Nel nome della cultura

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Vanni Veronesi

12 Febbraio 2020
Reading Time: 6 minutes

Domenico Rossetti de Scander

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Le origini

Il 14 marzo 1774, un giorno dopo lo sbarco di James Cook sull’Isola di Pasqua, nell’asburgica Trieste nasce Domenico Rossetti, rampollo di una delle più ricche famiglie della città. Il padre Antonio, facoltoso commerciante, è in trattativa per ricevere il titolo di conte, che otterrà un anno dopo da Maria Teresa d’Austria. Perché i soldi, che pure sono molti in casa Rossetti, non bastano: occorre un blasone per contare davvero, sicché l’aggiunta dell’attributo de Scander (dall’antica famiglia albanese degli Scanderberg, alla quale Antonio può risalire per via materna) rappresenta il coronamento del tipico sogno borghese di allora.

E se le nuove idee illuministe stanno facendo breccia in America (Guerra d’Indipendenza nel 1775) e in Francia (Rivoluzione nel 1789), nulla sembra invece scalfire Maria Teresa d’Austria, sensibile alle istanze di rinnovamento al punto da giocare d’anticipo: di qui la legge sull’istruzione primaria obbligatoria in tutti i territori asburgici e, per Trieste, la conferma e l’ampliamento dei privilegi di porto franco. Il giovane Domenico cresce quindi in una città che guarda da fuori i grandi eventi, in un ambiente internazionale dominato dal commercio, ma ancora povero dal punto di vista culturale: non è un caso che la sua vera formazione umanistica avverrà al Collegio Cicognini di Prato, dal 1785 al 1790, nel cuore di quella Toscana che ha dato i natali a Dante, Petrarca e Boccaccio, le «tre corone» simbolo della letteratura italiana. Nel 1790 Rossetti passa quindi a Graz, dove studia filosofia, per poi trasferirsi a Vienna nel 1792, dove si laurea in giurisprudenza nel 1800. Nel frattempo, però, è cambiato tutto: nel 1797 Napoleone ha occupato Trieste, dalla quale si è poi ritirato poco dopo. Il pericolo, però, è solo rinviato: la città vivrà altre due occupazioni napoleoniche (1805-1806 e 1809-1813).

Da vero uomo di ‘classe dirigente’, il neoavvocato Rossetti decide comunque di tornare a casa, per dare nuova linfa a un ambiente intellettuale fragile e ancora in formazione.

La patria ideale

Solo sette anni prima, nel 1793, l’Accademia d’Arcadia Romano-Sonziaca ha infatti istituito la ‘Pubblica Biblioteca Arcadica Triestina’ con il preciso scopo, come si legge nei documenti, di «formare l’intelletto della gioventù dello stato mercantile e procurare gli aiuti per l’estensione di quelle cognizioni che conducono all’ingrandimento dell’industria». La cultura come mezzo per migliorare l’economia e la politica: un’intuizione tipicamente liberale (negli anni Trenta dell’Ottocento sarà teorizzata da Alexis de Tocqueville nel quindicesimo capitolo della Democrazia in America) su cui Rossetti innesta un elemento ulteriore, ossia l’«amor di patria» che sta lentamente maturando in tutti i territori europei soggetti a dominazioni straniere.

Ma Rossetti non è e non sarà mai un rivoluzionario: la sua Italia, lontana da quella che propugneranno i risorgimentali di lì a qualche tempo, è un riferimento intellettuale, non politico. Fedele all’universalismo mitteleuropeo, Domenico crede in una patria prima di tutto interiore, in un’identità che non ha bisogno di bandiere per prosperare. Così, nel pieno dell’ultima occupazione napoleonica, nel 1810 eredita la tradizione dell’Arcadia Romano-Sonziaca, dismessa pochi mesi prima, e fonda la Società di Minerva, ospitata a Palazzo Pitteri, affacciato su quella che allora era Piazza Grande e oggi è Piazza Unità d’Italia.

L’associazione, che dal 1829 si doterà di una rivista prestigiosa (L’Archeografo Triestino, tuttora in attività), ha come intento quello di promuovere il sapere in chiave locale (la storia e le tradizioni di Trieste e dintorni), italiana (la grande letteratura dal Trecento in poi) e internazionale (le ultime novità da tutto il mondo): un progetto ambizioso che trova terreno fertile in una città che si scopre affamata di cultura e desiderosa di riscattarsi dal torpore intellettuale. Il passo successivo, dunque, non può che essere un monumento in memoria di Johann Joachim Winckelmann, interprete rivoluzionario dell’arte greca e ispiratore del Neoclassicismo, ucciso proprio a Trieste nel 1768: a questo progetto Rossetti dedicherà un libro (Il Sepolcro di Winckelmann in Trieste, Venezia 1823) e anni di lavoro instancabile, fino a quando il cenotaffio, scolpito da Antonio Bosa ma approvato da Canova in persona, sarà effettivamente inaugurato nel 1833, nell’area sotto la chiesa di San Giusto che di lì a poco sarebbe diventata Orto Lapidario romano con annesso Museo Civico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Virtù civili e ispirazione letteraria

È dunque un uomo colto Rossetti, come dimostrano anche i suoi contatti epistolari (basti il nome di Giacomo Leopardi), ma non per questo insensibile ai problemi quotidiani della città, di cui è Procuratore dal 1817: spetta proprio a lui il primo studio sistematico sull’idrografia del territorio triestino, argomento quanto mai importante in una città che ancora nei primi decenni dell’Ottocento affronta problemi di rifornimento d’acqua. Escono così l’Indagine sullo stato del Timavo (1827) e l’opuscolo Pozzi artesiani, sorgenti ed acque correnti per Trieste e suo territorio (1835), testimonianze significative del suo impegno di amministratore locale.

