Il buco nero ha due o tre dimensioni?

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redazione

26 Maggio 2016
Reading Time: 4 minutes

Studio innovativo della Sissa di Trieste

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Di principio niente che entri in un buco nero può uscire dal buco nero. Ciò complica notevolmente lo studio di questi corpi misteriosi sui quali, a partire dal 1916, anno in cui sono stati ipotizzati come conseguenza diretta della Teoria della Relatività di Einstein, generazioni di fisici hanno dibattuto. C’è però un certo accordo nella comunità scientifica sul fatto che essi possiedano un’entropia, perché altrimenti la loro esistenza violerebbe la seconda legge della termodinamica. In particolare Jacob Bekenstein e Stephen Hawking hanno suggerito che l’entropia – che in maniera molto generale possiamo considerare come una misura del disordine interno di un sistema fisico – del buco nero sia proporzionale alla sua area, e non al suo volume come sarebbe intuitivo supporre. Da questa considerazione ha origine anche l’ipotesi “olografica” dei buchi neri, che (descrivendola molto grossolanamente) suggerisce che ciò che ci appare tridimensionale potrebbe essere in realtà un’immagine proiettata su un lontano orizzonte cosmico a due dimensioni, proprio come un ologramma che pur essendo un’immagine bidimensionale ci appare tridimensionale.

Poiché non possiamo guardare dentro l’orizzonte degli eventi (il limite esterno del buco nero), i microstati interni che definiscono l’entropia sono inaccessibili, e dunque com’è possibile calcolare questa misura? L’approccio teorico di Hawking e Bekenstein è semiclassico (una sorta di ibrido fra fisica classica e meccanica quantistica) e introduce la possibilità (o la necessità) di adottare un approccio di quantum gravity in questi studi, in modo da poter ottenere una comprensione più fondamentale della fisica dei buchi neri.

La lunghezza di Planck è la dimensione (piccolissima) alla quale lo spazio-tempo smette di essere continuo come lo vediamo noi, e assume una grana discreta, fatta di quanti, gli ‘atomi’ dello spazio-tempo. l’Universo a questa dimensione è descritto dalla meccanica quantistica. La quantum gravity è l’ambito che studia la gravità nel quadro di riferimento della meccanica quantistica: questa forza è infatti un fenomeno molto ben descritto nell’ambito della Fisica Classica, ma non è ancora del tutto chiaro come si comporti alla scala di Planck.

Daniele Pranzetti e colleghi in un nuovo lavoro pubblicato su Physical Review Letters propongono un risultato importante che nasce dall’applicazione di un formalismo di seconda quantizzazione della Loop Quantum Gravity (LQG). La LQG è un approccio teorico al problema della quantum gravity, e la Group Field Theory è il “linguaggio” con cui la teoria viene applicata in questo lavoro.

“L’idea sulla quale ci siamo basati è che le geometrie classiche omogenee emergano da uno stato condensato dei quanti di spazio introdotti in LQG per descrivere geometrie quantistiche ” spiega Pranzetti. “In questo modo abbiamo ottenuto una descrizione degli stati quantistici del buco nero, in grado anche di spiegare la fisica “continua”, ovvero quella dello spazio tempo a noi familiare”.
 
Condensati, fluidi quantistici e l’universo come ologramma
Un “condensato” è una collezione di ‘atomi’, in questo caso si tratta di quanti di spazio, che hanno tutti le stesse proprietà, e quindi pur essendo tantissimi, è possibile tuttavia descrivere il loro comportamento collettivo in maniera semplice, facendo riferimento alle proprietà microscopiche di una sola particella. Ecco che allora appare più chiara l’analogia con la termodinamica classica: come alla nostra scala i liquidi, pur composti da un numero enorme di atomi, ci appaiono come materiali continui, allo stesso modo nello scenario della quantum gravity dagli atomi costituenti fondamentali dello spazio emerge una sorta di fluido, ossia lo spazio-tempo continuo. Una geometria continua e omogenea (come quella di un buco nero a simmetria sferica) può, come suggeriscono Pranzetti e colleghi, essere descritta come un condensato, il che rende più maneggevole il calcolo matematico sottostante, pur tenendo conto di un numero a priori infinito di gradi di libertà.

“Abbiamo così potuto usare un modello più completo e ricco di quanto sia stato fatto in passato nell'ambito della LQG, ottenendo un risultato molto più realistico e robusto”, continua Pranzetti. “Questo permette di risolvere delle ambiguità che affliggevano i risultati precedenti, dovute al confronto di questi modelli semplificati con i risultati dell'analisi semi-classica, come quella fatta da Hawking e Bekenstein”.  Un altro aspetto importante del lavoro di Pranzetti e colleghi è che propone un meccanismo concreto in supporto all’ipotesi olografica, secondo cui la tridimensionalità del buco nero potrebbe essere solo apparente: tutta la sua informazione potrebbe essere in realtà contenuta su una superficie bidimensionale, senza  bisogno di dover investigare la loro struttura interna  (da qui il legame fra l’entropia e l’area del buco nero e non il volume).

Gli altri due autori dello studio sono  Daniele Oriti, del Max Plank Instiutute for Gravitaional Physics di Potsdam in Germania, e Lorenzo Sindoni, ex ricercatore della SISSA, ora anche lui al Max Planck di Potsdam.

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