Un uomo della Bassa

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Ferruccio Tassin

13 Dicembre 2021
Reading Time: 6 minutes

Celestino Cocolin (1926 – 2003)

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Il termine “popolare”, nel significato, spazia come la spera di un amperometro. Nonostante il rischio, in questo caso, vale la pena di definire così l’impegno di vita che mostrò un personaggio della Bassa scomparso dopo più di novant’anni trascorsi su questa terra. Nove i decenni, tre gli anni, di Celestino Cocolin, che, alla fine del suo tempo, si è presentato nella parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo a Saciletto, come nei momenti topici della vita.

Oltre che per le braccia aperte di Dio, la chiesa è un vero abbraccio, di rara eleganza, in un barocco unitario e parlante con le sue espressioni di provenienza veneta. A partecipare alla messa e alle esequie, celebrate dal parroco don Giampiero Facchinetti, quel giorno, c’era gente del paese e di fuori. A fine del rito, dopo canti e preghiere, semplici e intense parole di saluto del presidente dell’ANPI Bernardino Spanghero: ha ricordato l’impegno d’una vita (fra lotta, comunità e lavoro) di “Zelestin”, l’ultimo partigiano del Comune di Ruda.

Nei nostri paesi, si potevano contare sulle dita di una mano monca, tra le persone di estrazione popolare (qui significa dalla parte dei “meno”), chi arrivava a galleggiare nella scuola oltre le elementari. Se privi di mezzi, unico modo per emergere era di essere bravi, capaci di sopportare, o amare, i sacrifici. Lui fu uno di essi, anche se non fra gli “ultimi”.  Avviamento a Cervignano (scuola, l’avviamento, sognata ancora da chi non vi avrebbe mandato mai i propri figli …), poi la Scuola Agraria di Pozzuolo.

Chi scrive ha avuto il desiderio di conoscerlo, dopo aver letto le sue poche (e di poche manciate di versi) poesie in friulano e anche friulane per contenuti, alieni da verbosità o sentimentalismo. Erano state pubblicate su di un geniale ciclostilato cui diede l’anima mons. Onofrio Burgnich (1926-2003), uno dei non pochi preti “sociali” di Ruda. Lo aveva creato guardando in avanti, per non perdere l’esperienza dei vecchi e per non far perdere le opportunità ai giovani. Ai primi di ricordare, ai secondi di partecipare e di esprimersi senza timori. Un provarci per tutti, poi sarebbero stati tempo e intelligenza a vagliare.

Vennero fuori palpitanti note di vita, pensieri, riflessioni, racconti… Tanti provarono anche con la poesia. Uno che si segnalò fu Celeste Cocolin: si capiva che, in non numerose parole, aveva molto da dire, per esperienze di vita e capacità di riflessione.

Abitava in una casa moderna fuori dal serpeggiare (con rami interni) dell’abitato di Saciletto, un paese che si può ancora immaginare antico, anche se la frenesia del nuovo ne ha cancellato numerosi segni. Un castello diventato una villa incastellata, un paio di ponti sulla roggia Brischis incorniciano scampoli di poesia della Bassa.

Forse l’avevo già visto, Zelestin, ma lo conobbi a tu per tu in una giornata di quelle che ti invitano a stare dentro e a pensare. Cadevano le foglie; il tempo era crudo; piovigginava. Lui era in una poltrona, già sofferente, ma spirito lucido, memoria integra, ancora grinta da vendere. Era assistito da un sollecito figlio, Carlo.

Non era uno qualunque nel paese, Zelestin; tra quelli dei suoi tempi, era stato l’unico a raggiungere un diploma. Lo aveva messo a frutto lavorando nell’agraria, in zuccherificio e nella sua braida extra moenia. Il padre, Guerrino, era “uno di chiesa”; lui, pareva di capire, no, ma da un argumentum ex silentio, al cugino prete ci teneva, perché, dalle foto ricordo, si vedeva quando era coi cantori (anche se non era del coro) a far festa il giorno della prima messa di don “Rino”, il cugino che sarebbe diventato arcivescovo di Gorizia, e che gli battezzò il figlio.

Suo padre aveva fatto da padrino a mezzo paese e, all’arrivo dell’Italia nella grande guerra, insieme al parroco, don Rodolfo Dilena, aveva consumato le particole restanti del tabernacolo, in quei tempi confusi e convulsi. Uomo di pace anche il padre che, nonostante il nome, aveva schivato gran parte della guerra attraversando la Russia per riportare la pelle a casa e, contrariamente alla gente del popolo di allora, nessuna simpatia gli ispirava Francesco Giuseppe: sosteneva che, se avesse voluto, la guerra avrebbe potuto evitarla.

