Di madre in figlia

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Anna Limpido

6 Novembre 2020
Reading Time: 10 minutes

Storie di donne a Nordest / 2

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Sei cognomi in due, tanti ma troppo pochi per donne i cui racconti intrecciano molteplici storie e vissuti, dalla vivida cultura, illuminate dove il sapere è quello di chi sa e sa comprendere, pilastri in una casa che vanta tanti avvocati i quali, riuniti, riempirebbero gli spalti di un palazzetto di basket (unica tangente che ha intersecato questa famiglia votata alla professione forense).

Laura Luzzatto Guerrini Premier e sua madre Giorgia Rossaro Luzzatto Guerrini sono state per me una vera sorpresa. Vorrei dire che la signora Giorgia (non posso non attribuirle il suffisso di “signora” per rispetto alla sua età) potrebbe essere la nonna di tutti noi ma no, non ci riesco proprio: mia nonna, con tutto il rispetto per la sua buonanima, all’età di 70 anni già mescolava i ricordi. La signora Giorgia invece, con vent’anni ampi in più e salute da vendere, si ricorda pure della gonnellina scozzese della figlia quando, a quattro anni, si ribellò alla prima sculacciata del padre. Incredibile. Una memoria attenta, sveglia, vigile, scattante, ordinata, di quelle che anche se perde il filo poi lo ritrova subito: parla del 1945 o del 1952 con la padronanza di chi deve averlo fatto più e più volte.

Laura invece è un avvocato di quelli che non vorresti avere come avversario neppure al gioco dell’oca: è forte, sicura. Ne senti il peso specifico pure dall’impostazione della voce; non so se ci fate caso, c’è chi si infila sottovoce nei buchi di una conversazione e chi guida il passo come in un solfeggio.

Così parla Laura: parole grevi scandite senza fretta nel desiderio non solo di raccontare, ma proprio di spiegare.  Alta, bionda, occhi grandi e nocciola. Da una donna così o se ne resta sottomessi o affascinati. Mi siedo nel salottino d’epoca della loro bella casa nel centro di Gorizia. Le osservo, la luce del sole è tutta per loro, abbandono ogni sforzo di cercare una qualche somiglianza fisica tra le due e comincio la mia intervista.

Laura, sei un affermato avvocato penalista che si è occupato molto di minori e donne, quale denominatore in te per affrontare tematiche così delicate?

«La mia vocazione nell’essere un avvocato penalista pretende una certa predisposizione mentale e caratteriale, al decisionismo per lo più perché, nell’assistere, partecipi alla responsabilità delle scelte: devi comprendere quale possa essere quella fatta dall’imputato che però non sempre è in grado di esternartela. In altre parole, estrapolare dal cliente la sua volontà senza sporcarla. Senza surrogazione. Estrapolata poi, mi si impone un distacco freddo, chirurgico, per istruire con la massima professionalità il processo. Direi che la virtù più importante che ho dovuto allenare sia stato il controllo emotivo, nessuna empatia e si badi che questo non è cinismo bensì professionalità che deontologicamente un buon avvocato, a maggior ragione penalista, deve al suo cliente».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Che idea ti sei fatta sulla parità fra uomo e donna, tema oggi sotto i riflettori?

«Io sono stata cresciuta nel segno della parità di genere anche prima che diventasse la moda dei nostri giorni, già con esempi in tempi ben lontani: non solo mia madre ha sempre rappresentato una donna autonoma, laureata in tempo di guerra, una rarità, ma ancor prima anche la mia nonna paterna, nobile, educata in casa quando l’istruzione era limitatissima e appannaggio di pochi. Scrisse libri, dipingeva, conosceva 4 lingue. Io sono cresciuta con questi stimoli».

Donne indipendenti e istruite in anni in cui le donne stavano a casa a badare ai propri mariti. Qual era il parere degli uomini di casa e quale la tua emancipazione nell’affermarti avvocato penalista?

«Mio padre mi ha cresciuto dandomi certezze, era illuminato non solo nella visione della propria donna, mia madre, ma anche per me, unica figlia femmina. Era un uomo severo che però ammirava il mio profondo spirito libero. Ricordo bene quando, giovanissima, decisi di sposarmi: ancora studiavo, avevo l’incoscienza dei vent’anni e presentai in famiglia il mio compagno che allora era un campione della pallacanestro, dunque grandi fasti ma poche sicurezze. Lui non obiettò nulla, mi lasciò la mia libertà chiedendomi solo di finire gli studi. Capii presto che lo studio e la mia famiglia sarebbero stati quel perimetro entro il quale sarei stata sempre protetta: da allora sono passati non solo 39 anni di felice matrimonio (con due figli meravigliosi) ma anche altrettanti da quando iniziai a esercitare la mia professione. Al di fuori dello studio di famiglia, a Monfalcone con un tavolo e una sedia di bassa fattura, con le tante difficoltà dell’inizio ma ricca di buona volontà e fiducia, fino al giro di boa quando strinsi una collaborazione preziosa con il collega Roberto Maniacco, uomo meraviglioso e maestro. La difficoltà maggiore in quegli anni è stata che pochissime donne lavoravano nell’ambito penale, allora appannaggio prettamente maschile, e quindi le prime difese a imputati uomini partivano lente e con una certa diffidenza. Però gli anni sono passati e la tenacia mi ha dato ragione».

