L’orrore e la memoria

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redazione

27 Gennaio 2020
Reading Time: 7 minutes

Risiera di San Sabba

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Camminando lungo il corridoio di ingresso ideato dall’architetto Romano Boico, un brivido attraversa la schiena. Le mura laterali alte undici metri sembrano catturare tutto l’ossigeno attorno, rendendo lento e pesante l’incedere. Un tratto di poche decine di metri nel quale il rapporto spazio temporale si annulla, quasi a condurre verso un’altra dimensione. Un percorso compiuto ogni anno da migliaia di visitatori per accedere all’unico campo di concentramento in Italia dotato di forno crematorio durante la dominazione nazifascista.

A 75 anni dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, la Risiera di San Sabba a Trieste – monumento nazionale dal 1965 – ricorda a tutti l’orrore che l’uomo è stato capace di perpetrare.

La Risiera

Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel 1898 nel periferico rione di San Sabba – venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943. Verso la fine di ottobre, venne strutturato come Campo di detenzione di polizia, destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.

Nel sottopassaggio, il primo stanzone posto alla sinistra di chi entra era chiamato “cella della morte”. Qui venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati a essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri destinati alla cremazione.

Proseguendo sempre sulla sinistra, si trovano, al pianterreno dell’edificio a tre piani in cui erano sistemati i laboratori di sartoria e calzoleria, le 17 micro-celle in ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri: tali celle erano riservate particolarmente ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, talora settimane.

Le porte e le pareti di queste anticamere della morte erano ricoperte di graffiti e scritte che l’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, e l’incuria degli uomini hanno in gran parte fatto sparire. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez (ora conservati dal Civico Museo di Guerra per la Pace a lui intitolato proprio Trieste), dove se ne trova l’accurata trascrizione.

Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età, compresi bambini di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare.

Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata da una piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio. L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Un canale sotterraneo, il cui percorso è pure segnato dalla piastra d’acciaio, univa il forno alla ciminiera. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino. Dopo essersi serviti, nel periodo gennaio-marzo 1944, dell’impianto del preesistente essiccatoio, i nazisti lo trasformarono in forno crematorio, in grado di incenerire un numero maggiore di cadaveri, secondo il progetto di Erwin Lambert, che aveva già costruito forni crematori in alcuni campi di sterminio nazisti in Polonia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Tra le macerie fu inoltre rivenuta la mazza la cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo (l’originale è stato trafugato nel 1981). Sul tipo di esecuzione in uso, le ipotesi sono diverse e probabilmente tutte fondate: gassazione in automezzi appositamente attrezzati, colpo di mazza alla nuca o fucilazione. Non sempre la mazzata uccideva subito, per cui il forno ingoiò anche persone ancora vive. Fragore di motori, latrati di cani appositamente aizzati, musiche, coprivano le grida e i rumori delle esecuzioni.

Il fabbricato centrale, di sei piani, fungeva da caserma: camerate per i militari SS tedeschi, ucraini e italiani (questi ultimi impiegati in Risiera per funzioni di sorveglianza) nei piani superiori, cucine e mensa al piano inferiore, ora adattato a Museo.

L’edificio è oggi adibito al culto senza differenziazione di credo religioso. All’esterno, a sinistra, il piccolo edificio – adesso adibito ad abitazione del custode – costituiva il corpo di guardia e abitazione del comandante. A destra, nella zona attualmente sistemata a verde, esisteva un edificio a tre piani con uffici, alloggi per sottufficiali e per le donne ucraine.

Le vittime

Allo stato attuale della ricerca storica non si può fornire un dato preciso né di quanti prigionieri transitarono effettivamente per il Polizeihaftlager della Risiera, né di quante furono le vittime. Nel corso del processo per i crimini commessi alla Risiera di San Sabba, svoltosi presso la Corte d’Assise di Trieste dal 16 febbraio al 28 aprile 1976, furono ipotizzate “non meno di 2.000 vittime”, ma alcuni storici indicano un numero superiore, tra 4.000 e 5.000. Il giornalista del quotidiano sloveno Primorski Dnevnik, Albin Bubnič, al processo presentò ai giudici un elenco parziale di 317 nominativi di persone soppresse nella Risiera, che attualmente può essere elevato a 349. Molti venivano trasferiti dalle carceri cittadine del Coroneo o dalla sede del comando della Gestapo e SIPO-SD (Sicherheitspolizei-Sicherheitsdienst) in piazza Oberdan; molti di loro giungevano direttamente dai luoghi dove erano stati catturati. Alla soppressione dei reclusi erano addette le SS e i militari ucraini al loro servizio.

