrante della propria vita. Tanto che oggi, a 45 anni, se le si chiede come potremmo definirla, parafrasando un politico francese risponde senza esitazioni: «Siamo tutti artisti della nostra vita, perché l’arte non appartiene a canoni prestabiliti». Al telefono la sua voce trasmette passione e determinazione.

Sentimenti ed emozioni che l’hanno sempre accompagnata, come ci spiega in questa intervista.

Valentina, torniamo indietro nel tempo: nel 1996, grazie al Progetto Leonardo della Comunità europea, lei sbarca in Francia. Un Paese già nel suo destino…

«Ho sempre avuto la erre moscia e da piccola molti bambini mi prendevano in giro, facendomi soffrire. Così mi dicevo: se vado dove si parla francese mi lasceranno in pace. Per imparare la lingua e scoprire nuove culture avevo anche fatto domanda di ammissione al Collegio del Mondo Unito. Quando seppi di non essere stata accettata fu per me una grande delusione. Da piccola inoltre praticavo la danza e la lingua ufficiale di questa disciplina è proprio il francese. Così quando si profilò l’opportunità di poter andare in Francia, supportata dalla Comunità europea, non ci pensai due volte. Anche perché i miei genitori non avrebbero mai potuto permettersi di pagarmi un viaggio all’estero di quel tipo».

A 22 anni il primo impatto con la Francia come fu?

«Arrivare in Francia all’inizio è complicato perché la cultura è radicalmente diversa. A partire da un aspetto a cui non si dà il giusto peso: l’humor. Il modo in cui italiani e francesi ridono è diametralmente opposto. L’italiano quando ride esagera le cose, il francese quando vuole ridere usa il secondo grado, cioè dice l’opposto di quello che pensa. Se tu non conosci il codice resti basito, perché ti sembrano cinici. E questo, per chi non comprende, crea un sacco di conflitti. Imparare l’umorismo di un Paese straniero è una delle condizione essenziali per viverci. E non è una cosa semplice».

Anche per questo si è dedicata fin da subito a imparare al meglio la lingua…

«In Francia ho cercato di non incontrare italiani, ma di perfezionare la lingua per me stessa. Quando frequentavo l’università a Trieste conoscevo uno studente libanese che parlava un italiano poco fluido, e tutti facevano fatica a capirlo e parlavano con lui mal volentieri. Io non volevo che i francesi provassero le stesse cose parlando con me, per cui mi impegnai per imparare al meglio la lingua nel minimo dettaglio. Solo comprendendo tutte le sottigliezze di una lingua è possibile integrarsi con facilità».

E l’integrazione come fu?

«Quando sono arrivata, oltre a una cultura ho scoperto anche il mondo del lavoro e una mia indipendenza: avevo una borsa di studio ogni mese che mi consentiva di essere autonoma. Ci sono stati dei momenti in cui ho sofferto molto, come quando, terminata l’esperienza di studio, mentre cercavo lavoro mi dicevano “puoi sempre tornartene a casa tua”. Ma dopo tanto tempo casa mia dov’era? La casa è dove c’è il tuo cuore e ci sono le tue amicizie».

 

A proposito di lavoro, quali sono state le prime esperienze professionali?

«Ho iniziato a lavorare grazie a uno stage da un geometra. Ricordo che l’ultimo lavoro che feci fu il rilievo topografico di un cimitero e lì mi sono detta: non è questo che voglio fare. All’epoca cercavo ancora un lavoro che fosse negli schemi, a cui poter dare un nome preciso, che fosse rassicurante… All’università avrei voluto fare architettura, che però c’era solo a Venezia, così ho fatto dei compromessi scegliendo prima fisica e poi geologia. Arrivata in Francia decisi di mettere in pratica quello che già facevo negli studi, ma poi mi sono resa conto che non faceva per me».

Finché un giorno a Montpellier…

«Mi ritrovai a fare visita al Teatro dell’Opéra National de Montpellier. Mi capitò di entrare nell’ufficio del direttore tecnico e lì vidi i disegni degli allestimenti degli spettacoli. Fu una folgorazione. Mi dissi: questo è quello che so fare, voglio fare il geometra a teatro. Feci uno stage di sei mesi e da lì iniziò il mio nuovo percorso».

Un percorso entusiasmante che l’ha portata a divenire direttore tecnico dell’Opéra Bastille di Parigi. Cosa significa concretamente?

«Qua ci sono una ventina di produzioni e 300 rappresentazioni in un anno, di cui sempre tre in contemporanea. Il palcoscenico è uno dei più grandi del mondo. Ogni produzione rappresenta un volume di 12-15 tir, ma possono arrivare fino a 22. Gestisco una squadra di 250 persone tra macchinisti, tecnici, addetti a luci, suono, audio e attrezzeria. Oltre al coordinamento generale di tutti gli spettacoli che si terranno al Bastille. Assieme alla mia squadra lavoro con grande anticipo: in questo momento siamo operativi sugli spettacoli del 2020 e iniziamo a fare quelli del 2021».

Come si svolge una sua giornata tipo?

«Passo molto tempo a redigere dei documenti nei quali spiego, sintetizzo e comunico i diversi dettagli degli spettacoli a venire. É molto importante che ogni servizio sia perfettamente al corrente di ciò che stiamo preparando e di ciò che il regista e scenografo desiderano. Partecipo dunque a moltissime riunioni di coordinazione. Nella mia vita professionale mi sono occupata di sicurezza antincendio, regia di scena, creazione di scenografie, gestione del planning e ognuna di queste competenze sono oggi essenziali in tutti questi incontri. In una struttura di circa 1.500 persone la comunicazione è un fattore essenziale di successo. L’edificio è immenso, basti pensare che ci sono circa 33 chilometri di corridoi, per questo preparare ogni mezzo di comunicazione e sintesi è essenziale. L’Opéra Bastille è come un enorme nave e ogni cambiamento o leggera modificazione di rotta deve essere perfettamente organizzato».