Era uno che leggeva Zelestin; confidò che Manzoni gli era piaciuto più di Victor Hugo, che aveva consumato l’opera di Jack London e che aveva letto perfino Il Paradiso perduto di Milton. Ma si capiva che il suo interesse non veniva dal niente: già suo nonno Celeste aveva letto Genoveffa di Brabante, e Il Guerin Meschino

Impegno civile: una costante nella vita di Zelestin, a cominciare dalla lotta partigiana, fra 1944 e 1945, nel battaglione Mazzini, della divisione Garibaldi Natisone. L’aveva presa dal padre l’avversione al fascismo. Durante il ventennio, quando dalle nostre parti arrivava qualche papavero del regime, i carabinieri venivano a prendere suo padre, per ficcarlo in prigione. Erano i Carabinieri di Villa Vicentina a eseguire l’operazione. In una di quelle occasioni, quando è venuto il brigadiere della stazione di Villa, la sorella e Celeste, bambini, abbracciarono, disperatamente piangendo, le ginocchia del padre. Il brigadiere, allora, non lo portò via, gli raccomandò soltanto di non uscire di casa.

Quando seppe che il carabiniere galantuomo era morto, Celeste, in bicicletta, è andato fin nel cimitero di San Vito di Fagagna a portargli un mazzo di rose.

Era, il Nostro, un contadino competente, e per conto suo: guardava, osservava e, in base a conoscenza e osservazione, sperimentava, in modo da non appestare le piante con veleni. Da apicoltore, era un esperto del settore; voleva bene alle api, tanto da non volerle mai sfruttare fino “sul crust”.

Il nome di battaglia, da partigiano, era “Dardo”, ma nel lavoro era un riflessivo, non uno “sbracon”. Amava il suo mestiere ed era in sintonia con la natura; gli piaceva lavorare la terra, di più quando il vento fischiava, per ascoltare il vento. Era, come ha osservato Bernardino Spanghero, “un uomo di terra e di acqua”. Proprio la perfezione per uno della Bassa, una terra che vive fra terra e acqua. Proprio proprio ricordava, quand’era con la Garibaldi, fra Collio e Bassa, le fatiche col cuore in mano, spesso con l’acqua perfino nelle ossa.

Rimane il ricordo di Celestino e queste note sono perché il contesto non si perda. A ricordarlo degnamente, le sue poesie: intense, con la parola succosa e scabra, e una sintesi che racconta più di quanto non mostri.

 

Note

Testimonianze orali di Bernardino Spanghero, Danilo Tassin, e Adriana Miceu, alla quale va un grazie anche per la documentazione fotografica.

Sassîl, Soviet”, si tratta della evocazione di un importante avvenimento nella Saciletto dopo la grande guerra. Il sindacalista Giovanni Minut (1895-1967) vi fondò il primo soviet nella Bassa Friulana Orientale (ex Contea di Gorizia e Gradisca).

 

 

Al part

“Selest je ora”.

Mi svea cun la vôs

di simpri.

La roba je pronta

in ordin.

La corsa ta gnot.

Un lamp di dolôr

gi passa tai voi.

La so man si poia calma

su lis mês che guidin

gnarvosis.

Un nûl di fumata

mi plata la strada,

ma al puest lu cognossi,

par chì eri za passât:

al zaino sglonf di plastik,

lì mi eri sigurât

da bomba a man tignuda

pa l’ “Ultima Ocasiòn”.

La muart mi era compagna!

Cumò mi è compagna

la vita!

 

Estât 1921 – “Aghis”

(A Berta Tomasina che, al timp dal “Soviet”,

à partât in salv me pari, svignût sot li’

scoreadis dai fasisc’)

 

Vaî Sassîl, agnul ribel butât

tal infiàr dal Chaco e da Patagonia.

Sassîl, Soviet!! Rabia e speranza,

puìn alzât, sfida ai parôns.

Sassîl, aghis claris vaiudis

tal torgul dal Paranà e da Garonne.

Sassîl, ciamps verts pansâts cun amôr

sui palàz fats su a Toronto.

Sassîl, paradîs piardût,

a larc e lontan simpri vaiût.

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