Uno sconosciuto molto noto

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Giuliana Dalla Fior

8 Novembre 2012
Reading Time: 6 minutes
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Giuseppe Zigaina

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Nel suo studio tutto parla di pittura, di letteratura, di cultura, in un colorato disordine. Il Maestro, anche saggista e docente, parla con affabilità, con un realismo ponderato e talora sofferto, con una miriade di ricordi e di digressioni, tra i giorni dell’infanzia e quelli dell’età matura.

La pensosità del fluire delle sue parole talora affascina, talora commuove. È davvero un uomo unico e straordinario. La sua grande casa, nascosta dagli alberi e dal verde, ci ascolta silenziosa in una delle aree residenziali di Cervignano del Friuli, la sua città natale.

Perché ha scelto di vivere stabilmente qui?

«Nel 1950 ero stato invitato alla Biennale di Venezia. Lungo i viali che conducevano all’esposizione mi resi conto che gruppetti di persone, critici d’arte e non, mi guardavano stupefatti e, girandomi le spalle o con parole quasi bisbigliate, si chiedevano: “È quello Zigaina?”. Ero noto per i premi ed i riconoscimenti che già avevo ricevuto, ma si stupivano che io fossi “diverso”. In quella circostanza dissi a me stesso: “Io da Cervignano non mi muoverò più”. E da allora ho davvero vissuto fuori dal mondo, come comunemente inteso. Ho dovuto affrontare una vita come pochi hanno fatto e di fronte alle difficoltà ho cercato di vivere senza sottrarmi agli eventi».

Si dice che la diversità sia stata il punto di unione tra lei e Pier Paolo Pasolini. Com’è nata la vostra amicizia?

«Ci incontrammo a Udine per la prima volta dopo la Guerra, era forse fi ne dicembre 1945 o inizi gennaio 1946. Eravamo in una scuola, in occasione di una esposizione. Pasolini uscì dalla sala, mi si accostò e disse lentamente: “Ma tu sei Zigaina!”».

E lei?

«Gli risposi: “Penso che tu sia Pasolini”. Già allora i giornali scrivevano di noi e i nostri cognomi avevano una certa notorietà. Fu un incontro in cui i nostri occhi carpirono qualcosa di speciale».

In che senso?

«Gli occhi guardano, vedono, decidono, creano, ristrutturano il tutto, perché gli occhi colgono al di là delle parole. In quell’attimo iniziò la nostra amicizia, protrattasi per tutta la vita, in un vicendevole scambio di confessioni e collaborazioni».

Se le chiedessi un ricordo per lei importante del legame con Pasolini?

«Nel 1969, Pasolini dichiarò: “Zigaina per me è ontologico, come, credo, io lo sono per lui”. Sicuramente, prima di esprimersi in tal senso, avrà riflettuto quale significato ha nel grande dizionario filosofico quel termine: una conoscenza facile, tragica, difficile, riferita ad un essere umano che capisce al volo le cose. Ci sono cose che si dicono, altre che si tacciono. Pasolini ha saputo molto presto, forse ancora nel ventre materno, che sarebbe stato torturato, psicologicamente e non solo, da suo padre».

Di nuovo il tema della diversità…

«Pasolini ebbe una vita molto difficile, dilaniato tra i due genitori: la madre che amava teneramente ed il padre che odiava. Egli aveva scoperto molto per tempo, da bambino, di avere tutte le caratteristiche di un omosessuale e questa riteneva fosse la “diversità”. Quando, nell’incontro con me, si è reso conto che non avevo il braccio destro, Pasolini è rimasto senza fiato, perché aveva realmente capito che cos’è la “diversità”: era un’esperienza difficile, rara, anche accennando un sorriso o rivolgendo sguardi preoccupati».

Dalla vostra amicizia nacque anche un proficuo rapporto artistico.

«Il nostro è stato un legame umano ed artistico molto profondo, tant’è vero che già nel 1949 realizzai 13 disegni per la raccolta di poesie di Pasolini, dal titolo Dov’è la mia Patria. In seguito, nel 1957, lui scrisse il poemetto Quadri friulani, in occasione di una mia esposizione pittorica a Roma; e poi ci furono le collaborazioni per diversi film».

Pasolini ebbe un’infanzia difficile. Zigaina, invece, come ricorda la sua?

«Da bambino abitavo in prossimità dell’attuale sottopasso ferroviario, e poco distante c’era la villa di una specie di ambasciatore rappresentante dell’Egitto in Italia. In quella zona, tra due strade e molti giochi con i miei amici, in mezzo a loro, lentamente, ho scoperto la mia vita. Mia madre faceva la sarta e mio padre il falegname».