Credi che questo sostegno maschile alle donne della tua famiglia provenga da un certo grado di cultura (e quindi, viceversa, l’ignoranza sia concausa di oppressione)?

«La cultura incide certo, però poi la storia ci insegna che i costumi e gli usi influenzano anche limitando le scelte e quindi l’idea dell’emancipazione della donna. Io credo nell’uomo, credo che la differenza la faccia ogni singolo essere umano: ogni persona può fare la differenza per sé e per la propria famiglia e ahimè anche in negativo. Conosco uomini edotti, ma che per le proprie compagne hanno imposto un profilo dimesso».

Come ti spieghi dunque quest’ondata di violenza sulle donne?

«Sarò impopolare ma io sono convinta che qualunque donna, anche la più sottomessa, conosca esattamente la situazione amorosa in cui si infila e che fino a un certo punto la accetti per paura dei giudizi, perché ha dei figli, per status, per non privarsi di un uomo che comunque socialmente rappresenta qualcosa. Questo è il problema. Così all’inizio accetta un lento stillicidio di privazioni (di attenzioni, di importanza, di riconoscimenti) e poi si trova all’angolo in situazioni più grandi di lei. Ma si parte sempre da un “va bene”, “cambierà”, “è un bel ragazzo, è considerato”, “mi mantiene”. È un ingannevole compromesso che porta una donna a vivere gradualmente una vita non sua, costringendola a ricorrere a espedienti per sopravvivere: il prosciutto negli occhi, il ripetuto perdono, il dormire in camere separate… sono scelte. Probabilmente se sei stata cresciuta in una famiglia che non ti ha consegnato la libertà e la fiducia di sperimentare “oltre” ma ti ha tarpata, questo ti predispone già a una naturale sottomissione. Comunque, è bene essere chiari: di donne morte per mano del compagno ci sono sempre state in tutto il mondo, solo che venivano occultate o le cause mistificate perché nessun marito voleva l’onta del titolo di “uomo violento”, nessuna famiglia voleva questa vergogna. Ora i mass media ne parlano di più».

Oltre alla scelta consapevole, secondo te, cos’altro contribuisce a questa deplorevole tendenza?

«Stupefacenti, alcool e cocktail pericolosi. Molti omicidi avvengono in un impeto d’ira o di depressione e spesso questi stati emotivi sono alterati. Capita che una donna accetti per molti anni una situazione di abnegazione, poi però succede qualcosa, la famosa “goccia che fa traboccare il vaso” e lei dice basta. Quel rifiuto non verrà letto come scelta obiettiva di libertà ma come sfida, perché se una donna ha sempre accettato non si comprende perché di colpo non le vada più bene. Quindi l’uomo vede quell’azione di libertà come provocazione, come sopraffazione. È un po’, semplificando, come un cane a cui è stato sempre dato l’osso e poi glielo si tira via: ti azzanna credendo pure di avere ragione. È ovvio che tutto questo è profondamente sbagliato e distorto».

Quindi credi ci sia una tendenza latente alla violenza in questi uomini?

«Come in tutti gli essere umani. Tutti noi possiamo avere reazioni incontrollate e di panico. Violenza, panico, ansia, mescolate alle sostanze stupefacenti o a emotività irrisolte diventano tante micce. La casistica dimostra che non stiamo parlando di uomini incapaci di intendere e di volere, anzi, sono capacissimi e nei loro atti violenti vi è la predeterminazione. Se si crea la dinamica della “sfida-reazione”, un uomo incontrollabile e alla ricerca della vendetta può trasformarsi in un carnefice, se non di femminicidio sicuramente di qualcosa che lede la libertà della compagna come ad esempio lo stalking».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Saluto Laura che ha un appuntamento di lavoro e mi rivolgo alla signora Giorgia. Altri argomenti, altro approccio e altro periodo storico. Anche lei, come Laura, ha un piglio deciso. Osservo le mani e il collo: non un gioiello, nessuno sfarzo né fronzolo. È semplice, essenziale ma ricca di memoria.

Signora Giorgia, lei si è molto raccontata pubblicamente per ricordare il suo vissuto tra le dittature nazifasciste e comuniste, ma per chi non la conoscesse, racconti chi è.

