“Parole povere”, un delicato capolavoro

imagazine vanni veronesi

Vanni Veronesi

18 Gennaio 2014
Reading Time: 3 minutes

Magico incontro fra poesia e cinema

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Trieste, teatro Miela: si spengono le luci della sala, si accende il grande schermo.

 

Sussurrata, quasi un sibilo, si sente la voce di Pierluigi Cappello mentre tutto è ancora avvolto dal nero: inizia così, in medias res, il docu-film di Francesca Archibugi Parole povere, dal titolo di una lirica memorabile di Cappello, in cui ogni strofa inizia «dalla più impersonale delle parole: “uno”». E come in una litania di personaggi appartenenti a quella Chiusaforte che fu, in quella vita arcaica del Friuli rurale pre-terremoto, la poesia snocciola fatti, luoghi, ricordi di un bambino che, negli anni dell'adolescenza, sarebbe finito su una sedia a rotelle dopo uno spaventoso incidente.

A questo evento, che nella vita di Cappello è la svolta, Francesca Archibugi arriva piano, con la delicatezza – il termine chiave di tutto il film – che le è sempre stata propria, fin dai tempi di Verso sera (1990), quando dirigeva Marcello Mastroianni alla prese con la nipotina. E come arriva, mostrando corsie d'ospedale, medici e una lapide in ricordo di chi, quel tragico giorno, non ci rimise le gambe bensì la vita, così se ne va, tornando nei rumori, e soprattutto nei silenzi, della quotidianità di Cappello. Che è fatta di letture continue, immagini e parole da fissare su qualsiasi superficie capiti a tiro, lunghe meditazioni per arrivare a quell'entità sospesa fra il pensato e il detto, fra il brusio interiore e l'esprimibile chiamata “poesia”.

La telecamera della Archibugi racconta tutto ciò come lo farebbe un amico intimo del poeta: lo sguardo è naturale, senza alcuna posa “per il cinema”. E mentre scorrono i volti di amici e colleghi di Cappello, da Gian Mario Villalta a Paolo Maurensig, da Tullio Avoledo a Battista Lena, da Eraldo Affinati a Stas Gawronski, ci sembra di essere con tutti loro a tavola, oppure sul palco durante una prova prima di uno spettacolo di letture e musica, o ancora seduti al tavolo di un bar a conversare di letteratura.

Sullo sfondo, Chiusaforte e il Friuli del '76, con la celebre registrazione di Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd, interrotta dalla scossa di terremoto che fa saltare la musica e consegna alla storia un documento unico di quei 57 fatali secondi. Ma anche il Friuli di oggi, dove il verde delle montagne selvagge convive con le ferite inferte dal cemento e da uno sviluppo troppo veloce che ha spazzato via una civiltà secolare: il Friuli sezionato dalla penna chirurgica di Cappello nella sua poesia L'autostrada, dove ogni parola è un'adesione assoluta al reale, testimonianza, direbbe Fulvio Tomizza, di «ciò che ho visto e vissuto».

E poi le foto, nel bianco e nero che significa “verità”, i video d'epoca, e Cappello che ricorda la figura del padre, comunista “ingenuo” che credeva ciecamente in tutto ciò che arrivava dalla Russia: un'ingenuità figlia di tempi perduti, di quando «le cose erano vere per la prima volta, nell'innocenza». Un susseguirsi di memorie che costuiscono il mondo interiore di un poeta capace di uscire dalle gole delle sue montagne con il volo altissimo e lontano dei suoi versi. Di cui Francesca Archibugi, con la densa leggerezza di Parole povere, si è fatta interprete raffinata e preziosa.

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