Ai tempi del Joe Bar

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Michele D'Urso

27 Gennaio 2017
Reading Time: 6 minutes

Marco Brugnera

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Per tutti gli appassionati di motociclismo che hanno raggiunto il traguardo degli anta, il mitico Joe Bar Team, fumetto d’oltralpe che inizialmente era pubblicato come inserto nella rivista specializzata ‘Moto Sprint’, più che un passatempo era un vero e proprio ‘Cult’, da imitare e sostenere. «Confermo!», dichiara convinto Marco Brugnera, classe 1967, appassionato pilota monfalconese. «Ci ritrovavamo al bar proprio come i personaggi del fumetto, e come loro facevamo a gara a inventare sfide, miti e leggende attorno al mondo del motociclismo».

E in cosa consisteva questo vostro esercizio di fantasia?

«In realtà si prendeva spunto da fatti veri, partendo dal modo di guidare di ognuno fino all’abbigliamento che indossava, e poi si cuciva attorno il mito, della serie, quello lì è un gran ‘manico’, non toglie il gas nemmeno se dorme, oppure, quell’altro va così piano che i moscerini non si schiantano sul cupolino della carena ma sulla targa, e così via».

Avevate tutti la moto nel sangue…

«Quello è certo. Non ho mai praticato altri sport: non ne sentivo il bisogno».

Quindi ha cominciato da piccolo con il mini cross?

«No, ho cominciato da adulto. La passione per le due ruote ce l’avevo come tutti quelli della mia generazione: guidare il mitico ‘motorino’ rappresentava una tappa fondamentale verso l’emancipazione. Il mitico Benelli 50 cc di papà, comunque, ho iniziato a guidarlo che gli anni erano ancora a una cifra, o quasi. Erano altri tempi, si andava per i campi senza problemi di traffico e patentini».

Perciò, come succedeva ai tempi, visto che le elaborazioni erano quasi libere, ha ‘truccato’ il motorino di suo padre?

«Assolutamente no, il Benelli era intoccabile. A 14 anni ho avuto il mio primo ‘Ciao’ della Piaggio, ma anche con quello non ho impegnato tempo e soldi per elaborazioni, anche perché i pezzi costavano. In quel periodo avevo molto il ‘gusto dell’impennata’, tanto che, mi vergogno un po’, ero uno degli incubi dei vigili urbani di Monfalcone. Come detto, erano altri tempi…»

In che senso?

«Non c’era malizia in quello che facevamo; il rispetto verso la divisa e le persone più grandi non è mai mancato, eravamo solo ‘esuberanti’, ed era difficile per noi stessi tenerci a freno, figuriamoci se poi ci pungolavano con qualche sfida, tipo ‘tot’ metri su una ruota. Di andare a correre in pista non ci passava nemmeno per l’anticamera del cervello: amavamo la strada! A 16 anni ho preso il Gilera 125 da Enduro, ma sempre e solo per andarci in giro. Quando sono diventato maggiorenne sono passato alle stradali».

Ed è arrivato il Joe Bar.

«Esatto. Si andava a fare il giro a Sella Chianzutan, con tanto di deviazione obbligatoria per bere il caffè dalla ‘Lucia’, bar famoso fra i motociclisti di tutto il Friuli e oltre, al punto che si può ometterne tranquillamente l’ubicazione, tanto è conosciuto. E regnava l’incoscienza più assoluta».

Fino a che, un giorno…

«Un giorno ho letto troppo da vicino il marchio di fabbrica di una mietitrebbia; per puro miracolo nessuno si fece male, ma da quel momento decisi che avrei corso solo in pista».

Siamo agli inizi degli anni Novanta.

«C’era ancora la guerra nella ex Jugoslavia e si prendeva parte, fuori classifica, al campionato Sloveno e Croato di Super Sport. Eravamo ben accetti anche perché ‘rimpolpavamo i ranghi’. Le spese erano limitate e si faceva esperienza, così nel 1993 ho preso parte al trofeo ‘Suzuki monomarca’. Ho imparato a cadere e rialzarmi sempre, sia dall’asfalto che dalle situazioni economiche».

Come faceva a mantenersi?

«Non ho altri vizi e col tempo impari a gestirti. Sono sempre stato aiutato da qualche amico sia per le riparazioni che per l’organizzazione; basti dire che il mio team manager era Sergio Marini, il giornalista famoso con il soprannome de ‘Il Serpente’, che è sempre stato un buon organizzatore, e il mio meccanico era suo cugino, il leggendario Silvio Valentinis, amico di tutti i motociclisti del monfalconese, purtroppo prematuramente scomparso».

