A muso duro

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Andrea Doncovio

20 Dicembre 2023
Reading Time: 7 minutes

L’amore per la moglie lo ha condotto in Minnesota e all’incontro con la cultura musicale americana. Dopo sei anni è tornato in Friuli: “Vogliamo far crescere qui le nostre figlie”

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Pordenone Minneapolis, andata e ritorno. Una storia intercontinentale dalle numerose tappe. Tutte affascinanti e istruttive. E, soprattutto, una storia ancora da scrivere. Marco Vendrame è un cantante, un chitarrista, un compositore, un insegnante. Ma è soprattutto un amante della musica: per lui non solo un’arte, ma una vera e propria terapia. Come ci spiega in questa intervista.

Marco Vendrame, un friulano a Minneapolis. Che esperienza è stata?

«Noi friulani siamo persone di cuore, generose, pragmatiche e leali. Con queste caratteristiche non penso faccia alcuna differenza dove si vuole vivere, si sarà sempre bene accetti, in particolar modo in un paese come gli Stati Uniti dove la perseveranza e la voglia di fare sono la loro moneta corrente. Detto ciò, mi sono mancate tantissimo le nostre montagne e il nostro stile di vita. Non sono convinto che i friulani si rendano pienamente conto di quale piccolo angolo di paradiso ci sia stato donato».

Quanto tempo hai vissuto negli Stati Uniti?

«Io e la mia famiglia abbiamo vissuto per 6 anni in Minnesota. Mia moglie, originaria di quelle zone, voleva tornare per un periodo a casa per stare vicino alla propria famiglia dopo molti anni in giro per il mondo, lavorando nell’Air Force. In tutto questo io mi sono semplicemente “accodato” con piacere, dato che ho sempre avuto il desiderio di provare a vivere appieno un’altra cultura. Non mi ha mai spaventato uscire dalla mia zona di comfort, anzi, lo ritengo essenziale per la continua crescita personale».

La passione per la musica quando è sbocciata?

«Mio papà ascoltava musicisti come Dire Straits, Eric Clapton, Bob Dylan, James Taylor… per cui sono sempre stato esposto sin da piccolissimo a ottima musica. Appena avuta l’occasione, non ci sono stati dubbi sul prendere la decisione di voler suonare uno strumento. L’opportunità si è presentata con uno dei primi corsi sperimentali di musica presso le scuole medie del mio paese in provincia di Pordenone. Lì ho iniziato a suonare la chitarra, il resto è ancora un libro che sto cercando di scrivere».

Cos’è la musica per Marco Vendrame?

«Sotto un aspetto universale trovo sia il più potente mezzo di comunicazione che esiste per condividere le nostre emozioni. Personalmente invece è una forma di terapia, una continua esplorazione di se stessi attraverso non solo l’atto pratico di suonare uno strumento, ma anche quello emotivo del “sentire” cose che altrimenti sarebbero molto complesse da decifrare semplicemente a parole».

Attraverso la tua musica quali messaggi desideri veicolare?

«Il motore che alimenta il mio istinto artistico si basa nell’ascoltare me stesso. Imparare a conoscermi ogni giorno di più facendo sì che io possa essere migliore di quello precedente come persona ed essere umano. Questo ovviamente implica una profonda e continua autoanalisi. I miei testi, infatti, parlano principalmente di questo. Esperienze di vita, lezioni imparate e desiderio di poterle condividere con qualcuno. Sono convinto del potere dell’autoanalisi perché nessuno nasce cattivo ed egoista, lo diventiamo come conseguenza degli accadimenti della vita che ci portano nelle direzioni più svariate e quindi delle decisioni che prendiamo di conseguenza. Tony Robbins disse: “La vita non accade a te ma per te”. È come reagisci alle cose che fa la differenza. Dico questo perchè spero che ascoltando la mia musica la gente possa connettere non tanto con me, quanto con se stessa. Se la musica può avere anche un minimo ruolo in tutto questo, io sono felice».

Tu hai suonato in Italia, in Europa e negli Stati Uniti: quali le differenze nell’esibirsi in luoghi così diversi?

«Troppe per poterle elencare tutte. Posso dire che l’importanza della musica a livello culturale negli Stati Uniti è in cima alla lista. In Europa varia invece di Paese in Paese e, purtroppo, in Italia siamo fanalino di coda in questo senso. La conseguenza è un mercato della musica molto ridotto qui da noi: inevitabilmente anche il modo di esibirsi rispecchia questa mancanza di opportunità. Negli USA si riceve molto più supporto onesto e generoso. In Italia si fa molta fatica ad assecondare la nostra indole artistica perché siamo obbligati a seguire quelle poche strade che “funzionano”».

Quando hai capito che la musica, oltre a passione, sarebbe diventata anche la tua professione?

