La strada era ghiaiosa, di un colore marron chiaro e bianca di sassi. Le pozzanghere erano ghiacciate, in gennaio, e davano uno scricchiolio vetroso sotto i nostri passi anche se eravamo leggeri come piume, tutti asciutti, levrieri. Non c’era uno che avesse la “trippa”: la dieta, sufficiente, non ci mitragliava calorie.
Dopo un paio di chilometri, non lineari, da Visco si entrava “in Uaniz” e non “a Uaniz”. Non ci si accorgeva più del perché di questa bizzarria linguistica friulana. Secoli e secoli prima, sì, perché si entrava nella centa o, nel caso di Joannis, nelle cente, muraglioni, muraglie, torri e case forti erette per sbarrare la strada a gente che voleva schiacciare il prossimo, per prendergli tutto: roba, libertà, perfino la vita. Come oggi, per avere di più, esibire ricchezza a costo di lasciare gli altri nella miseria. Per fare in modo che non succeda, necessario è Dio, necessari i santi, esempi di vita che accorciano, quasi annullano, la distanza, molto grande, fra noi e Dio. Siamo fatti a “immagine e somiglianza” di Lui, come recitava il catechismo, ma sfido chi è capace di parlare a tu per tu con Dio, se non per chiedergli qualcosa, più che trattare con Lui vis a vi, come i santi.
Erano una manciata di centinaia di metri fra Visco e Joannis, a noi sembrava molto, per il tempo e per la fatica, se non altro per passare il confine, segnato da due grandi cipressi, che tagliavano, sulla sinistra, la strada che, come una biscia ci portava da una curva all’altra nella Bassa Friulana. Scuri, belli, come due gladiatori.
I corami del portafoglio si toccavano, nelle nostre tasche; anzi, non arrivavano neanche a toccarsi, per via che il “taccuino” era qualcosa degli altri; che, da mistero, poteva diventare reale solo un domani, non si sapeva quando…
Santa Agnese, popolarmente, con affetto e friulana sintesi, chiamata “Gnesa”, visibile quasi non era: non c’era tivù, quasi non si poteva immaginare per radio, merce rara; solo qualche santino…
Martire era, Lei, e per noi era una parola insanguinata. O il martire era pieno di sangue e coperto di piaghe e ferite o, per noi, era qualcosa d’altro, non un martire. Agnese era giovane, e aveva accanto un agnello. Occhi volti al cielo; palma del martirio in mano o vicina (gente “studiata” ha avuto il coraggio, la “capacità” di chiamare la palma piuma, proprio così, descritta, “Santa con piuma”).
E dopo, se non era abbastanza, ci pensava il predicatore a dare il la col “Panegirico del santo”, che sarebbe il lodare chi ha avuto il coraggio di perdere la vita per il Signore.
Allora, la festa, per noi, era un qualcosa di molto esterno, roba di fuori. La festa laica s’intende, quella di comprare cose e dare soddisfazione a palato e “canale della minestra”, con gazzose, vino, passarette o qualcosa da masticare. Forse qualcuno poteva, ma per noi era solo nel regno della fantasia. Non avevamo un soldo che fosse uno, niente di niente. Puliti. Neanche guardare le cose, per non dover tirare la gola. Sicché la nostra pietà popolare era intatta e non si corrompeva col mondo; ma non per virtù, bensì per dovere da soldo negato.
Festa, gente, tanta; banda, canto; preti vestiti a festa; gente ben vestita; Gidio sagrestano con la gabbana di gran gala; cantori; la statua della Santa come video, poi nulla.
Qualche volta, l’extra di ragazzi che si azzuffavano arrivando perfino a legnate, per via che un pochi erano di Visco, e un pochi di Joannis, e si sa che il primo comandava, un tempo, e l’altro era sottomesso e allora, per vendicare la “storia”, darsele, che dopo si stava meglio, o così si pensava.
Antichissima la figura di Santa Agnese: perfino due dipinti del IV secolo: una dorata, in un resto di piatto di vetro, a Roma, con due colombe, una per parte. Un’altra, affresco elementare che sembra un dipinto moderno di Roualt, con l’agnellino.
L’agnello, non solo pel nome Agnese, da agna, agnella; anzi, per essere più precisi, deriva dal greco agnè, che vuol dire purezza, castità; quella dell’agnello è venuta fuori per via che, otto giorni dopo morta, Agnese sarebbe comparsa ai suoi di casa, in mezzo a un coro di fanciulle, vestita d’oro, con un agnello per parte, ad annunciare che non serviva si preoccupassero per lei: era andata dritta dritta con Dio.
Patrona: già la parola racconta la sua importanza. Donna, anzi, poco più che fanciulla (martire a 12 anni, matura martyrio fuit/ non dum matura nuptiis, canta Sant’Ambrogio nell’inno Agnes Beatae Virginis), eppure patrona, una funzione che era laica, e del maschio, che proteggeva il cliente, come a lei sarebbe toccato di guardare ai suoi fedeli.
