Non voglio quasi niente

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redazione

17 Maggio 2018
Reading Time: 10 minutes

Luigi Maieron

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Luigi Maieron, partiamo dalla fine: “Non voglio quasi niente” che genere di album è?

«Sicuramente un disco molto diverso dai precedenti. Ha un respiro meno tradizionale, non ci sono personaggi del passato, né vicende singole a eccezione di Canzone per Icio, storico autista e amico di Mauro Corona, mancato prematuramente due anni fa. Questo è un disco legato al presente, ai sentimenti, all’amore maturo che non poggia sul linguaggio adolescenziale delle canzoni che ci vogliono far sognare l’impossibile. È un disco dal linguaggio asciutto che guarda al domani, che indaga i sentimenti profondi, che non ha paura della scomodità e della fatica. È un disco privo di super eroi, dove ognuno fa quello che può, con l’interruttore dell’anima sempre acceso».

Quali messaggi desidera trasmettere?

«Fino ad oggi ho cantato l’importanza delle radici, l’importanza della provenienza, del collegamento con persone concrete con un’epoca solida priva di fronzoli, abituata a caricarsi in spalle il proprio destino e a portarlo lontano da mode e facili ottimismi. Questo disco prova a raccontare cosa ci succede, cosa ci batte dentro e cosa si sta spegnendo. Ma vuole anche portare la sua testimonianza su quanto conti la semplicità, la normalità, così bistrattate da tante aspirazioni. Ogni canzone è una piccola osteria dove fermarsi a bere un bicchiere insieme e scambiarci qualche opinione».

Cosa c’è di nuovo e cosa invece resta costante rispetto ai lavori precedenti?

«Di nuovo ci sono i suoni orchestrati da Umberto Trombetta, Gandhi che ha curato la direzione artistica ed eseguito la parte ritmica con il battito delle sue pelli simile a un grande cuore pulsante. È un impianto musicale diverso, meno folk, ci siamo trasferiti per le vie di una qualsiasi città. Entriamo nei bar, guardiamo cosa succede per le strade, ma senza dimenticare di gridare a voce alta l’importanza dei piccoli paesi, l’importanza delle persone, ormai singole minoranze al cospetto di una modernità poco attenta ai bisogni reali della gente».

La musica di Luigi Maieron è strettamente legata al suo territorio, la Carnia: come mai?

«È l’aria che respiro, è il posto dove sono nato e cresciuto. È un luogo che ho dentro, un architrave su cui si sono fondati i miei pensieri, i miei sentimenti. Ma se lo leggi bene troverai che non è minore, è solo piccolo, un microcosmo che conserva una sua universalità. Ho sempre amato i microcosmi come Mieli (canto tradizionale carnico, ndr) ad esempio, perché tra i suoi sentieri, nei suoi boschi, nel cambio delle stagioni c’è un universo. A volte non lo vediamo, perché siamo impegnati a confrontarci con le immagini di un mondo in corsa fatto di enormi palazzi e ampi spazi, e crediamo siano questi i posti dove scorre la vita vera, dove accadono gli avvenimenti determinanti. In parte è così, ma solo in parte. Certo devi stare con il sedere in Carnia e la testa nel mondo, non devi pensare che il tuo paese sia il tutto, sia migliore e completo. Però è giusto raccontare quello che conosci bene, solo così la tua parola e la tua musica possono essere utili».

Cosa rappresentano per Maieron le sue montagne?

«Sono gli abbracci che non ho avuto da piccolo. Sono un’entità che mi protegge, che mi rassicura, che ogni tanto scalo per sentire ancora più forte il calore del loro abbraccio. Ma sono anche il confine che determina il mio posto. Federico Tavan in una sua poesia sollecitata da una domanda della sua professoressa (“Ma allora cosa farai?”) rispose, indicando la metà del muro che gli stava davanti: “Posso arrivare soltanto fin là”. Per tanto tempo mi sono sentito così anch’io, e le montagne erano i confini che non avrei lasciato. Invece il loro millenario linguaggio raccomanda concetti di apertura, di giusto confronto, sono madri protettive ma insegnano ai figli a muoversi senza timori, lasciando loro aperta la strada di casa».

Da cosa traggono ispirazione le sue canzoni?

«Di solito quando sono triste o mi sento più indifeso loro arrivano. Bussano ed entrano, altre volte se ne stanno sulla porta o se ne vanno senza salutare, altre si impuntano e non si lasciano prendere. C’è sempre qualcosa di fisico nella scrittura delle mie canzoni. Sento il testo o la linea melodica lì presenti. Sono come persone che vogliono essere capite e io cerco di farlo al meglio, cosciente della mia incapacità a rendere loro onore come meritano. Non sono mai del tutto contento del risultato, ma una cosa mi rassicura ultimamente: a distanza di tempo mi piacciono molto più di come le vivevo al momento della stesura. Spero che non sia una questione di età…»

Un antico detto recita: “Nessuno è profeta in patria”. Vale anche per Luigi Maieron?