Tutto tranquillo, all’apparenza.

«Vedevo spesso passare un camioncino che trasportava grossi pezzi di ghiaccio che, ho saputo poi, venivano portati a Grado per mantenere fresco il pesce. I miei amici di allora si divertivano a scalfirli e a mangiare le schegge ghiacciate. Un giorno, mentre mio fratello mi stava accompagnando all’asilo, (già allora, in quella sede, incoraggiato ed esortato dal maestro Epifani, che abitava nell’attuale Piazza Indipendenza, disegnavo per tutto l’anno la storia del duce) avvistai il camioncino con i cubi di ghiaccio, e subito avvertii il desiderio di afferrare anch’io una scheggia».

Negli istanti successivi cosa successe?

«Corsi per 5/6 metri, ma inciampai in un ciottolo e, cadendo, finii con il braccio destro sotto una delle due ruote. Era luglio e per strada non c’era anima viva. Mia madre e mio padre dapprima mi portarono da un medico lungo il viale della Stazione, poi all’ospedale di Monfalcone, dove mi amputarono l’arto. Tornai a casa dopo un mese».

Come cambiò la sua vita?

«In seguito consigliarono ai miei genitori di mandarmi in collegio a Tolmino (allora italiana), posto per me misterioso, ove scoprii la meraviglia della trasparenza dell’acqua dell’Isonzo. A Tolmino ho vissuto fi no all’8 settembre 1943 in totale solitudine tutti i sabato fascisti. Il mio maestro mi aveva assegnato un posto da solo, vicino alla cattedra, perché dovevo finire i disegni che avevo iniziato sulla vita di Benito Mussolini».

Un’infanzia solitaria.

«Mi hanno sempre tenuto “nascosto”, essendo “diverso”. Ero uno sconosciuto molto noto, perché facevo paura. Così amavo la solitudine… Un diversivo era partecipare ai “ludi juveniles”, che vinsi ripetutamente: quelle competizioni mi consentirono di vedere non solo Gorizia ma anche Firenze e Roma , dove avvenivano le selezioni finali. A Tolmino, per quasi dieci anni, la mia fu una vita isolata, fatta di rari incontri e visioni, felici e strane. L’intera mia vita è stata un’esperienza strana: tutti parlavano della mia diversità ed io non sapevo se ridere o piangere».

C’è qualche ricordo piacevole?

«Uno dei pochi episodi divertenti accadde un giorno in cui entrai nella chiesa di Tolmino e scoprii che su un confessionale c’era la scritta in sloveno “O ce Nas” (Padre Nostro). Ma era ovvio che la prima interpretazione fosse, letta da un friulano, “o che naso”! E poi ricordo il mio amico della giovinezza, Detalmino Liva, poi divenuto taxista. Con lui, nella sua macchina, ho scoperto l’Europa, ho visto tutto dell’Est: la Polonia (con i campi di concentramento e ancora l’odore acre di gas e di corpi bruciati), Leningrado, Mosca, Berlino».

Ma Cervignano e il Friuli sono rimasti sempre il suo rifugio.

«Per me il sole era tutto, ma poi veniva oscurato dalla notte. La parte più importante della mia giovane vita si è dipanata nei campi deserti, quando, di notte, non c’era nemmeno il rumore degli aeroplani, disteso su un covone a guardare le stelle: lì entravo in un mondo che io definivo “tutto mio”, perché ero convinto che in cielo sopra di me non ci fosse nessuno. Ho amato moltissimo anche la laguna e il fiume Ausa, con il suo scorrere lento verso il mare. Di questo ho un ricordo molto importante».

Quale?

«Per esplicita richiesta di Pasolini, con una mia barca ho portato sul set, durante tutta la lavorazione del film Medea, Maria Callas, che era la protagonista. Percorrendo lentamente la laguna, giorno dopo giorno, Maria mi ha narrato tutto della sua vita».

Che cos’è per lei la pittura?

«È uno dei modi che un essere umano ha per esprimersi, unitamente a tante altre forme espressive».

Esiste un altro Zigaina?

«Dovrebbe soffrire molto, patire nell’anima e nel corpo».

Alla sua nipotina cosa vorrebbe augurare?

«Lasciamo che passino gli anni…».

Mi congeda rammentando un pensiero di Pasolini: «Per “essere” bisogna essere in due». Si ferma un attimo. Quindi aggiunge: «È una frasetta che vuol dire tutto e niente. Sembra uno scherzo, ma è realtà».

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