Proviamo a pensare: dopo quelli della famiglia di Gesù (Maria, “La” Santa, più che “una” Santa e San Giuseppe), San Giovanni il Battezzatore, e gli apostoli furono patroni, soprattutto Pietro e Paolo. San Lorenzo e, dopo di lui, la più nominata è Santa Agnese.
Papa Damaso (366-384) canta di lei “castitatem protexit, salutem cum immortalitate commutavit”, protesse la santità e scambiò la salvezza fisica con l’immortalità”! E questo Papa esordisce con un “fama refert”: si sente dire, raccontavano di lei.
Poco si sa della sua vita e del suo martirio. Solo si racconta dell’occasione della sua morte, perché era bella e un giovane voleva averla a tutti i costi. Ma lei si era promessa al Signore. E allora le hanno fatto di tutto: portata in un bordello, l’hanno denudata; ma i suoi capelli fitti fitti l’hanno vestita. Hanno tentato di ammazzarla col fuoco, ma le fiamme si sono spalancate per non lambirla: miracoli su miracoli, forse, anche leggende. Ma sta di fatto che nella basilica di Santa Agnese, fuori le mura a Roma, hanno trovato il suo corpo e anche quello di Santa Emerenziana (festa due giorni dopo di lei), sua sorella, uccisa perché difendeva il suo corpo. E il corpo era quello di una fanciulla, con le ossa piccole e non toccate dal fuoco; il capo non c’era, la reliquia si trova in un’altra chiesa di Piazza Navona. Dunque ci sono tanti indizi che battono, e si accordano con la sua vita, anzi, soprattutto con la sua morte: decapitata, spiccata la testa o giugulata, scannata, in poche parole.
E i miracoli della patrona si aspettavano anche quelli di Joannis. Glieli chiedevano; la supplicavano che muovesse il Signore ad aiutarli. Anche ottenevano, quelli di Joannis, basta osservare l’ex voto del 1820, un piccolo quadro, pieno di vita, custodito in sacrestia.
Sappiamo il perché abbiano dato alla chiesa il nome di Sant’Agnese? Antico il titolo? Di sicuro c’era già dall’anno 1334, nominato nel testamento del conte Bernardo di Strassoldo, che lascia qualcosa alla chiesa di Sant’Agnese in Joannis. Ma quello che emerge dai resti di là, di quella chiesa, racconta di tempi assai più antichi (scavi del m.o Augusto Geat). Gli “Joannizesi” hanno voluto così bene a quella chiesa che, verso la fine del Quattrocento, quando i Turchi l’hanno incendiata, la ricostruirono. Hanno cominciato a staccarsi quelli di Joannis pian piano, dall’inizio del Cinquecento, per via del confine sia verso Privano che verso Strassoldo (fra l’Austria e Venezia), il paese non si sviluppa, si ritira più a est, verso la “villa” (il corpo principale dell’abitato). Dov’era già un’altra centa, innalzano una chiesa col titolo dell’Immacolata, nel Seicento, vedendo che il viaggio verso Sant’Agnese era gravido di pericoli, con pioggia, freddo e neve: con un buon colpo di freddo, allora, nel deserto di cure, si rischiava di andare con Dio.
Per capire quanto ci tenessero a Joannis, a Santa Agnese, la loro Santa, hanno sovrapposto il suo titolo a quello dell’Immacolata! Subito danno l’incarico di preparare dei dipinti con la sua immagine (si trova in una pala dell’abside), al Bainville, un pittore di Palmanova di origine francese. Non è una gran cosa, forse lavoro di un allievo di bottega. Un altro a un pittore (siamo nel Settecento), di rango, il Lichtenreiter (attribuzione), dipinto di grandi dimensioni che orna il soffitto della navata. Non è impresa da poco dopo aver costruito una nuova chiesa: era un popolo che si schiaffeggiava la bocca per dare onore alla Santa.
La sua festa era sempre celebrata con solennità: nel Seicento venivano il pievano di Aiello i cappellani di Visco e di San Vito al Torre e Crauglio, il vicario di Romans, e dalla Repubblica di Venezia, i cappellani di Strassoldo e Privano. All’epoca, si cantavano i vesperi; dopo la processione, messa e predica.
Sebbene ci fosse la nuova chiesa, quella vecchia non veniva ancora trascurata, tanto che l’altare fa trasloco ai primi dell’Ottocento. Per essere precisi, la chiesa nuova si chiama di Santa Agnese dal 1772, quando si parla che è quasi vuota, perché “de novo constructa” e quella vecchia la chiamano di Santa Maria Maddalena (là, oltre che quella di Santa Lucia, c’era un’ancona dedicata a questa Santa).