«Io mi sono occupato di musica, poesia e scrittura perché la sentivo una mia esigenza. Certo c’è sempre una parte di te che aspira a essere ascoltata. Il disinteresse non fa bene al cuore di alcun creativo, ma se credi in qualcosa e lo senti necessario non ha grande importanza se non hai tutta l’attenzione che ti meriti o che credi di meritarti. Per il sottoscritto ritirarsi nel suo studio e fare quello in cui credeva è stato un privilegio e mi bastava. D’altro canto non sono mai mancati gli inviti e le possibilità anche di un certo rilievo, che continuano ad arrivare in numero crescente. Tra poco credo che finirò per rimpiangere i tanti pomeriggi di Carnia, in solitudine, fuoco e pensieri accesi».

Cantautore, ma anche scrittore. Dopo La neve di Anna, ottimo riscontro di critica ha ricevuto Quasi niente scritto a quattro mani con Mauro Corona. Cosa rappresenta la scrittura per Luigi Maieron?

«È lo stesso percorso. Per farla corta si può dire che la prosa è una bottiglia di vino e la canzone un bicchierino di grappa. Sono due forme espressive diverse ma confinanti. Il libro permette il respiro largo, la spiegazione minuziosa e per arrivarci hai spazi maggiori; la canzone invece è sintesi estrema, l’attimo da catturare in spazi strettissimi. Inoltre lo spartito musicale che usi per la prosa – perché anche un libro ha la sua musica – è un respiro derivato dalle emozioni dei tanti paesaggi, dalle loro vicende, dalle fragilità che sentiamo nostre».

Non solo libri: lei è autore anche di spettacoli teatrali. È più complesso scrivere un romanzo, un copione o una canzone?

«L’importante è scrivere con il senso giusto. Per me questo senso è derivato dall’utilità. Vorrei che ascoltando o leggendo le persone potessero cogliere una frase che accende una piccola lampadina o che si possa sentire il calore delle parole e la vicinanza. Diventa complessità quando è tecnicismo, quando pur essendo tutto bello e perfetto viene a mancare il dato del collegamento. E assieme all’applauso, che magari arriva ugualmente, si perde l’occasione di aver dato qualcosa. Gli esercizi di bravura non servono. Dobbiamo coltivare dentro di noi l’orto e piantare dei semi, poi curarlo e bagnare le tue piantine, siano canzoni, copioni, romanzi o spettacoli teatrali: qualcosa di buono nascerà».

A proposito di Mauro Corona, come vi siete conosciuti?

«Io e Mauro siamo accomunati da infanzie difficili. I segni sono nascosti ma chi li sa leggere li coglie con facilità. Noi ci siamo guardati e capiti. Il resto è venuto piano piano, perché non è così facile per noi aprirci veramente. Mauro ha fatto un atto di generosità accettando di scrivere un libro a quattro mani, dopotutto lui è uno scrittore conosciutissimo e io quasi un esordiente, eppure ha voluto farlo convinto del risultato. Ancora una volta ha dimostrato il suo spessore artistico, la sua intuizione formidabile. Quasi Niente è un libro non solo molto acquistato (ha superato le 70.000 copie) ma è anche molto letto. In famiglia se lo passano da nonno a nipote».

Non solo il libro. Da molto tempo portate in scena – assieme a Toni Capuozzo – lo spettacolo Tre uomini di parola: com’è lavorare assieme a Corona?

«Corona è un leader, un comunicatore di alto livello, stare sul palco con lui non è stato facile, ma ti fai le ossa: se funzioni vicino a Mauro, funzioni dappertutto. Lo spettacolo Tre uomini di parola è nato da un’idea e per volontà del corpo degli Alpini di Cividale, capitanati dal maresciallo Ciabrelli, e poi sostenuto da altri comandi in tutto il nord e centro Italia. Grazie agli incontri fatti abbiamo raccolto 55.000 euro con i quali è stato costruito un reparto ospedaliero in Afghanistan per ospitare i bambini vittime della guerra. Il reparto si chiama proprio “Tre uomini di parola”. Il corpo degli Alpini è un grande esempio di efficienza e umanità nel nostro paese».

Qual è il consiglio principale che Corona le ha dato e quello che invece lei ha fornito a lui?

«L’ultima cosa da fare con Mauro è dargli consigli. Spesso li legge come “buoni consigli di chi non può più dare il cattivo esempio”. Quello che cerchiamo di trasmetterci è l’autenticità e soprattutto che uno avrà sempre il sostegno dell’altro. Abbiamo bisogno dell’amicizia, di sentirci insieme, di contare su qualcuno, di poter esprimere la gratitudine come sentimento da non dimenticare».

Torniamo al territorio: Luigi Mieron come giudica lo stato di salute della Carnia di oggi?

