Il detective degli abissi

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Margherita Reguitti

10 Marzo 2021
Reading Time: 5 minutes

Stefano Caressa

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Il mare era nel destino di Stefano Caressa, Nino per gli amici, ancor prima della sua nascita. I genitori infatti lo concepirono in via Melissa, in un appartamento in affitto affacciato sul porto di Grado, dove andarono a vivere terminata la guerra. Il 23 marzo del 1950, poi, i primi vagiti in una delle case del centro storico dell’Isola d’Oro.

Da allora il mare è stato la sua passione, il luogo di lavoro e di piacere. Padre pugliese di Trani, arrivato a Gorizia nei ranghi della Polizia di Stato, madre friulana di nobile lignaggio, discendente dalla famiglia degli Strassoldo di Villanova di Farra, e una nonna di Tolmino, oggi Slovenia, Nino ha sempre vissuto sull’Isola, un gradese doc nonostante i suoi genitori fossero di fuori.

Certo è stimato quale eccellente professionista per tutto quanto attiene quello che sta sotto il mare, avvolto nel mistero delle profondità, coperto dagli strati di alghe e molluschi, velato dal fango. Tesori che raccontano un passato di secoli e che attendono di essere individuati dagli strumenti della sua barca e dalle luci delle sue telecamere.

Dopo il diploma di liceo scientifico e un breve passaggio alla facoltà di geologia dell’Università di Trieste, dagli anni Settanta Nino inizia a lavorare per una società del capoluogo giuliano nel settore scientifico-marittimo. «Eravamo non facilmente inquadrabili – racconta – direi atipiche figure professionali fra i geometri e i manovali subacquei, necessari per la costruzione di impianti portuali e la progettazione di condotte sottomarine. Attività che iniziavano all’epoca».

Nello stesso periodo consegue il brevetto sportivo di subacqueo. «Allora – aggiunge – era una cosa molto seria, non come oggi che in una settimana tutto è finito. Il corso durava sei mesi ed era molto selettivo, in   pochi lo portavano a termine per l’impegno di studio e di esercitazioni. Una volta ottenuto il brevetto potevi sentirti parte di una élite. I miei compagni di corso erano incursori della Polizia o dei Vigili del fuoco e per questo l’impostazione era di tipo militare».

Oggi tutto è più semplice e alla portata di tutti, anche grazie all’evolversi delle strumentazioni e della tecnologia e ai loro costi molto più abbordabili.

Nino, in che cosa consiste esattamente il suo lavoro?

«Ho sempre lavorato per ditte specializzate in interventi sottomarini sia industriali sia di ricerca scientifica. Avendo sviluppato le conoscenze di un geometra, sono in grado di effettuare rilievi altimetrici, sviluppare sistemi di rilievi ma anche di fare fotografie e riprese di infrastrutture come siti subacquei e relitti. Queste ultime attività sono quelle che preferisco: mi piace andare in giro per mare alla ricerca di tesori sommersi da riportare in superficie. E qui entrano in gioco le istituzioni con le quali collaboro, come le Università di Trieste e del Veneto, facoltà non solo di Archeologia ma anche di Biologia e Geologia marina, il Ministro dei Beni culturali con le Soprintendenze e i centri di ricerca marina come l’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica sperimentale sempre di Trieste».

Senza tralasciare la sua esperienza in Rai nella realizzazione di documentari a caccia di relitti nell’alto Adriatico…

«Una bella esperienza a bordo della mia barca Castorino II, in compagnia del giornalista Pietro Spirito e del regista Luigi Zannini, peraltro bravi sommozzatori. Sono stati realizzati vari documentari di due mini serie dal titolo “La frontiera sommersa” e “Storie e leggende del Golfo”. Seguendo le tracce che in passato avevo rilevato e mi ero annotato, gironzolando per mare, grazie a strumenti tecnologicamente avanzati come sonar in 3D di rilevazione di masse sui fondali installati a bordo, siamo andati a vedere di che si trattava».

