Tutta una questione di algoritmo

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Francesca Ghezzani

13 Gennaio 2021
Reading Time: 7 minutes

Il nuovo libro di Luca Bovino

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Si respira una piacevole e arricchente ventata di cultura dialogando con Luca Bovino, autore del romanzo “Tutta una questione di algoritmo” (Brè Edizioni) che racconta la storia di un viaggio di lavoro nel quale il protagonista finisce per trovarsi in una serie di situazioni paradossali da cui trae esperienze angosciose, e finisce per smarrire ogni rapporto coerente con la realtà, e con sé stesso.

Nelle nebbie del suo delirio onirico, il malcapitato eroe realizza che ogni programma razionale è ormai infranto, e non gli resta altro che contemplare le falle del proprio algoritmo esistenziale.

Luca, una domanda che ti faranno sicuramente tutti: cosa vuol dire che è tutta una questione di algoritmo?

«Il titolo è un’antifrasi, cioè un espediente retorico per dire una cosa esprimendo il suo contrario. Naturalmente, perché possa essere apprezzato occorrerebbe trasmettere insieme al testo un contenuto aggiuntivo che funga da spia del fatto che l’intenzione del mittente è, appunto, retorica. Un po’ come se dicessi, “certo che il 2020 è stato proprio un bell’anno…”; a chiunque abbia vissuto quest’anno così turbolento non potrà sfuggire il significato antifrastico del messaggio. Ecco, la cosa particolare di questo meccanismo linguistico è che può essere difficilmente codificato attraverso un algoritmo. Come aveva dimostrato Umberto Eco nei suoi studi di filosofia del linguaggio, è molto complicato, se non proprio impossibile individuare un software per insegnare a un computer le metafore. Altrettanto inconcepibile, poi, sarà decodificare un’antifrasi. E quindi ho scelto questo titolo perché mi piaceva l’idea di una frase che fosse autocontraddittoria, che celebrasse apparentemente la razionalità, per poi, concretamente, beffeggiarla. Mi sembrava congeniale al mio racconto questa sua natura anfibia: icastica ed iconoclasta allo stesso tempo verso il paradigma dei nostri tempi, che è appunto l’algoritmo».

Cito una tua frase che mi ha colpito molto leggendo un’altra intervista: “Ogni romanzo è la storia di una quiete infranta, che un protagonista dovrà ripristinare”. Il tuo protagonista in qualche modo ci riesce?

«A dir la verità la frase è presente anche nell’ultimo capitolo del mio libro, dove fingo di affermare che ogni romanzo è un sempre periplo intorno ad Itaca. Nell’ultima parte del mio libro, quella più metaletteraria, si avverte il debito con le letture di Propp, e dei suoi esegeti, sulla morfologia delle fiabe di magia Russe, i cui contenuti anticipavano di quasi trent’anni gli studi degli strutturalisti francesi. Ogni romanzo è caratterizzato da una doppia storia, la storia individuale dell’eroe, e da quella collettiva del contesto in cui si trova. Entrambe possono trovarsi inizialmente in quiete, oppure già in crisi, e possono concludersi in quiete (allora si parla di romanzo consolatorio, o circolare), oppure in crisi (e allora si può parlare di romanzo nero, o finale aperto). Il romanzo è caratterizzato, però, sempre dalla tensione del protagonista verso il tentativo di ripristinare la quiete infranta nella vicenda collettiva, e nella propria (per esempio, la vendetta per la morte di un amico, o la conquista del cuore dell’innamorata, o la realizzazione di un sogno paterno, ecc.). Nelle favole tradizionali questi elementi erano ben visualizzabili attraverso le figure archetipiche dell’eroe, e del malvagio che minaccia la città. Il protagonista sconfigge il malvagio, salva la città e ne diventa l’eroe, e magari sposa la regina e cambia il proprio status sociale. Nel romanzo moderno sono cambiati i nomi e gli interlocutori, magari il protagonista è un professore di semiologia, il cattivo è una società occulta e il regno è un’eroina che sembra l’erede di Maria Maddalena (in questo caso, avremmo la struttura del Codice Da Vinci. Ma potremmo divertirci a decrittare secondo questa griglia qualsiasi romanzo). Sono cambiati i nomi, e i personaggi, ma sono rimaste identiche le funzioni. Posso dirti un’altra cosa. Puoi sostituire alle nozioni di quiete e crisi (intesa come infrazione della quiete) due numeri, come 0 e 1; allora puoi leggere la struttura di un romanzo come uno spostamento periodico di due, o più incognite, per esempio: a (la storia individuale) o b (la storia collettiva), o magari c (più storie individuali o collettive intrecciate tra loro) rispetto alle posizioni 0 o 1, cioè di quiete o crisi. In tal modo potrai vedere come possano combinarsi queste incognite cambiando nel corso del romanzo dall’uno all’altro dei due valori assegnati. L’algoritmo di un romanzo, in fondo è tutto qui: è un calcolo fattoriale».

Quanto peso dai alle parole, scritte e verbali che siano?

