Gli incroci delle lettere

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Vanni Veronesi

8 Ottobre 2016
Reading Time: 6 minutes

Federico II in Friuli

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Un uomo, mille identità

Palermo, Natale 1194: Enrico VI Hohenstaufen, imperatore del Sacro Romano Impero e figlio del celebre Federico Barbarossa, viene incoronato sovrano del Regno di Sicilia, che a dispetto del nome comprende anche buona parte dell’Italia meridionale. Sua moglie, Costanza d’Altavilla, ultima discendente dei sovrani normanni, non può assistere al trionfo del marito; in viaggio verso l’isola, è costretta a fermarsi a Jesi per il parto ormai imminente. Da tempo si maligna di una gravidanza impossibile, considerata l’età avanzata della donna; per tutta risposta, la regina fa allestire un baldacchino nella piazza del paese, dando alla luce davanti all’intera cittadinanza un erede maschio, il giorno dopo l’incoronazione del marito, a suggellare anche simbolicamente chi è che comanda.

Ansiosa di ripartire per la Sicilia, consegna inizialmente il figlio alle cure della duchessa di Urslingen a Foligno. Battezzato nella cattedrale di San Rufino ad Assisi con il nome di Federico II, alla morte del padre Enrico, nel 1197, viene affidato al conte abruzzese Pietro da Celano, infine posto sotto la tutela di papa Innocenzo III, con la promessa di una educazione di altissimo profilo. Il pontefice, che pure vede con sospetto l’unione di Impero e Regno di Sicilia, di fronte al versamento di 30.000 talenti d’oro alle casse vaticane prende molto sul serio l’incarico della regina, che nel frattempo muore nel 1198 lasciando l’isola sotto l’influenza papale.

Federico cresce a Palermo, nella reggia dorata di Palazzo dei Normanni, circondato dai migliori maestri ‒ compreso un tutore musulmano ‒, in un ambiente dove è normale che una madre dedichi al proprio figlio una lastra sepolcrale in latino, greco, arabo ed ebraico. Quattro lingue, tranne la propria: perché il siciliano (o il francese nella versione normanna?) è riservato al dolore privato, che sulla pietra non trova spazio. Solo di fronte al miracolo della Stele di Anna, conservata alla Zisa di Palermo, si capisce il retroterra in cui il giovane rampollo degli Hohenstaufen si affaccia al mondo.

Il paradosso siciliano

Divenuto re di Sicilia e sacro romano imperatore nel 1212, a soli diciotto anni, Federico consolida il proprio potere sconfiggendo le resistenze dei feudatari del Sud Italia con la forza del suo esercito. Ma accanto alle maniere forti, a fargli guadagnare l’epiteto di stupor mundi, ‘stupore del mondo’, sono le armi della legge e della cultura. Sulla scia di tutti i sovrani illuminati, da Pisistrato a Carlo Magno, passando per Augusto, Federico rifonda lo Stato dandogli una giurisprudenza sistematica attraverso le Constitutiones di Melfi. A capo di questa impresa c’è il fidato Pier delle Vigne, prestigioso giurista ma anche poeta in siciliano, secondo un’usanza che alla corte di Federico si consolida in figure eccezionali come Giacomo da Lentini, considerato l’inventore del sonetto, Guido delle Colonne e Rinaldo d’Aquino. Sono gli esponenti di quella che oggi conosciamo come ‘scuola poetica siciliana’, l’atto di nascita della letteratura italiana. L’idea è tanto semplice quanto rivoluzionaria: riprendere la grande tradizione dei trovatori provenzali sostituendo la lingua d’oc con l’idioma siculo, per segnare la propria distanza rispetto alle corti francesi e, contemporaneamente, allo Stato della Chiesa, che ha nel latino la sua lingua ufficiale.

Una scelta solo all’apparenza provinciale: il volgare elaborato alla corte di Federico II sarà infatti adottato da poeti di Bologna  e Genova e lo stesso Dante, nel De vulgari eloquentia, ne loderà la raffinatezza. Così, i motivi tipici della poesia cortese improvvisamente si vestono di suoni nuovi, purtroppo sopravvissuti attraverso una sola canzone, scritta da Stefano Protonotaro:

«Pir meu cori alligrari, / chi multu longiamenti / senza alligranza e joi d’amuri è statu, / mi ritornu in cantari, / ca forsi levimenti / da dimuranza turniria in usatu / di lu troppu taciri».