«Io sono una donna che proviene dalla classe borghese e questo per me è sempre stato un vanto perché la borghesia mi ha dato accesso alla cultura. Io sono trentina di nascita, esattamente di Rovereto, mio nonno era trentino mentre mia nonna era triestina di una importante famiglia di commercianti. Mia mamma invece polacca di Leopoli, che allora era la capitale della Galizia austriaca. Arrivammo a vivere a Gorizia quando io avevo 7 anni e mio padre, medico, dopo la morte di mio fratello nel ’29 per una grave malattia, da Lentigione di Brescello in Emilia Romagna, si trasferì qui a seguito di un concorso per ufficiale sanitario. Io ero una bambina che faceva la seconda elementare».

Com’era Gorizia in quegli anni (esattamente nel 1930)?

«Gorizia era Italia. Qui non c’era il fascismo che avevo conosciuto in Emilia Romagna. Si sentiva che l’italianità si era consolidata nell’ultimo decennio e la presenza del Comando Corpo d’Armata ne rinforzava l’idea: Generali, Colonnelli con a seguito le mogli di un certo rango. Io arrivavo da un paesino agricolo immerso nella nebbia della pianura padana. Mi accolse invece una Gorizia luminosa, signorile, elegante, spazzata dal vento. Qui non si vedevano più le cicatrici della guerra passata, le ricostruzioni erano già consolidate, si viveva bene, si respirava la stabilità della Patria».

La sua famiglia ha una storia piena di violenze subite sia da parte dei comunisti sia dei nazi-fascisti e di questo ne ha raccontato nel libro Ricordi vivi di un passato lontano a cura di Laura Marangon. Ma fra tutti i ricordi qual è il più vivo?

«La deportazione di mio padre. Era mattina presto, arrivarono i comunisti alla mia porta e me lo portarono via. Questo evento mi ha sdoppiato la vita perché non avere una tomba su cui piangere significa non trovare mai la pace, significa domandarsi sempre quando è morto e come. L’ho cercato a lungo e ho le prove che lui sia rimasto vivo dopo la deportazione per oltre un anno a Lubiana, era vivo e imprigionato come tanti goriziani che hanno subito la stessa sorte, oltre seicento. Soffro tremendamente per la disparità di trattamento che viene riconosciuto oggi dalla mia Italia ai caduti della dittatura nazi-fascista rispetto a quelli della dittatura comunista, ci sono morti di serie a e di serie b e a me tocca piangerli entrambi dato che pure la nonna, dalla parte paterna, fu deportata dai nazisti ad Auschwitz senza aver fatto più ritorno. Ma mio padre è il ricordo che mi ossessiona e che mi costringe a un pianto continuo, intimo e silenzioso, perché dopo che hai gridato ovunque l’importanza della ricerca della verità, e non hai avuto seguito, il tuo lutto te lo devi portare da sola, senza ossessionare gli altri. Ricordiamoci poi che l’epitaffio qui a Gorizia l’abbiamo eretto noi cittadini vittime della deportazione: ogni anno il Presidente della Repubblica ricorda il sacrificio dei partigiani che si opposero al regime nazi-fascista, ma quelle sciagure maturarono durante la guerra e durante la guerra succedevano cose tremende (alza la voce commuovendosi, ndr). La deportazione che mi strappò mio padre, invece, accadde in tempo di pace: nello stesso giorno infatti che morì Roosevelt, si incontrarono Stalin e Tito e si spartirono le destinazioni: Stalin verso Berlino e Vienna, Tito arrivò a Trieste e nella Venezia Giulia con la sua dittatura appoggiata dai comunisti italiani. Il 3 maggio 1945 iniziarono le deportazioni da Gorizia».

La sua impotente sofferenza è insopportabile, come poterla quantomeno convogliare in un messaggio da lasciare a tutte le nuove generazioni?

«Il messaggio è quello dell’importanza di raccontare la verità. Bisogna insegnare la storia ai nostri ragazzi senza essere condizionati dalle tendenze né di destra né di sinistra. E poi che il legame con i propri genitori, con mio padre in questo caso, è un legame indissolubile. Lui era un carducciano fervente, un medico stimato, un grande uomo che non lesinò aiuto ai partigiani che bussavano a questa porta coi piedi torturati dai tedeschi (battuti con i bastoni). Rischiava la vita eppure lo faceva, oggi lo chiameremmo eroe eppure non ha neppure una tomba».

La vita le ha tolto molto ma le ha anche dato tantissimo come la sua famiglia ricca di brillanti avvocati di cui essere orgogliosa, Laura in primis. A Natale com’è pranzare con tanti avvocati a tavola? Parlano a colpi di commi e clausole?

«(ride, finalmente) Significa chiedere ripetutamente di non parlare di lavoro per goderci insieme quei momenti preziosi».

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