Il Litorale Adriatico

Dopo l’8 settembre 1943 la Venezia Giulia cessò di fatto di far parte dello Stato italiano e, con la costituzione della zona di operazione dell’Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico), divenne un territorio direttamente amministrato dal Reich.

Il governo del Litorale venne affidato da Hitler al Gauleiter della Carinzia, Friedrich Rainer, che assunse in data 1 ottobre 1943 tutti i poteri politici e amministrativi. Prima della Seconda guerra mondiale gli ebrei triestini erano circa 5.000. Dopo le leggi razziali del 1938 e l’istituzione anche a Trieste di uno dei famigerati “Centri per lo studio del problema ebraico” (erano quattro in tutta Italia), molti ebrei decisero di emigrare all’estero. Ciò nonostante i nazisti riuscirono a deportare nei campi di sterminio più di 700 ebrei triestini. Di questi solo una ventina sopravvissero e fecero ritorno. Nella Risiera, inoltre, accanto agli ebrei triestini furono imprigionati e poi deportati anche molti ebrei catturati in Veneto, in Friuli, a Fiume e in Dalmazia.

Il controllo poliziesco, la repressione politica, razziale, antipartigiana, vennero affidati alla supervisione delle SS il cui comandante, Odilo Lotario Globocnik, triestino di nascita, legato a Himmler e già organizzatore dei massacri di oltre due milioni e mezzo di ebrei in Polonia (Aktion Reinhard), si installò a Trieste con un nutrito seguito di “professionisti” della morte, già distintisi in modo sinistro nelle varie operazioni di sterminio in Germania, Polonia, U.R.S.S. e nei campi nazisti di Belzec, Sobibor e Treblinka.

Con Globocnik arrivarono a Trieste gli uomini dell’Einsatzkommando Reinhard, novantadue specialisti tra i quali numerose SS ucraine, uomini e donne. Pochi giorni dopo l’8 settembre arrivò a Trieste Christian Wirth, con alcuni suoi uomini che avevano partecipato all’Aktion Tiergarten 4, cioè, fin dal 1939, all’eliminazione di “malati inguaribili” tedeschi e successivamente di prigionieri dei campi di concentramento segnalati come “inguaribili” con false certificazioni dai medici di campo.

L’Einsatzkommando Reinhard costituì territorialmente diversi uffici contrassegnati dalla sigla R. Il gruppo che operava a Trieste aveva la sigla R1, quello che operava a Udine ha la sigla R2, quello di Fiume aveva la sigla R3. La sigla è impressa sui documenti e sulle celle della Risiera. Dopo la liberazione e sino al 1965, la Risiera diventò campo di raccolta per profughi in fuga dai Paesi oltre la “cortina di ferro”.

Il 15 aprile 1965 il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat dichiarò la Risiera di San Sabba Monumento Nazionale per il suo rilevante interesse storico e politico. Per la realizzazione del Museo della Resistenza della Risiera di San Sabba furono invece indetti dal Comune di Trieste tra il 1966 e il 1969 due concorsi. A risultare vincitore fu il progetto dell’architetto triestino Romano Boico, che fece costruire – tra le altre cose – le mura cementizie d’ingresso.

La cerimonia di inaugurazione del Monumento Nazionale della Risiera di San Sabba si svolse il 24 aprile 1975.

Il museo

Il Civico Museo della Risiera di San Sabba e l’adiacente percorso fotografico-documentario della mostra storica (realizzata a cura di Elio Apih nel 1982 e ampliata nel 1998) illustrano, attraverso riproduzioni di documenti e testimonianze di vario tipo, la storia della Risiera, ricostruendo al contempo un quadro delle vicende storiche, politiche e militari dell’intera regione durante la prima metà del Novecento.

Grazie ad alcune importanti donazioni, dal 27 gennaio 2002, Giorno della Memoria, il Museo ha mutato la sua originale connotazione didattica ed è divenuto anch’esso a tutti gli effetti un luogo di conservazione della memoria, ove si espongono testimonianze tangibili e dirette della sofferenza e della tragedia umana.

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