Inizia così l’unico componimento pervenutoci in lingua originale, grazie a una trascrizione cinquecentesca dell’umanista Giovanni Maria Barbieri. Paradossalmente, della scuola poetica siciliana conosciamo infatti solo la ‘traduzione’ in volgare toscano operata a partire dalla metà del Duecento: una trascrizione sistematica che, se da un lato dimostra l’enorme prestigio della letteratura fiorita alla corte di Federico, dall’altra ne ha annullato gli intenti ideologici. Testimoni di questo ‘rimasticamento’ sono in particolare tre manoscritti: il Banco Rari 217 della Biblioteca Centrale, il Rediano 9 della Biblioteca Laurenziana (entrambi a Firenze) e il Vaticano latino 3793, nel quale si conserva il Contrasto d i Cielo d’Alcamo, con il suo celebre incipit «Rosa fresca aulentissima». Codici leggendari, vergati da mani esperte di tardo XIII secolo, dove i poeti federiciani sono intervallati ad autori del calibro di Guittone d’Arezzo e del bolognese Guido Guinizelli, a confermare l’influenza fortissima della ‘scuola’ ben al di fuori della Sicilia. In questa riscrittura toscana, Giacomo da Lentini sembra quasi Dante:

«Meravigliosa-mente / un amor mi distringe / e mi tene ad ogn’ora. / Com’om che pone mente / in altro exemplo pinge / la simile pintura, / così, bella, facc’eo, / che ’nfra lo core meo / porto la tua figura».

Per molto tempo questa mediazione linguistica è stata considerata l’unico veicolo di diffusione dei testi siciliani in Italia, finché nel 2000 una scoperta eccezionale ha rimescolato le carte.

Nelle pieghe dei manoscritti

Fra i poeti presenti nei tre codici sopra citati compare anche Federico, che non è certo un neofita delle lettere: il suo trattato De arte venandi cum avibus diventerà anzi il best seller sulla falconeria. Un tocco di charme per un politico che in pochi anni diventa l’uomo più potente d’Europa assieme al papa, riuscendo a piazzare suo figlio Enrico VII sul trono di Germania. La lontananza fra i due, tuttavia, non giova ai rapporti familiari: sobillato dai  principi tedeschi, ostili allo strapotere dell’imperatore, Enrico matura un odio feroce contro il padre, tanto da ribellarsi alla sua autorità con provvedimenti indipendentistici. Federico punta sulla diplomazia: i due si dovranno incontrare ad Aquileia per chiarire la situazione. E così avviene, nella primavera del 1232: otto settimane di colloqui fittissimi, con le corti al seguito. Il risultato è un Landfriede, una dichiarazione in cui Enrico si impegna a riorganizzare i territori germanici rimanendo comunque fedele al padre. Nulla di interessante, se non fosse che in calce a una copia di questo testo, conservata nel codice C 88 della Zentralbibliothek di Zurigo, troviamo qualcosa di inaspettato: una poesia di Giacomino Pugliese, autore di spicco della scuola poetica siciliana, in un volgare dalle forti influenze veneto-friulane (basti pensare al verbo as per ‘hai’). Così l’incipit:

«Resplendiente / stella de albur, / dulce plaçente dona d’amur / bella, lu men cor as in balia, / [d]a voy non si departe en fidança, / m’ad on’or te renembra la dya / quando formamo la dulçe aman[ç]a. / Bella, or ti sia / renabrança / la dulça dia / e l’alegranza / quando in deporto stava cum voy; basando me disist: “anima mya, / lu gran solaç k’è ’nfra noy duze / ne falsasi per dona ki sia!”».

Sulla base di ricerche compiute da Giuseppina Brunetti, pubblicate nel 2000, è emerso un dato straordinario: il testo, poco dopo la sua stesura in siciliano (di cui rimangono tracce ad esempio nell’articolo lu), è passato direttamente a Nord Est senza la mediazione toscana. Questo significa una cosa sola: la versione ‘friulana’ di Giacomino Pugliese, perfettamente databile al 1232 in quanto registrata nelle carte dell’incontro aquileiese fra Enrico VII e Federico II, è il più antico componimento della scuola poetica siciliana. Molto prima della redazione toscana, è dunque il Friuli a ospitare la nascita della letteratura italiana.

La caduta

Tre mogli e 19 figli fra legittimi, illegittimi, riconosciuti e non riconosciuti: la frenetica attività matrimoniale di Federico è perfettamente in linea con la sua voracità politica. Sempre più ostile al papato per le sue mire espansionistiche, dal 1234 al 1248 la sua vita è una guerra continua su tutti i fronti possibili. E nel momento più difficile, anche gli amici di sempre cadono in disgrazia: accusato di tradimento, Pier delle Vigne si uccide, destando commozione in tutta Italia. Dante, nel XIII canto dell’Inferno, lo condannerà in quanto suicida alla trasformazione in albero, all’interno di una angosciante selva popolata dalle Arpie, dandogli tuttavia la parola per una amara sintesi della sua vita:

«Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi / serrando e disserrando, sì soavi / che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi».

La morte del giurista poeta, colui che aveva avuto accesso all’amicizia di Federico (rappresentata dalla chiave nel cuore), è anche l’inizio della fine per la scuola poetica siciliana, definitivamente spazzata via con la morte del sovrano nel 1250. Ne sopravvivrà il canto, a partire dal Friuli per approdare nel resto d’Italia: un canto che arriverà dritto alla rivoluzione di Dante Alighieri.

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