Il fascino discreto degli abissi

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Michele D'Urso

20 Novembre 2014
Reading Time: 4 minutes

Lo speleologo Sergio Soban

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Mi piacciono gli spazi aperti, illuminati. E di conseguenza ho paura degli spazi angusti e bui. Non so se la mia sia una sindrome claustrofobica classica, ma so che ammiro chi ha il coraggio di addentrarsi in quei mondi. Sergio Soban, speleologo di vasta esperienza, appartenente allo storico gruppo speleologico monfalconese ‘Amici del Fante’, è uno di questi miei miti personali. Quello che mi piace di lui sono l’umiltà e la dedizione, qualità che appartengono alle persone sicure di sé e con le quali svolge  la propria attività.

Sergio, cos’è per lei la speleologia?

«Innanzitutto è una passione. E come ogni passione che si rispetti è omnicomprensiva; contiene tutto, dalla gioia dell’esplorazione all’interesse della scoperta, allo studio e molto altro ancora».

La definirebbe anche uno sport?

«In alcuni Paesi europei esistono competizioni di tecniche speleologiche di progressione su sola corda, come un qualsiasi altro sport, perciò dico: perché no? Ovvio che, comunque, siamo di fronte a uno sport ‘particolarissimo’».

La sua è una passione spontanea o venuta dal caso?

«Non è come prendere una palla e vedere se ti diverti di più a dargli calci o a lanciarla con le mani. Ci si avvicina alla speleologia seguendo un istinto, perciò la mia è una passione spontanea, e penso che ciò accada anche per tutti gli altri praticanti. Ovviamente si comincia con poco e ci si specializza per gradi, passando attraverso specifici corsi di speleologia. Penso sia superfluo dire che per andare in grotta bisogna avere una adeguata preparazione sia tecnica che fisica».

Indubbiamente. Piuttosto a uno come me, che ha una paura matta degli antri, interessa di più capire perché…

«Perché si scala una montagna? Perché si corre sempre più a lungo e veloce? Sono domande che hanno risposte insite nell’essenza dell’umanità stessa. Abbiamo bisogno di frontiere da abbattere, di limiti da superare, chi non li ricerca vive al traino. Nulla da obiettare, ma è un atteggiamento che non mi appartiene».

Cosa le piace di più dell’andare in grotta?

«Si entra in un’altra dimensione; tutto diventa relativo, nel vero senso della parola: se non vedi, cerchi di comprendere tastando; se il silenzio ti sembra assoluto, provi a percepire. È come cercare delle estensioni dei propri sensi. E poi il rapporto di fiducia e assistenza reciproca che si instaura con i compagni è un altro elemento che mi rende felice di essere uno speleologo. La dimostrazione eclatante di questo forte concetto di amicizia, di supporto reciproco, è stato ben dimostrato nel recente intervento di salvataggio di uno speleologo tedesco ferito a più di mille metri di profondità. Le speranze di salvarlo erano nulle, ma l’intervento di speleologi di diverse nazionalità, fra i quali i tecnici italiani del Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico che hanno fatto la loro parte in modo esemplare, ha operato il miracolo».

Ho visto il piano di recupero. C’erano passaggi che quasi non si vedevano: come si fa a passare in cunicoli così stretti?

«Nel soccorso speleologico esistono tante tecniche e metodi, anche quello di disostruzione, per cui è praticamente impossibile rimanere aldilà di una strettoia. Nella normale progressione, invece, nei passaggi stretti bisogna imparare a usare tutta la muscolatura della gabbia toracica in sincronia con il respiro e l’espansione dei polmoni, mantenendo concentrazione e calma».

Laggiù non ci si sente mai abbandonati?

«No, perché si impara ad avere fiducia verso la vita. Comprendere che una grotta non è altro che una manifestazione della natura significa entrare in armonia con la Terra. L’ambiente che ci circonda è anche questo; nascosti panorami mozzafiato si celano nelle profondità terrestri: anche nelle grotte da ‘turismo di massa’ se ne vedono di favolosi».

L’esperienza che più l’ha fatta felice?

«Entrare per primo nella ‘Grotta dei Capelli’, una cavità scoperta dal nostro gruppo nel 1996 mentre era impegnato nell’esplorazione del complesso del Monte Canin. Proprio con le esplorazioni di quest’estate abbiamo superato la profondità di meno 400, e continua ancora…»

Cosa significa entrare per primo in una grotta sconosciuta?

«È un’emozione grandissima; come conquistare una cima. Ti senti come una versione ipogea di Neil Armstrong e provi l’orgoglio di aver portato appresso l’intera umanità in un luogo dove mai nessun umano aveva messo piede».

Un’impresa sua e del gruppo a cui lei appartiene. Un gruppo ormai storico…

«Essere un membro del gruppo ‘Amici del Fante’ è un vero onore. Un gruppo antico, costituitosi nel 1948 per aiutare le autorità al recupero dei corpi delle vittime delle foibe e che poi si è sviluppato coinvolgendo persone di estrazione diversa che, a loro volta, hanno portato ognuno la propria conoscenza. Oggi le attività del gruppo spaziano dalla speleologia alla paleontologia alla geologia; vengono anche organizzati percorsi didattici e di divulgazione concernenti soprattutto il fenomeno del Carsismo, ma non mancano anche percorsi di studio a carattere ‘storico’, come avviene per lo studio delle cavità artificiali costruite e utilizzate dai soldati durante la Prima guerra mondiale, con particolare riguardo al sito della trincea Joffre. Purtroppo i tempi sono duri anche per noi: mantenere in piedi tutta la struttura del gruppo, oramai quasi senza più contributi, limita fortemente l’attività».

Chiudere su questa ultima riflessione di Sergio, apparentemente dai toni grigi, a qualcuno potrebbe sembrare inadatta, ma non è così. È vero, i tempi son duri, ma gli speleologi del gruppo ‘Amici del Fante’ lo sono molto di più. E son sicuro che, pur fra mille difficoltà, compiranno ancora tante leggendarie imprese. Fidatevi, me ne intendo di duri!

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