Il silenzio, il buio e le colline

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Claudio Pizzin

19 Marzo 2018
Reading Time: 6 minutes

Luca Bidoli

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Luca Bidoli, com’è nata l’idea di scrivere Il silenzio, il buio e le colline?

«Non saprei dirlo. So solo che, ad un certo punto, un’idea, una traccia di una possibile storia è nata in me. Il resto è venuto in modo quasi immediato, necessario oserei dire. Dovevo scrivere quello che già formulavo e immaginavo nella mia mente, tutto qui».

Cosa desidera trasmettere al lettore attraverso questo libro?

«La cosa più semplice e immediata: un’emozione e una possibile identificazione».

La storia prende avvio dal male incurabile diagnosticato a una donna che decide di isolarsi in un piccolo paesino. Come mai questa scelta?

«Potrei paradossalmente dire che non sono io ad aver fatto questa scelta, ma lei. Ho solo cercato, sarà l’eventuale lettore a giudicare, di immedesimarmi in una natura femminile, con tutti i rischi che questo comporta, una identità sostanzialmente timida e introversa che, di fronte al male, cerca un rifugio, un riparo e una possibilità. Anche il dolore, in questo mio scritto, è letto e visto come apertura di un senso, non negazione della vita, ma ricerca di una consapevolezza più profonda, più autentica e reale».

Il paesino di montagna “in cui l’inverno dura più di tre mesi” è un luogo immaginario o ha preso spunto da qualche località precisa?

«Due autunni fa, al ritorno da una domenica a Venzone – ero con mio fratello Fabrizio e con Agnese, la mia futura moglie – a sera inoltrata, mio fratello ci propose una deviazione verso Faedis, per raggiungere un minuscolo paesino, Valle di Soffumbergo, dove si svolgeva la festa delle castagne. La strada era impervia e sembrava non condurre in nessun posto. C’erano solo il silenzio, il buio e le colline. Ho pensato in modo scaramantico: ‘Se ci dovessimo bloccare qui per un guasto, ci ritrovano in primavera’. Esageravo, ma era un’impressione condivisa sul momento. Quando, almeno io, avevo perso ogni speranza, ecco comparire di fronte a noi, disposto ad anfiteatro, un luogo magico e incantato: il paese. La vista sulla pianura era stupenda; in una giornata di sole, probabilmente, con lo sguardo si poteva raggiungere il mare. Poche case, una chiesa, un’ampia piazza con albero centrale e panche. E la sagra con tanta gente giunta da ogni luogo. Abbiamo mangiato castagne e bevuto vino caldo. Una bella atmosfera, soffice, avvolgente. Ma io, intanto, pensavo: come sarebbe stato l’indomani? E l’inverno, in questo luogo, quanto sarebbe durato? Vivevano ancora delle persone, quante, chi erano, come trascorrevano le giornate infinite, segnate dal buio e dal freddo? Mi attraeva tutto questo: la montagna incantata, dove trovare un tempo scandito da un ritmo diverso, ancestrale, lontano e difforme da ogni definizione possibile, da ogni nostro oggi».

Per Luca Bidoli che significato ha la montagna?

«La montagna è l’altrove, sempre e comunque. Si declina in una pluralità di luoghi, di esperienze, di incontri, di tempi. È la cima che non potrai mai raggiugere, ma che guardi, immaginandoti la felicità dell’arrivo; è la tensione verso una dimensione diversa e ulteriore, nella quale devi riapprendere l’umiltà data dalle tue possibilità, anche fisiche. Sono i profumi dell’erba appena tagliata, dei prati e dei boschi, è l’eco, a volte appena percettibile, del torrente che hai sfiorato; è la traccia di un animale che non riconosci ma che da quel momento è parte di te. È la tana, immateriale, nelle tue sere, quando la notte non è riparo, ma punto estremo di solitudine e paura. Non ho molti amici, ma alcuni tra questi li ho conosciuti a Noiaris, Priola, Cesclans, Cabia, e già declinarne i nomi è magico».

Luca Bidoli è nato a Palmanova, risiede a Cervignano e insegna a Pieris: qual è il suo rapporto con il territorio in cui vive?