Dopo un anno di gavetta nelle Sport Production, arriva il fatidico 1996.

«Raccolsi tutti i miei averi e, con l’aiuto di qualche piccolo sponsor, mi sono affidato al professionale ‘Bertocchi  eam’ di Trieste, con il quale corsi il Campionato Italiano SuperBike, diventando vice campione, dietro al famoso Casoli. Questo è stato il mio massimo; dopo ho militato ancora un paio di anni in diversi campionati partecipando anche a un GP valido per il titolo mondiale delle 600 Super Sport a Misano Adriatico. Non ho mai vinto un gran premio; tante volte sul podio, ma mai sul gradino più alto».

Cosa le è mancato per vincere?

«Di sicuro pneumatici senza biechi! Scherzo, ma a quei livelli i materiali sono determinanti; volendo precisare, la mia ‘opera omnia’, è stato il giro più veloce in gara al Mugello, ottenuto con pista metà asciutta e metà bagnata, e quella volta il mio ‘polso’ fece la differenza, anche se alla fine arrivai sempre secondo».

Competere nelle due ruote cosa le ha insegnato?

«Ad avere nervi saldi e una visione positiva in qualunque circostanza e ad accettare le sfide della vita. Voglio citare il dottor Costa, il famoso Medico Titolare della clinica mobile che segue i piloti nei vari circuiti, dei quali servigi ho usufruito anche io, il quale afferma: “I piloti sono delle persone straordinarie, capaci di recuperi incredibili e di affrontare qualsiasi avversità”. Forse dipende da quella scarica di adrenalina che ti tiene su per giorni interi».

Addirittura giorni?

«Un gran premio, specialmente per noi dei piccoli team, non è solo i giorno della gara ma è un po’ tutta la stagione. Mi spiego con un esempio: si era al Mugello e fusi il motore la sera prima della gara. Avevo quello di scorta e con l’aiuto dell’amico meccanico Fulvio Condolf passai la notte a sostituire il motore e il giorno dopo, senza aver riposato neppure un attimo, corsi il Gran Premio, arrivando sesto».

Un’impresa nell’impresa.

«Giusto per rimarcare il differente modo di affrontare la vita, cito quella volta in cui sono partito da Gorizia per andare a gareggiare a Misano con il Ducato e tanto di roulotte trainata. Con me a bordo c’erano la morosa di allora e un amico che ci seguiva quasi ovunque. Pioveva a dirotto e il furgone è andato in panne almeno tre volte; a ogni sosta, sempre sotto il diluvio, ho dovuto smontare e pulire il filtro del gasolio. Dieci ore per percorrere poco più di 320 chilometri. Il mio amico è andato in paranoia al primo stop e si è preoccupato così tanto di tutto, dal diluvio al ritardo alla competizione che, arrivati a Misano, mi è toccato portarlo in Pronto Soccorso, nonché assisterlo, fra sessioni di prove e gara, per tutti i quattro giorni successivi».

Rossi a parte, o meglio, prima di Rossi chi era il suo pilota preferito?

«Ho conosciuto tanti campioni, che fuori dalle competizioni erano degli amiconi capaci anche di rivelarti qualche segreto della pista, ma che poi in gara non facevano sconti per nessuno. Scott Russell mi era molto simpatico, così come Aaron Slight: non a caso il mio primogenito si chiama così».

Corre anche lui?

«No, assolutamente! Ho due figli, Aaron di 17 anni, che va prudentemente in moto, e Anna di 14; possono fare tutto, ma non il pilota. Non è per cattiveria; se ci si prepara si può fare anche quello, ma per loro vorrei altro».

E per lei cosa desidera ancora?

«Non ho ancora perso il gusto delle sfide; a quasi cinquant’anni, dopo aver fatto di tutto, dal magazziniere al meccanico all’autista di Scuolabus, mi accingo a cambiare lavoro e, ancora una volta, a ricominciare da zero. Almeno dal punto di vista lavorativo. Per quanto riguarda i sentimenti, assieme ad Alicia, la mia compagna, lavoriamo per ultimare casa».

Perché le sfide, nella vita di uno sportivo vero, non finiscono mai. Proprio come quelle degli eroi del Joe Bar Team. RRRRoooooooaaaaaarrrrrrr!!!!

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