Che metodo di ricerca avete adottato?

«Abbiamo seguito la passione per la storia e le storie, andando a eseguire dei rilievi e delle mappature dei siti sommersi, dell’ambiente geologico ma anche biologico, per capire la tipologia e l’epoca dei sedimenti individuati. Sempre informando e in collaborazione con le autorità e gli enti competenti, preposti alla tutela dal patrimonio sommerso».

E che cosa avete trovato?

«A sud-ovest di Grado siamo andati alla ricerca del porto scomparso. Una infrastruttura romana al servizio della città di Aquileia di oltre due mila anni fa, chiamata Porto Pilo, da “pilum”, giavellotto utilizzato dall’esercito romano nei combattimenti a breve distanza. Era un antico scalo di cui parlano documenti del Settecento riferendo citazioni precedenti di cui nei secoli si erano perse le tracce, sommerse dalla laguna che ne ha coperto la memoria. Il nostro lavoro ha riportato alla ribalta questo passato e fatto emergere anche delle novità su resti di strade a poco più di due metri della superficie».

Che possibilità ci sono di valorizzare questa vostra scoperta?

«Poche direi, visto che al momento scarseggiano persino i fondi per scavare e portare in luce quanto sepolto ad Aquileia».

Sempre grazie al vostro lavoro, anche in questo caso documentato dalla Rai regionale, avete raccontato con le immagini la storia del relitto del brigantino Mercurio, colato a picco durante la battaglia di Grado.

«Un fatto accaduto nel 1812, esattamente fra il 21 e il 22 febbraio durante le guerre napoleoniche. Il Mercurio, brigantino della Marina francese donato al neocostituito Regno italico, venne affondato dalla Marina inglese. Si trattava di un’imbarcazione piccola, di circa 33 metri con a bordo 90 uomini fra equipaggio, fanti di mare e cannonieri, ufficiali e addetti alle vele. In questo è stato realizzato uno scavo stratigrafico e sono stati trovati tanti oggetti interessanti: come elementi dell’artiglieria, armi, munizioni, una petriera ed effetti personali dell’equipaggio, e anche i resti di alcuni uomini imbarcati. Oggi il materiale rinvenuto è esposto al Museo archeologico del mare di Caorle».

Questa sua lunga esperienza storico-scientifica che cosa le ha insegnato?

«Io sono molto appassionato di storia, studio e approfondisco. Questa esperienza mi ha dato l’opportunità di partecipare al recupero e alla valorizzazione del nostro passato attraverso lo strumento televisivo. Ma soprattutto mi ha fatto capire che l’Alto Adriatico non è né povero né brutto, anzi. È ricco di storia e di vita e di una bellezza, soprattutto lungo la costa verso Pirano e l’Istria, che nulla ha da invidiare ai mari esotici».

Come sta di salute?

«Sta migliorando. Fino agli anni ’70 l’inquinamento era pesante, non c’erano depuratori per gli insediamenti industriali e abitativi e non c’era la cultura della tutela. Si riteneva il mare una risorsa illimitata. Oggi tutto questo è passato, anche se c’è ancora molto da fare».

Quale mare vorrebbe solcare lei che tanto ha viaggiato nei suoi oltre 50 anni di attività?

«Ho navigato molto, ma sempre nel Mediterraneo. Con mia moglie Patrizia passavamo mesi alla scoperta delle coste di Grecia e Turchia, quando erano luoghi poco frequentati. Ci spostavamo con un fuoribordo di 10 cavalli in assoluta libertà. Nei miei sogni c’è un posto particolare dove vorrei andare: si tratta de l’Isla del Coco o Isola degli squali, 350 miglia al largo della Costa Rica. Un luogo non facile da raggiungere, soprattutto oggi a causa della pandemia. Ma un sogno deve essere difficile da realizzare, altrimenti che sogno sarebbe?»

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