Cazzuola e bicicletta

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Michele D'Urso

5 Settembre 2017
Reading Time: 6 minutes

Valter Candusso

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Oggi, quando si pensa allo sport si pensa al professionismo, ai soldi, al successo, ma non è stato sempre così. Valter Candusso, nativo delle colline moreniche friulane, Pers di Majano per la precisione, classe 1945, è un eroe di quei tempi, di quando lo sport significava soprattutto gioia di muoversi. «Sono sempre stato molto attivo – racconta l’interessato – magari si potrebbe pensare che ciò derivi dal mio segno zodiacale, ma mia madre, invece, diceva che sono così perché sono nato il giorno in cui è saltata in aria la polveriera di Osoppo».

Effettivamente lei, anche se per pochi mesi, è un figlio della guerra…

«Miseria nera, diciamolo. O si comprava il cibo o si comprava altro; anche un pantalone nuovo impegnava una rinuncia all’alimentazione. Quando chiesi a mio papà se mi comprava la bicicletta lui, mortificato, rispose: “Mi dispiace figlio mio, ma ho appena comprato la bicicletta per tua sorella che così può andare a lavorare”».

Quanti anni aveva quando fece questa richiesta?

«Sedici, e lavoravo già da tre anni a tempo pieno come muratore. Le paghe erano basse, per racimolare qualcosa in più dovevi praticare il ‘cottimo’, forma di lavoro che poi è divenuta fuori legge. Per questo a diciannove anni emigrai in Germania, a Monaco di Baviera. Lì, come oggi d’altronde, i lavoratori sono trattati meglio».

Però lei è anche un emigrante di ritorno…

«La Germania è la mia seconda patria perché mia moglie Traudi è di Monaco. L’ho conosciuta durante il lavoro: lei era disegnatrice edile e quindi posso dire che non mi sento estraneo da nessuna parte. Tornare a vivere in Italia è stata una scelta, forse sbagliata o anche no, ma pur sempre una scelta; nessun obbligo».

Torniamo alle due ruote, quando ha cominciato a correre in bici?

«Da ragazzo, non possedendo una bici, usavo quella di mia madre per fare le corse con gli amici e giocavo a pallone, perché lì potevi anche senza scarpe. In Germania giocavo a calcio nella squadra degli emigranti, la TSV Italia, che era al livello della vecchia Serie C italiana. Però partecipavamo al campionato tedesco, quindi quando venimmo a giocare a Monfalcone in una sfida internazionale eravamo stranieri… Ho cominciato a correre in bicicletta dopo il matrimonio, quando siamo venuti ad abitare a Pers, per una esplicita richiesta di mia moglie».

A sua moglie piace il ciclismo?

«Non proprio; trova il calcio un mondo di ‘sostenuti’, specialmente per come lo intendiamo noi italiani, mentre a lei piace molto la gente umile, che non ostenta nulla. La sincerità è una delle sue qualità; una delle tante che mi ha fatto innamorare di lei. Come la generosità, ad esempio: dopo il terremoto, mio cognato, il fratello di Traudi, raccolse assieme a lei dei fondi per poter costruire una casa a chi era rimasto senza».

Il vostro è stato un classico ‘colpo di fulmine’?

«In un certo senso sì, ma solo grazie a un amico-collega tedesco, un certo Maximilian, che fece da cupido, riuscii a fidanzarmi con lei. Verso noi emigranti c’era un po’ di avversione, in tanti casi anche giustificata, ma alla fine il 24 maggio del 1969 ci siamo sposati e la sua unica richiesta per venire a vivere in Friuli è stata questa: “Valter, va ben tutto, ma in Italia smetti di giocare a pallone”».

All’amor non si comanda…

«All’amore si obbedisce. Visto che facevo sempre il muratore e che lavoravo tanto, sempre con quel metodo ‘poco legale’, rinunciando alla paga, il giovedì decisi di lavorare solo mezza giornata per allenarmi, mentre la domenica gareggiavo».

Solo un allenamento a settimana?

