Mi ha tradito! Sì, però…

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Massimiliano Sinacori

10 Maggio 2019
Reading Time: 4 minutes

Affectio coniugalis

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Il diritto di famiglia è sempre materia complessa da trattare perché si inserisce, giocoforza, negli aspetti più intimi di una coppia, toccando corde tra le più delicate: dal tradimento all’affido dei figli, dagli assegni di mantenimento all’assegnazione della casa coniugale. Fallita l’esperienza della vita in comune tutto, dal patrimonio agli affetti, dai torti ai rancori, diventa occasione di litigio.

L’articolo 143, comma secondo, codice civile dispone che “dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”.

Questa comunione materiale e spirituale che deve esistere tra i coniugi viene chiamata affectio coniugalis, che, insieme alla coabitazione, costituisce l’essenza del matrimonio. Possiamo quindi dire che questa norma individua i pilastri su cui si fonda la famiglia, e di conseguenza il venir meno di anche uno solo di questi elementi conduce, quasi inevitabilmente, alla conclusione del rapporto.

Il divorzio (anche se per correttezza si dovrebbe sempre distinguere tra scioglimento del matrimonio e cessazione dei suoi effetti civili) segue alla separazione personale dei coniugi ed è in questa fase che inizia il momento difficile teso alla regolazione dei rapporti economici. È chiaro che in caso di separazione consensuale non ci sono molti problemi: i coniugi, tra loro, trovano un accordo che viene poi, una volta esperito il tentativo di conciliazione e tenuto conto dell’interesse dei figli, omologato dal tribunale. Questo avviene generalmente nei casi in cui alla fine della vita in comune si giunge senza rancori reciproci o, perlomeno, quando questi non impediscono di mantenere uno spirito conciliativo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Diversa è l’ipotesi della separazione giudiziale, quella cioè in cui i coniugi non riescono a trovare un accordo tra di loro. In questo caso la separazione è pronunciata dal giudice che cerca di comporre le diverse volontà.

In questo contesto dispiega la sua efficacia l’art. 151, comma secondo, cod. civ. il quale stabilisce che “il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.

In poche parole, il giudice cerca di capire se i comportamenti di un coniuge in particolare hanno portato alla separazione. Perché questo è importante? Perché la legge, e più precisamente l’art. 156 cod. civ., prevede che “il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.

Dunque capire se la separazione è addebitabile all’uno o all’altro coniuge è fondamentale perché ad esempio ci permette di stabilire se sussista o meno il diritto a percepire, oltre agli alimenti, un assegno di mantenimento.

È chiaro che la violazione del dovere di fedeltà costituisce motivo di addebito per la separazione, tuttavia la giurisprudenza sta adottando atteggiamenti sempre più elastici nell’imputazione dell’addebito, valutando, caso per caso, il peso di comportamenti contrari ai doveri che il matrimonio impone.

Così, ad esempio, già nel 2013 la Corte di cassazione con ordinanza n. 16285, aveva stabilito che l’abbandono della casa coniugale non fosse rilevante ai fini dell’addebito perché era già venuta meno l’affectio coniugalis.

A proposito di violazione del dovere di fedeltà invece, più recentemente, la Corte di cassazione ha affermato che “la persistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto rende irrilevante la successiva inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale ai fini della dichiarazione di addebito della separazione” (Cassazione Civile n. 1715 del 23.1.2019).

Questa decisione, che peraltro conferma un orientamento che si stava consolidando, riveste particolare importanza perché tratta della fedeltà, in qualche modo riducendone l’importanza, in un momento storico dove le possibilità di tradire sono sempre più amplificate. Quello che la Cassazione vuole dire è che il tradimento assume un peso diverso a seconda che avvenga in un contesto di serenità della vita coniugale oppure in un momento dove la crisi del rapporto è irrimediabilmente in essere. Dove, nei fatti, i pilastri del matrimonio si sono già sgretolati.

Dobbiamo però porci una domanda: quando può dirsi essere venuto meno l’affectio coniugalis? Sembra strano ma la risposta è tutt’altro che semplice. Ad esempio, il tradimento che segue a una crisi temporanea della coppia è irrilevante ai fini dell’addebito all’atto della separazione o la causa di questa? Che dimensione deve avere la crisi per rendere irrilevanti, ai fini dell’addebito, eventuali successive relazioni extraconiugali?

Tutte domande cui è difficile, se non impossibile, dare una risposta in generale ma che necessitano di un’attenta analisi caso per caso. Da questa pronuncia della Corte, ragionevole sotto molti punti di vista, deriva però un ulteriore motivo di scontro tra le parti, volto alla ricerca dell’esatta individuazione del momento in cui l’affectio coniugalis sia venuta meno e di come il tradimento si ponga in relazione ad esso. Testimonianze di amici e confidenti, messaggi di Whatsapp e commenti su Facebook: tutto confluirà nel processo e sarà filtrato dalle norme della procedura civile, rendendo molto difficile, per coloro che non hanno una buona esperienza di contenzioso matrimoniale, azzardare giudizi prognostici sul possibile risultato.

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