Alle origini della disparità delle donne

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Anna Limpido

12 Settembre 2022
Reading Time: 5 minutes

Costituzione e diritti

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La Costituzione è senza dubbio il più grande atto democratico italiano del XX secolo.

Scritta con estremo discernimento dopo un ventennio fascista, due guerre mondiali e la scelta post monarchica, è per tutti gli Italiani la Carta dei diritti, la fonte primaria, la base e il perimetro entro cui è nata e cresciuta la Repubblica Italiana.

Leggerla pretende rispetto ma non certo al punto di annichilire quel doveroso interrogarsi sugli strumenti di cui la nostra società dispone per dare risposte a un mondo in continua evoluzione. Guai a congelarne il pensiero critico, l’analisi, la conoscenza.

Fra i tanti problemi sociali che meritano priorità per un’indagine normativa che parta dalle origini e quindi dalla Costituzione, se non altro per anzianità di oltre un settantennio, c’è la discriminazione lavorativa e sociale delle donne.

Di parità già dibattevano le nostre Madri Costituenti: Maria Federici, Angela Gotelli, Tina Merlin, Teresa Noce e Nilde Jotti, cinque in un’Assemblea di settantacinque componenti.

La richiesta di parità nacque proprio dalle donne negli anni del dopoguerra, dopo cioè che si sobbarcarono per anni dei mestieri tradizionalmente compiuti dagli uomini, durante la guerra assenti perché in trincea. Le necessità quotidiane le portarono oltre a quello che tradizionalmente ci si attendeva da loro e fece scoprire, in primis proprio alle donne, che ne erano capaci (sino alla fine del XIX secolo la cultura patriarcale ereditata ancora dall’antica Roma le credeva effettivamente incapaci di sopportare carichi di lavoro pesanti in una società prettamente rurale).

Una presa d’atto a cui non vollero più rinunciare.

D’altronde se è vero che la donna aveva dimostrato di poter essere anche una “lavoratrice” (era tale infatti solo il lavoro fuori casa, non quello domestico) oltre ovviamente a svolgere la propria funzione domestica, non era vero il contrario: l’uomo, nato per “lavorare duro e sostenere la famiglia”, non sapeva e non voleva avere anche una funzione domestica. Una presa di posizione collettivamente pacifica (a tal proposito, solo qualche tempo prima, sull’infedeltà femminile, questa veniva punita più severamente rispetto a quella del marito proprio perché si riteneva che alla donna fosse attribuita, per natura, una funzione “unificatrice del focolare domestico”, funzione assente nell’uomo).

Una società che si muoveva, tra l’altro, sullo sfondo di una pressante cultura cattolica (risale solo al 1984 la riforma del Concordato con cui la religione Cattolica è stata dichiarata non più religione dello Stato).

Con queste chiavi di lettura (privi di giudizio a posteriori della storia), è interessante leggere alcuni passaggi delle conversazioni dei Costituenti che, con lavoro certosino durato mesi, scrissero l’articolo 37 così come oggi lo conosciamo (uno dei pochi articoli ascrivibili alla parità di genere): “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”:

così l’on. Lucifero: “poiché effettivamente la funzione della donna, fin quando esisterà la famiglia, è prevalentemente nell'ambito di questa. Il lavoro e le funzioni che la donna deve esercitare come madre e come sposa prevalgono su quelli che essa può esercitare come lavoratrice. Per questo ritiene che tali funzioni debbano essere sottolineate in questa sede dove si parla della donna lavoratrice”.

L’on. La Pira “fa presente che la vita di una madre di famiglia è interiorizzata nella casa e non può essere espletata dall'uomo. In questo senso si dice che la missione della donna è essenzialmente familiare. La essenzialità dell'uomo nella famiglia ha un altro carattere”.

C’è da chiedersi se il riconoscimento del nuovo status paritario di donna “lavoratrice”, nato proprio con la Costituzione, sia stato legato al requisito di “consentire l’essenziale funzione familiare” come condizione (ti consento di lavorare purché tu garantisca comunque l’assolvimento dei tuoi compiti domestici) o come mera tutela (da lavoratrice ti tutelo quando sarai madre).

I costituzionalisti propendono per questa seconda lettura, gli storici (anche) per la prima: la società cattolica di allora, ben rappresentata anche in Parlamento da una prevalenza di politici della Democrazia Cristiana (seguiti dai Socialisti, anch’essi spesso privatamente cattolici, e Comunisti), non faceva certo segreto che la missione prevalente e speciale della donna fosse fare figli. Un onere biologico e morale, tra l’altro, non privato ma pubblico (così Merlin: “il riconoscimento della funzione sociale della maternità non interessa solo la donna, o l'uomo, o la famiglia; interessa tutta la società”).

La famiglia generativa, dunque, era dichiaratamente un affare nazionale e le donne che si sottraevano a questo erano criticate, considerate incomplete e incompiute.

Di pari interesse, poi, è il primo capoverso dell’articolo 37 dove si precisa che la parità di diritti dev’esserci ma “a parità di lavoro”.

I Costituenti invero ritenevano unanimemente che la parità fosse possibile solo a condizione dell’effettiva uguale “produttività” con il lavoro degli uomini, un cruccio probabilmente ereditato del passato ove, come si è detto, le donne non riuscivano a svolgere gli stessi compiti agricoli per diversa e più fragile costituzione fisica. Una precisazione prudente, volta a non garantirne un vantaggio ingiustificato, una tutela paritaria per i (veri) lavoratori (maschi) non dando mai per scontato tale capacità femminile.

Così l’on. Tupini: “se non c'è uguale rendimento, non si può pretendere uguale salario”.

In contrappasso con tali e tanti contributi tradizionalisti, si è distinta una certa minoritaria ma importante visione, più moderna e progressista, dei Costituenti, una su tutte quella dell’on. Aldo Moro che, tra le altre: “la donna deve appartenere alla vita sociale e politica e deve svolgere un'attività lavorativa specifica” (ma anche ad esempio l’on. Basso “dichiara di non approvare l'aggettivo «essenziale» perché ritiene che la missione dell'uomo nella famiglia sia altrettanto essenziale quanto quella della donna”).

È anche e soprattutto grazie a questa se l’obbligo domestico è stato alleggerito dal termine “missione” a “funzione”, da “prevalente” a “essenziale”. Una visione, seppur quasi integralmente rimasta solo nei lavori preparatori dell’articolo, forte e fiduciosa dello sviluppo della figura della donna.

Pare evidente che l’articolo 37, così come ieri fu scritto e oggi lo conosciamo, di più non è riuscito a spiccare il volo (e già così era da considerarsi tantissimo per l’epoca). Chi si occupa di parità di genere deve riconoscere che nel ’48 (il primo gennaio di quell’anno entrò in vigore la Costituzione Italiana) sono state messe sì le basi per la tutela del lavoro delle donne ma le troppe zavorre culturali e sociali ne hanno effettivamente pregiudicato la reale bontà del messaggio.

 

Anna Limpido è Consigliera di parità della Regione Friuli Venezia Giulia

 

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