«La domenica vincevo lo stesso… In paese fondammo il Gruppo Sportivo Pers e cominciammo a gareggiare tutte le domeniche; poi, per dissapori interni, venne fondato il Friul Stella Pers e continuammo avanti. Si correva nei Dilettanti; io ci davo dentro al massimo, tanto che nel 1974 venni convocato nella Nazionale Italiana Dilettanti per partecipare al Giro di Serbia».

Non aveva ancora trent’anni.

«Quella fu la mia ‘opera omnia’. Ne conservo un ricordo molto forte. Erano dieci tappe di circa 160 km giornalieri, e faceva così caldo che l’asfalto si attaccava ai tubolari. Alla fine delle tappe crollavo sulla brandina da campo, perché si  dormiva in tenda e non in hotel come i professionisti; gli altri componenti della Nazionale mi prendevano in giro perché prendevo subito sonno. Ma io ero distrutto; in una tappa avevo addirittura perso la borraccia e non ero bravo come loro a farmi da solo le flebo per recuperare la fatica».

Flebo?

«Sì, ma niente di illegale. Almeno così dicevano loro».

Non mi dica di non avere mai pensato che quello non fosse doping…

«A me non interessava e tanto bastava. Qualcuno mi chiedeva cosa prendessi per andare così forte, e quando rispondevo che portavo con me solo i Pavesini con la marmellata preparati da mia moglie ci rimanevano male… Ma era la verità! I Pavesini si sciolgono facilmente, così non avevo bisogno di bere litri di acqua».

Se il giovedì pioveva, come si allenava?

«D’inverno praticavo anche tanto ciclocross. Se poi proprio nevicava facevo qualcosa sui rulli. Non mi interessava solo il ciclismo: ad esempio ho anche provato con la scultura e la pittura, ottenendo qualche risultato».

Ha tenuto qualche mostra dei suoi lavori?

«Sì, ho esposto dei miei quadri».

Torniamo al ciclismo, che fino al 2000 l’ha vista protagonista con la conquista di vari titoli regionali e partecipazioni a classiche dilettantistiche come la Settimana Bergamasca…

«Oggi si chiama Settimana Lombarda ed è aperta anche ai professionisti, mentre una volta era solo per dilettanti. C’era ugualmente gente fortissima, che vedevi in televisione lottare contro Merckx e Gimondi. E io, per la curiosità di vederli dal vivo, ero costretto a fare una gara nella gara per stare alla loro ruota».

Oltre a quelli dei campioni, alla memoria salgono anche i nomi di gregari con le gambe d’acciaio, come Adorni e Bitossi.

«In qualche modo li ho incrociati tutti. Quando Moser vinse la Coppa a San Daniele del Friuli, io ero nel gruppo; però ero l’unico ad aver lasciato il cantiere alle 15 ed essere salito in sella».

Dopo tante battaglie è arrivata anche la pensione…

«Non mi pareva vero: 43 anni di lavoro. Al mattino dovevo pizzicarmi il volto e ricordarmi che non dovevo correre a lavorare, che potevo andare in bici, a ballare con la moglie, a giocare a briscola al bar del paese. Poi, proprio dopo una notte di danze sfrenate, è arrivato il signor ‘Ictus’ e il mio lato sinistro si è paralizzato. Potrei tentare di fare qualche giro con un triciclo, ma è troppo pericoloso e ancora non ci sono tante ciclabili vicino a casa. Ma la mia passione è sempre lei, la bicicletta e gli amici che mi ha fatto conoscere. Tanti ragazzi austriaci correvano con il nostro gruppo sportivo e ancora oggi vengono a trovarmi e a portarmi qualche buona birra».

Così si spiega anche la mostra dei quadri.

«Sono nato con la cazzuola in mano per cui ho solo cambiato strumento. Dipingere mi dà una pace che mi fa sopportare la malattia, mi fa conoscere mondi nuovi. La scultura invece l’ho dovuta abbandonare perché la Camusso, la mia mano sinistra, non vuole sentirne di funzionare».

Non le manca certo l’ironia…

«Ho avuto tanto; una moglie che mi ama e due figli stupendi, Stefan e Maximilian».

Una vita piena la sua, perché nonostante le avversità, dalla povertà alla malattia, non si può certo dire che siano mancati i successi.

«Effettivamente, il giorno in cui saltò in aria la Polveriera di Osoppo, io c’ero!» 

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