«Ci vivo bene, nel senso che mi piace, che non cessa di emozionarmi. La definizione di Nievo sa un po’ di retorica, ma è sostanzialmente appropriata: “ Un piccolo compendio dell’universo”. Vi sono, specie d’inverno, giornate splendide, maestose. Mi piace guidare verso la laguna, guardare, da lì, al ritorno, le cime innevate delle nostre montagne: le Alpi appaiono sempre così vicine, protettrici e benevole. A Pieris mi trovo davvero bene, la “Bisiacaria” è un territorio speciale, con gente e persone uniche: credo e spero di aver collaudato amicizie e rapporti duraturi».

A proposito di insegnamento: cosa significa per lei formare le nuove generazioni?

«Temo queste domande, perché la porta alla retorica è sempre spalancata. A scuola io ci vado volentieri. Mi piace e credo non nella missione del mio lavoro, ma nella concretezza di ciò che sperimento e condivido. Cerco di trasmettere la mia passione, reale, verso i libri, la lettura, alcune delle discipline che insegno, come la storia e la storia antica in particolare. Voglio destare curiosità, interesse, piacere. Diceva nonno Montaigne: “Non faccio nulla senza gioia”. Potrebbe essere un mio motto, nulla senza gioia, e aggiungo anche impegno, senso di responsabilità e ironia».

La protagonista del suo libro vive la morte come una sorta di liberazione. Come mai questa scelta da parte dell’autore?

«Penso che nella nostra civiltà occidentale oggi si viva la morte come una sorta di tabù, una realtà che non si vuole dire, si ostracizza, perché l’imperativo non è solo la vita, ma la vita bella, salutare, piena, completa, dietetica, come se potessimo essere sempre giovani, immuni dal dolore e dalla sofferenza. Invece la morte è il senso più alto e completo dell’esistenza. Noi iniziamo a vivere, in modo consapevole, perché ci rendiamo conto che moriremo. Paradossalmente questo non è assolutamente la negazione della vita, ma la sua esaltazione. Nel mio racconto c’è una donna, di un’età volutamente indefinibile, che sa di avere poco tempo: le hanno diagnosticato un male incurabile e quel tempo deve essere vissuto in modo diverso, perché è il suo tempo, appartiene solo a lei. Non è una sconfitta, ma un’opportunità da cogliere e condividere, anche nel dolore. La liberazione non è la morte, ma una vita autentica».

Il silenzio, il buio e le colline è il suo primo romanzo breve. In precedenza lei aveva pubblicato poesie, aforismi, favole e saggi: cosa l’ha spinta a questo nuovo format?

«Un conto è quello che uno scrive, un’altra cosa è quello che riesce a pubblicare. Io ho sempre scritto, in momenti diversi della mia vita, racconti più o meno lunghi. Li ho sempre rimessi nel cassetto. Non che non mi piacessero, ma credevo e credo tutt’ora fossero troppo particolari. Lo scorso anno, di getto, in poche settimane, ho scritto questo racconto lungo o romanzo breve che dir si voglia; l’ho trovato buono e così lo hanno giudicato quelli che me lo hanno pubblicato».

A proposito del titolo, per Luca Bidoli cosa rappresenta il silenzio?

«Una rara e inestimabile possibilità per ascoltare sé stessi e gli altri».

Il libro si conclude con il paesino abbandonato da tutti gli abitanti, popolato solo qualche settimana d’estate dai figli dei nipoti che “si sforzano di essere felici e poi si annoiano”. Chi sono, in realtà, quei figli dei nipoti?

«Siamo noi, almeno una parte piuttosto cospicua. E non mi sottraggo; anch’io faccio parte di quel novero».

Nelle citazioni biografiche del libro è scritto che Luca Bidoli “vive, o, per lo meno si sforza di farlo, in Friuli”. Perché vivere è uno sforzo?

«Perché è un mestiere, e come tale va appreso, sin dagli anni giovanili. Sopravvivere, in realtà, è molto più semplice e immediato, ma non sempre dà i risultati sperati».

Ha in mente nuovi progetti letterari per il futuro?

«Nella mente c’è sempre qualcosa, a volte anche troppo, poi bisogna vedere il tempo, le occasioni, le possibilità… Ho appena terminato un nuovo libro, un romanzo, un po’ più articolato e complesso. Credo che lo lascerò decantare, sedimentare per alcuni mesi, lo rileggerò e cercherò di valutarne pregi e difetti. Poi deciderò il da farsi, sempre consapevole dei miei limiti, secondo la lezione di Aristotele».

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