Riesce a ritagliarsi del tempo libero?

«Non ho un cartellino da timbrare, anzi credo che nessuno dovrebbe averlo perché le persone responsabilizzate lavorano molto meglio di quelle controllate. Cerco di gestire il mio tempo per essere efficace. Ci sono stati dei momenti della mia carriera in cui mi sono trovata a gestire così tante cose che mi sembrava di esplodere. A Lione ho scoperto il Metodo Eisenhower su come gestire tante emergenze, distinguendo sempre tra incombenze urgenti o importanti. È essenziale poter preservare le proprie passioni, perché altrimenti diventi matto e se diventi matto poi diventi sgradevole, e se diventi sgradevole poi diventi insopportabile nel contesto lavorativo… Proseguo con la danza a cui dedico un’ora il sabato mattina. Il resto del tempo lo trascorro con le mie due bambine di 5 e 7 anni».

In ambito professionale, invece, non solo direzione tecnica; ha infatti collaborato alla creazione di scene e costumi del Mosè d’Egitto: che esperienza è stata?

«Per me è stato favoloso poter lavorare con José Yaque, artista cubano di livello assoluto. La creazione è alla portata di tutti: per questo non mi do etichette e non mi sento autorizzata a darle agli altri».

Dalla produzione delle opere teatrali alla fruizione da parte del pubblico: quali sono le principali differenze tra Francia e Italia?

«In Italia l’opera è frequentata da un pubblico d’élite, in Francia viene invece svolto un lavoro enorme di apertura della cultura al grande pubblico. Questo perché la cultura crea ricchezza: secondo uno studio dell’Opéra di Lione, l’indotto economico vale sette volte rispetto all’investimento iniziale. Basti pensare a quanta gente lavora nell’Opera: ingegneri, costumisti, falegnami, fabbri, ballerini, cantanti… Ci sono tutti i mestieri. Inoltre investire nella cultura significa investire su opere che susciteranno emozioni nelle persone, ampliando i loro orizzonti. Quello che invece succede in Italia con la soppressione di enti lirici non è solo drammatico e scandaloso, ma completamente illogico. In Italia c’è un potenziale di gioia e creatività enorme».

Se fosse rimasta in Italia avrebbe avuto le stesse opportunità?

«Sono convinta di no. In Italia, lavorare in un teatro senza avere una laurea o senza aver fatto gli studi di scenografia sarebbe stato impossibile. Basti pensare che quando sono rientrata dalla Francia per un breve periodo, ho partecipato a un concorso della Comunità europea a Palermo per potermi iscrivere a un corso di scenografia a cui si poteva accedere solo avendo avuto esperienze pregresse: quando sono arrivata e ho presentato tutti i documenti con le mie esperienze svolte in Francia, non mi hanno accettata dicendo che era impossibile che io avessi realmente fatto quanto riportato nella mia documentazione perché non avevo i titoli. Inoltre, in Italia in tanti anni non mi hanno mai nemmeno risposto alle lettere di candidatura».

Ormai vive in Francia da vent’anni: si sente più francese o italiana?

«Pur non avendone bisogno, ho preso anche la nazionalità francese quando ci sono stati gli attentati terroristici: le mie bambine sono francesi e visto che la Francia era sotto attacco ho deciso di essere in pericolo esattamente come loro. Ma in realtà non sono né italiana né francese. Non sono italiana perché non so più come si vive in Italia. Ma non sono nemmeno francese, perché mi mancano 20 anni di vita: non avrò mai tutte le esperienze culturali, sociali, politiche, musicali… Per cui sono una e l’altra, ma non sono né l’una né l’altra».

Torna spesso nella sua terra d’origine?

«Adesso è complicato. Quando rientro è come un pellegrinaggio. Non vengo in vacanza, vengo a rivivere il mio passato. Vengo a Gradisca a trovare la mia famiglia e i miei nipoti. Non ho più tanti affetti: tutti gli amici della mia vita di adulta sono in Francia. Adoro però essere a Grado e vedere la montagna».

Cosa le manca dell’Italia che in Francia non c’è?

«L’Italia che ho nel cuore è qualcosa che di fatto non esiste: un mix tra film, cucina, incontri con le persone. L’immagine che ho io dell’Italia è un’immagine collettiva di tutte le esperienze vissute negli anni e in luoghi diversi».

Qual è invece la cosa della Francia a cui non rinuncerebbe più?

«Il senso di nazione. Il senso che lo Stato esiste ovunque. Non c’è un angolo della Francia che non sia Francia. Quando sei in Italia ci sono dei posti in cui ti senti abbandonato. E questa per me è una cosa intollerabile. I servizi pubblici sono uguali, l’accesso alla formazione, alla sanità, alla sicurezza è uguale per tutti i francesi. E il senso di giustizia: la sua efficienza e indipendenza sono la cosa di cui non potrei più fare a meno».

La sua è una storia di sfide, evoluzioni, cambiamenti: quali sono gli obiettivi per il futuro?

«Nel 2021 cambierà la direzione generale dell’Opéra e so benissimo che la direzione tecnica potrebbe essere tra le prime a saltare. Per ora mi vedo qui, ma dopo chissà… Mi piace però pensare di poter percorrere strade finora mai percorse. Mi piace scrivere: magari lo farò per registi teatrali o cinematografici».

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