E il nome Agnese aveva fortuna nel paese? Poca: una bambina nel 1621 è battezzata con questo nome; dopo, niente di niente, finché non torna a prender piede con il progredire della chiesa nuova. Anche nell’Ottocento la festa patronale ha la sua importanza: basta vedere ciò che davano a chi faceva qualcosa per quella solennità: 20 “pagnocche” e 20 boccali di vino ai 10 cantori; al pievano, 4 e 4; I e II cappellano mezza tariffa, come al sagrestano e ai due chierichetti; 1 e 1 ai 6 che portavano le croci; 2 e 2 ai camerari (amministratori della Chiesa); 1 al fante per l’ordine pubblico nella processione; 2 al cappellano di Visco e 1 al sagrestano.
Nell’Ottocento vengono battezzate otto Agnesi, tre della famiglia Vrech, quella dei sagrestani. Arriviamo al Novecento; proprio si accende il culto della Santa e lievita fino al 1925. Di quest’anno e di Santa Agnese, a suo tempo, andai a farmi raccontare dai Deluisa, osti per tradizione già dalla loro osteria “Al Gambero rosso” nel Settecento. Mi sembrava di andar a trovare dei parenti quando andavo da loro: accoglienza a cuore spalancato. L’osteria era già chiusa, ma l’impianto era sempre lo stesso. Siamo andati “dilà”, nella “stanzia” dove le donne cucivano. Gigi (ex operaio al Cantier di Monfalcone e direttore del coro di chiesa) e le donne (Antonia e Onorina) raccontavano, e di rinforzo è arrivata Lisuta, la sorella di Gigi: era la cronista del paese, con tanto di memorie scritte.
Nel 1925, in paese avevano deciso di far scolpire la statua della Santa. L’artista prescelto era di Visco: Rodolfo Del Mestri (detto Batelane). Ordina come incollare insieme tavoloni di abete, e fare la sagoma ad Augusto e Cesare Deluisa, e a Egidio Vrech; dentro hanno rinchiuso una carta con i nomi degli artisti (in friulano, artist è polivalente, per artigiano e artista). Il baldacchino, regalato dalla gente, fu opera di Cesare Vrech e dei due figli. Del Mestri ha scolpito la statua nel suo laboratorio di Visco.
Non è bella come la Madonna di Medana (ora in Slovenia) creata nel 1896 da questo artista sfortunato: forse “Dolfo” aveva perso la mano, o forse non aveva lo stesso spirito o, ancora forse, il materiale era di dozzina, non quello giusto di prima qualità. Però un fatto è certo: questa come qualche altra sua opera, ha un valore politico. Lui era socialista (la conversione a Sidney, in Australia, ancora prima del Novecento) e dopo comunista.
Ha lavorato soprattutto per chiese, e sul pomo della bagolina, il bastone da passeggio, aveva intagliato la testa di Lenin. Era una persona onesta: ha saggiato la fortezza di Lubiana, da parte austriaca (la sua patria) e l’internamento in Sicilia, catturato a Palma nova dagli Italiani mentre distribuiva giornali che parlavano contro la guerra: tutto per via che aveva fatto propaganda di qua e di là del confine, per la pace, perché non si entrasse nella Prima guerra mondiale.
Bene, questa statua grida al cielo, chiede perché ci possano essere tante guerre e tante sciagure in questa terra.
Il colore della statua, per il giorno della festa era canchero per asciugarsi, tanto che Rodolfo dovette ritoccarla mentre era già nel baldacchino in mezzo alla chiesa.
In quel giorno, festa straordinaria a Joannis e lasagne ad asciugare sulle palizzate e i bastoni delle finestre; lasagne sine fine dicentes, poi nelle pentole; i pollai hanno tremato i giorni prima della festa. Quelli di Joannis, non per niente, oltre che “Gambarei”, gamberi, sono soprannominati “Lasagnots”, lasagnari, mangia lasagne.
“Pistuns” in bollitura quei giorni, dolci che già solo la vista rende lo stomaco satollo, e poi frittate con la “martundela” (salume fatto con le interiora del suino) nelle osterie, e vino a piena canna.
Archi infrascati di verde; banda (Gigi vi suonava il clarino) aiellese di Lorenzo Tosorat e inni di don Visintin, il parroco. In quell’anno, il 12 gennaio, è stata battezzata Agnese Peressutti.
Nella cronaca della festa, sul giornale cattolico, neanche il nome dell’artista, tanta era la lotta. A Joannis hanno cominciato a chiamarla Santa Gnesa dal cuel lung , Sant’Agnese dal collo lungo, e nel 1947 l’hanno cambiata con un nuovo arrivo gardenese (parroco don Mantelli). Fermiamoci qui, ma spiegando che la Chiesa ha sempre insegnato che è Dio a salvare, tanto che sono entrate nella lingua popolare le espressioni “ogni santo aiuta” nel viaggio della vita, ma l’ultima tappa è chiamata “andare con Dio”.
Santa Agnese, una fanciulla dodicenne, insegna a grandi e piccoli come imboccare la via e proseguire senza andar fuori strada.