«Soffre come ogni piccolo luogo di montagna, dove per far cassa e trasferire privilegi in altri posti si chiudono uffici e servizi. Il popolo carnico è composto da gente solida, che non ha avuto vita facile. Se si pensa solo alla percentuale di emigrazione della generazione che ci ha preceduto (il 25% della popolazione, vale a dire un componente per famiglia, e in genere il capofamiglia) si capisce quanto abbia sofferto ogni singolo nucleo e quanto di questa sofferenza si sia adagiata nei nostri caratteri e nelle nostre reazioni. Emigrazione che purtroppo prosegue anche per i giovani, perché continuano le chiusure di infrastrutture, continuano i trasferimenti di uffici e servizi. Nell’aria c’è una certa stanchezza che ci ha fatto perdere un poco la “braure di jessi cjargnei”, ma dobbiamo pensare a quante promesse non mantenute si sono dovute mandare giù».

Restiamo al problema dell’emigrazione delle giovani generazioni. Possibile invertire la tendenza o il processo è ormai irreversibile?

«Non mi piace lamentarmi, preferisco tirare avanti, persino la protesta ha perso significato. Anche chi perde le elezioni, a rotazione, considera la sconfitta un atto di stupidità dell’elettorato. Non si sente, non si ascolta e quindi non si capisce. Come si può tenere in piedi un mondo del lavoro giovanile basato sul precariato? Chi è precario non vede futuro e sente il presente come una passerella ballerina mentre sta attraversando il fiume in piena della vita. Si sente insignificante e valutare la propria insignificanza sociale non fa bene. Credo si possa e si debba invertire la tendenza: confidiamo in un nuovo senso politico perché fino ad oggi la mia generazione ha fallito. Ognuno si dovrebbe alzare dal suo scranno in Parlamento e chiedere scusa, prima ai giovani, a ogni lavoratore, a ogni persona in difficoltà. “Offuscati dai privilegi non vedete”. Dice un brano del nuovo  disco: “Minoranze è la gente comune che esce di casa e fa un lavoro normale. Voi ci guidate ma non ci sentite e allora non vi seguiremo, vi battete per grandi principi dimenticando le persone, a parole costruite tante buone promesse e coltivate distrazione”».

Torniamo al Maieron artista: come ha conciliato passione e lavoro?

«Nella vita ho lavorato come impiegato per un ente pubblico. In genere mi occupavo delle persone con traumi e comunque il mio lavoro ha sempre avuto un collegamento con situazioni di disagio. Il mio essere “artista” si è inchinato per tutta la vita a un lavoro vero, fatto di orari e regole. Solo così ha potuto continuare a respirare l’aria pulita delle vette, perché non dovevo piegarmi a niente, ma solo lasciarmi portare dalla passione. Alle due finivo il lavoro vero, lasciavo la mia anima pratica; alle 15.30 entravo nel mio studio, indossavo la mia anima eterea e, chitarra in mano, cominciavo a giocare».

Ogni artista ha solitamente un luogo speciale in cui trova l’ispirazione. È così anche per lei?

«Il mio luogo speciale è dentro di me, è la parte che duole, i luoghi dove girano la mia fragilità, le mie paure, il mio sentirmi perduto. Attingo lì la mia penna, dopo aver diluito  l’inchiostro con la leggerezza dei buoni pensieri, delle buone parole».

Qual è la canzone del nuovo album cui è maggiormente legato?

«In questo album ogni canzone ha la sua funzione, è impossibile sceglierne una. Il disco apre con un brano che s’intitola Non voglio quasi niente. Dice “non voglio quasi niente  se tu sei qui, non voglio quasi niente se non ci sei”. Quasi che presenza e assenza mostrino lo stesso significato, ma non è così. Il ricordo della felicità non ti fa essere felice ma non fa male, mentre il ricordo del dolore resta sempre dolore e fa male. Le parole sembrano affermare un principio identico, invece stabiliscono una differenza, tra le più significative nella nostra vita: non capire spesso il bene che abbiamo e perderci nell’inutile protesta per aspirazioni superficiali, per il lamento di ciò che non ci è stato dato o a cui aspiravamo».

A proposito di aspirazioni, qual è il sogno che vorrebbe ancora realizzare?

«Scrivere un disco dove non servano parole a spiegare le canzoni, dove ogni canzone sia una scala che cresce verso il mondo di sentimenti sinceri per un sentire comune, in grado di generare un’emozione duratura e dove io non smetta di cantare queste canzoni. Ma so di chiedere troppo e mi accontento di meno: credo molto in questo nuovo disco e spero che porti nuovi amici tra emozioni e utilità. “Qualche volta hai detto vado, qualche volta ci hai provato, sai qual è il posto che vuoi? La tua meta ce l’hai chiara? Dopo gli argini e le strade ci sei solo tu con i tuoi colori accesi e lo sguardo in bianco e nero…”»

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