«Verso la fine del quarto anno al liceo. Nei piccoli eventi per la scuola io e un paio di altri compagni venivamo chiamati per fare del semplice intrattenimento musicale. Questo significava poter uscire da lezione anche a metà mattinata, mentre il resto della classe continuava con la giornata scolastica. Ero giustificato da preside e professori per andare a suonare la chitarra e saltare le lezioni. Da quel momento non ho più considerato altre opzioni nella mia vita professionale».

Ma vivere di musica in Italia è complicato…

«Decisamente. Ma devo dire però che sono in primis i musicisti a dover alzare il livello generale della qualità. Questo non significa solamente a livello artistico ma anche professionale. Se chi vive nel settore è il primo ad attuare un classico gioco al ribasso per avere un piccolo ritorno nel breve termine, la colpa non è certo del pubblico, che diventa uno specchio del valore di quel prodotto. Basterebbe veramente poco».

Quali sono i musicisti a cui ti ispiri?

«Penso che alla fine tutti i musicisti si ispirano alla musica con la quale sono cresciuti da giovani, perché è quella che ci segna nel più profondo e con la quale connettiamo per il resto della nostra vita. Per me quindi Dire Straits, Mark Knopfler, Eric Clapton, Bob Dylan, Hendrix, di più recenti devo menzionare John Mayer. Molti di loro sono chitarristi ma anche cantautori, quest’ultima caratteristica ho scoperto essere la mia vera vocazione».

Tu hai insegnato musica in numerose scuole: qual è il segreto per trasmettere la passione per questa arte e per valorizzare i talenti dei giovani musicisti?

«In oltre 15 anni di insegnamento, da educatore ho imparato a concentrarmi non solo a far digerire nozioni tecnico-teoriche all’allievo, ma ad alimentare e mantenere vivo quel fuoco che lo ha spinto a voler studiare musica. È inoltre importante assecondare la ricerca della propria voce musicale. Non nasciamo tutti con il desiderio di diventare i nuovi Jimmy Page, c’è anche chi vuole usare lo strumento per poter diventare un qualcosa di diametralmente opposto, come può essere un Jeff Buckley».

A proposito di giovani generazioni: come giudichi il livello dell’attuale panorama musicale?

«A livello globale trovo che siano molto più istruite e performanti delle precedenti, per quel che concerne la preparazione musicale. Questo credo sia normale, considerati i canali di apprendimento a cui oggi possono avere accesso rispetto alle altre generazioni. Detto ciò, sento una carestia di idee. Le idee sono tutto. Stiamo ancora tutti ascoltando Hotel California degli Eagles dopo oltre 40 anni, mentre la musica di oggi dopo pochi mesi viene dimenticata. E non ritengo che questo aspetto sia tutto da imputare al concetto di consumismo musicale».

Lasciando gli Stati Uniti a cosa non avresti voluto rinunciare?

«Gli Stati Uniti sono il Paese delle opportunità, giovane, pieno di fermento che stimola a tirare fuori il meglio di sé. Il Minnesota in particolare è una piccola gemma a livello musicale della quale quasi nessuno parla: musicisti incredibili e persone accoglienti che vedono negli altri delle opportunità piuttosto che una minaccia al loro status. Nota dolente, gli inverni che possono arrivare anche a -30°C. Questo aspetto non mi manca così tanto».

In Minnesota invece cosa ti mancava della tua terra?

«Lo stile di vita più rilassato, ma anche riconoscere, rispettare e ritenere sacri alcuni valori essenziali della vita come possono essere la famiglia, il cibo, la salute. Il Friuli è casa mia, mio papà mi diceva sempre che un albero può espandere i propri rami in molte direzioni ma le radici restano sempre in un unico posto».

A proposito di Friuli Venezia Giulia: quali sono i luoghi della regione a cui sei più legato?

«Pordenone è la città dove sono nato e cresciuto, in questa provincia ho tutti i miei ricordi d’infanzia. E poi le nostre montagne: durante la permanenza in Minnesota che, come tutto il Midwest, è piatto, la loro mancanza è stata una sofferenza».

Il tuo futuro lo vedi più a stelle e strisce o tricolore?

«Nella mia famiglia entrambe e porte rimangono sempre aperte, avendo tutti la doppia cittadinanza. In questo momento siamo in Italia e vorremmo poterci crescere le nostre bambine. In futuro, si vedrà…»

Concludiamo con il presente: a quali progetti musicali stai lavorando?

«Sono in fase di ultimazione del mio prossimo EP, che spero di riuscire a pubblicare per intero all’inizio del 2024 con conseguente serie di concerti. Nei prossimi mesi usciranno dei singoli che si potranno ascoltare in tutte le piattaforme di streaming. Inoltre lavoro spesso nel mondo del Sync Licensing e quindi la composizione di musiche per progetti video come serie tv, pubblicità, cortometraggi, altra passione ereditata dall’adolescenza».

Se dovessi scegliere una canzone che descriva al meglio la tua vita, quale titolo citeresti?

«Scelgo un titolo in italiano. “A muso duro” di Pierangelo Bertoli, perché rispecchia sempre più il modo nel  quale approccio la vita, senza trattenere nulla».

 

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