«La domanda è molto complicata e compromettente. La parola è una frazione di un fenomeno molto più complesso che è la comunicazione. Albert Mehrabian ha dimostrato come solo il 7% della comunicazione sia affidata alle parole, cioè alla comunicazione verbale. Il 38% ai contenuti paraverbali (tono, timbro e ritmo della voce), mentre il 55% è affidato al linguaggio non verbale (mimica, postura, gestualità facciale). È facile capire da queste percentuali come sia facile fraintendere una comunicazione affidandosi soltanto alle parole, e come sia invece molto più efficace un messaggio affidato al timbro vocale, o alla mimica facciale, o alla combinatoria di tutti questi elementi. La parola è polisemica, e questa è la sua forza e al contempo la sua debolezza. La parola può esprimere uno stato del mondo, ma non può sostituirlo. Può creare mondi, ma non può porsi in luogo dei mondi che esistono. Questa pipa non sarà mai una pipa. Dicono che sia stato questo il motivo che abbia spinto Pasolini ad abbandonare la scrittura per dedicarsi al cinema, per uscire dalle paludi della polisemia verbale. In tal caso, però, non è riuscito a sottrarsi al rischio della polisemia iconografica, del resto ogni scelta fatta per evitare un rischio ne contempla necessariamente qualche altro, spesso più grave del rischio che si voleva inizialmente evitare. La parola è il vero protagonista del mio libro. È la cerniera che unisce il mondo interiore con quello esteriore, la cultura con la natura, la realtà e il pensiero. È l’unione di due contenuti differenti: il senso e il suono. Ma tra i due quello più importante per comunicare un messaggio è il suono, più che il senso. E quindi, per agevolare ed enfatizzare l’elemento paraverbale del mio testo mi sono affidato in grande misura all’uso di figure retoriche di suono: alessandrini ed endecasillabi nascosti, persino qualche haiku. Per avere l’illusione di poter catturare un frammento di realtà, o quantomeno di poterla trasferire al lettore. E poi perché è quasi un gioco: caccia al metro».

Se tu dovessi descrivere, quindi, il tuo stile narrativo con una figura retorica, quale useresti?

«Come figura retorica di suono mi ha sempre colpito la paronomasia, e, sia pure con la dovuta parsimonia, ho cercato di privilegiare spesso i rapporti paranomastici che si creavano con la nostra lingua, perché sono quelli che sollecitano maggiormente le associazioni di immagini e di idee nel nostro emisfero destro. Se dici calore ti viene subito in mente anche colore, se dici filologia non puoi fare a meno di pensare anche ad un filo (ed è quello che succcede, infatti, in un punto particolare del mio romanzo). Le figure di suono mi colpiscono perché sono immediate, incontrollabili e spesso inevitabili. Come si fa a dire a qualcuno di evitare di pensare agli elefanti rosa? La negazione implica necessariamente il contenuto, ed è impossibile bloccare l’evoluzione alogica di una serie di idee, la cui presenza è stimolata da altre idee. Per questo, pensando a figure retoriche di senso, invece, mi sento di essere a casa nel territorio della metonimia, cioè in quei meccanismi di associazione indiretta di più concetti, attraverso dei salti che non necessariamente seguono leggi prefissate, ma spesso usano il contenuto per il contenitore, o il genere per la specie, o qualcosa che stia a qualcos’altro in qualche modo per qualcuno. Se dico “il signor Portobello” sto pensando a Enzo Tortora (cosa che accade nel mio romanzo). Però il collegamento che c’è tra un’espressione e il suo contenuto, tra il testo e il referente, non è esplicito; lo ricostruisce il lettore attraverso il proprio bagaglio di esperienze, ma è una specie di patto segreto, di frase in codice tra spie, di smorfia occulta che consente di creare un legame speciale con il destinatario del mio testo».

La Menzione Speciale al Premio Bukowski 2020, arrivando finalista nella cinquina del I concorso internazionale Montag 2020, è un punto di arrivo già conquistato all’esordio o rappresenta per te lo sprone giusto per una seconda opera?

«C’era un divertentissimo racconto di Achille Campanile a proposito di un maestro che insegnava l’oratoria ai propri allievi, e diceva loro: ricordate, qualsiasi discorso efficace rivolto al pubblico è fatto da due soli concetti: questo ci fa sperare bene per l’avvenire; questo è soltanto un punto di partenza e non di arrivo. Nel racconto dimostrava come questa regola fosse adattabile a qualsiasi tipo di discorso fatto in qualsiasi contesto, dal matrimonio, al funerale, al premio accademico, alla lezione scolastica. Non ho mai capito bene, però, cosa ci fosse da ridere. Ad ogni modo, con questa citazione dovrei aver risposto alla domanda. Tornando ai premi letterari, certo sono state delle iniezioni di autostima, sempre molto graditi, specialmente per un esordiente. I premi letterari ti danno la garanzia di avere almeno un lettore: il giurato. E non è poco, se pensi che Manzoni stesso sosteneva che per ogni scrittore esistono soltanto venticinque lettori, e gli altri sono soltanto acquirenti. Però credo che i premi siano un po’ come la scala di Wittgenstein, ti servono per arrivare a raggiungere una consapevolezza di te, ma poi vanno gettati via».

Infine, guardandoti dalla prospettiva del lettore, quale libro sorprenderebbe i tuoi amici se lo trovassero nella tua biblioteca?

«Sto dando un’occhiata alla pila di libri amorevolmente parcheggiati sulla mia scrivania. C’è Saramago, c’è Amado, Tolstoj, Foster Wallace, Calvino, Woody Allen… ecco, forse un libro intervista di Augias sulla nascita della religione cattolica. Sì, probabilmente questo potrebbe sembrare estraneo, o eccentrico rispetto al mio Pantheon, ma ho le giuste attenuanti. Diceva Borges nella premessa al Libro del cielo e dell’inferno che trovava sempre strano il fatto che i credenti si interessassero così poco della forma che dovrebbe avere il paradiso, mentre lui ne era così follemente interessato, pur essendo ateo. Ecco, forse potrei trovare la sua stessa motivazione, non pongo limiti alla mia curiosità, e mi tengo stretto le mie letture, anche quelle più eccentriche, estemporanee ed eretiche».

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