Questa doppia natura politico-letteraria è descritta dallo stesso Domenico con parole ispirate, in una missiva ad Andrea Mustoxidi del 5 aprile 1829 che ricorda la Lettera a Francesco Vettori di Machiavelli: La massima parte del giorno è dedicata alla guerra forense od amministrativa e vi combatto con una grossa penna d’oca nera. La sera e qualche parte della nostra notte si consacrano alla pace degli studi con penna d’oca bianca, da poi che non volle il cielo donarmene né di cigno, né di colomba, né di aquila sublime.

È quindi naturale che una delle figure di riferimento del Conte sia Enea Silvio Piccolomini, vescovo di Trieste dal 1447 al 1449 e papa, con il nome di Pio II, dal 1458 al 1464: un intellettuale bibliofilo, mecenate delle arti e scrittore di razza, ma anche un politico che nel suo ruolo di pontefice tentò di dialogare con Maometto II, fresco conquistatore di Bisanzio, al quale promise il riconoscimento ufficiale in cambio della sua conversione al Cristianesimo; un papa, inoltre, che difese i triestini dalle mire espansionistiche di Venezia e ne confermò i privilegi fiscali. Su questo straordinario umanista Rossetti inizia ben presto a raccogliere materiali preziosissimi: nella sua collezione entrano quindi i manoscritti, finemente miniati, della Lettera a Maometto II, spregiudicato funambolismo diplomatico, e della Historia de duobus amantibus, curioso romanzo d’amore in forma epistolare.

Ma la vera passione di Rossetti è naturalmente il poeta civile per eccellenza: quel Francesco Petrarca che nel 1345 aveva scritto il carme Italia mia, benché il parlar sia indarno, accorato grido di dolore per una terra stritolata da mercenari stranieri e lotte intestine.

E del resto l’italo-mitteleuropeo Rossetti non può che guardare all’esempio di un poeta di statura internazionale, nato ad Arezzo ma cresciuto ad Avignone, fiero erede della romanità ma con lo sguardo ben puntato verso le Fiandre, la Germania e la Boemia. Così, nel giro di pochi decenni, la collezione del conte Domenico si arricchisce di incunaboli, pregiate edizioni a stampa e addirittura splendidi manoscritti quattrocenteschi.

Da questo flusso enorme di materiali petrarcheschi nascerà, nel 1828, il magistrale volume Petrarca, Giulio Celso e Boccaccio, che presenta due grandi conquiste esegetiche: il riconoscimento di Petrarca come autore di una biografia di Giulio Cesare (De gestis Caesaris), fino ad allora considerata opera di un autore romano (il che la dice lunga sulla qualità eccelsa del latino petrarchesco), e il riconoscimento di Donato degli Albanzani (inizio del Quattrocento) come autore del Libro degli huomini famosi, traduzione in volgare del De viris illustribus di Petrarca. Sul Libro di Albanzani (e quindi indirettamente sul De viris) Rossetti lavora quasi ossessivamente, comperandone ben tre manoscritti sul mercato antiquario, nonché due copie della prima edizione a stampa (Verona 1476): una rimane integra, mentre l’altra viene sfascicolata per poter avere delle pagine libere attorno alle quali incollare dei talloncini di carta, in modo da ampliarne i margini su cui apporre glosse e commenti.

Alle origini del Museo Petrarchesco Piccolomineo

Il 14 giugno 1838, alla soglia dei 64 anni, Rossetti stila il suo testamento, poi aggiornato il 2 giugno dell’anno successivo. La nomina ad esecutore di Giuseppe de Lugnani, direttore della Biblioteca Civica – erede di quella fondata nel 1793 –, prelude già i contenuti del testamento stesso: alla morte del Conte, tutta la sua collezione dovrà infatti passare alla Biblioteca. Il 28 settembre 1842 una malattia polmonare pone fine alla vita di Domenico: pochi anni dopo, come da accordi, la Civica riceve in eredità 7.845 pezzi fra manoscritti, incunaboli, stampe e opere d’arte. Questo patrimonio immenso è oggi meta di studiosi provenienti dal mondo intero, ma è anche a disposizione di tutti i visitatori: dal dicembre 2003, le due principali collezioni messe insieme da Rossetti sono valorizzate all’interno del Museo Petrarchesco Piccolomineo di via Madonna del Mare, piccolo scrigno di tesori indimenticabili.

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