Quando i bambini si sbucciano le ginocchia

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redazione

17 Luglio 2014
Reading Time: 5 minutes

Fiducia ed esperienze

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Da sempre, l’estate è per i bambini occasione di giocare in gruppo, all’aria aperta. Un tempo più di oggi: minori spazi comuni a libera disposizione, maggiore disponibilità di giochi individuali, minore facilità di incontro tra pari, maggiori proposte strutturate da parte di soggetti qualificati, minore tempo delle figure genitoriali da dedicare al tempo libero dei figli, maggiori attenzioni da parte di quegli stessi adulti di riferimento sul controllo e sullo stato fisico dei minori in carico.

Questi rappresentano, a nostro avviso, alcuni dei fattori che stanno riducendo il tempo dell’aggregazione libera tra coetanei, a scapito di una difficoltà degli stessi a trascorrere del tempo di qualità assieme e a vantaggio dell’aumento del controllo e dello stato d’ansia delle figure genitoriali (facilmente identificabili con le madri, ma non completamente e in tutti gli ambiti).

Ed è proprio su questo aspetto che vogliamo concentrare la nostra attenzione, condividendo le nostre riflessioni, scaturite dall’esperienza personale e lavorativa nel corso degli anni.

Come soggetti referenti delle attività educative per minori all’interno di una cooperativa sociale, stiamo dedicando un intervallo sempre più ricco, tanto in termini di quantità che di qualità di tempo dedicato, nella progettazione di servizi rivolti ai minori che siano privi di rischi per la loro incolumità fisica. Ricordiamo un episodio in cui, a seguito della caduta di un bambino con conseguente punto di sutura, durante il gioco della bandierina, ci è stata rivolta questa frase: “Cerchiamo di limitare i giochi violenti, teniamo i bambini più tranquilli!”. Che il gioco della bandierina potesse fare parte della tipologia “giochi violenti” lo scoprimmo allora, ma oggi, a quasi cinque anni di distanza dal fatto, non ne siamo ancora convinti.

Come operatori impegnati quotidianamente con i minori nella progettazione e gestione di attività di promozione dell’agio, siamo i primi a volere che i bambini a noi affidati stiano bene e non si facciano male. Accade però, sempre più spesso, che vi sia incomprensione sui concetti “far star bene il bambino” e “non farsi male”. Sempre più spesso, si ritiene che lo star bene e il non farsi male dipendano dall’assenza di attività motoria; siamo dunque in presenza di richieste di contesti asettici, privi di fattori di rischio, privati da oggetti e situazioni solo potenzialmente dannose.

E allora ci viene richiesto di limitare il gioco della bandierina perché se un bambino cade può sbucciarsi il ginocchio, rompersi gli occhiali, scheggiarsi un dente, rovinare l’abito griffato. Tutti a puntare il dito che il gioco non era adatto. A cosa? Al bambino? Al luogo? Al momento? Ma è davvero questo il “dolore” che il bambino può provare in quella caduta? Può la stessa anche rappresentare qualcosa di diverso, rispetto alla sua appartenenza al gruppo? E se anche cadesse, sarebbe così sbagliato che provasse un dolore? Con questo, a scanso di equivoci, non intendiamo dire di abbassare la guardia sull’incolumità dei bambini durante le attività di gioco, ma è nella natura delle cose che il fatto possa accadere.

Il punto è che, per quanto un’attività sia la più strutturata possibile, dobbiamo sempre fare i conti con l’imprevisto: una mossa inaspettata del compagno, una buca nel terreno, un ostacolo improvviso, un’incapacità nella corsa sono solo alcuni degli esempi che fanno cadere “il contenitore di cristallo” a terra con le conseguenze facilmente intuibili. Come nel gioco del Monopoli, l’avanzare della nostra pedina è insidiata da probabilità e imprevisti, così nella gestione dei minori dobbiamo considerare anche le probabilità e gli imprevisti. E tra minori è molto alta la probabilità che cadano e che l’imprevisto si concretizzi.

Sempre più spesso, a nostro avviso, si dimentica ciò. Infatti, sovente, gli adulti si ergono a protettori dei loro figli: dalle liti tra coetanei agli insuccessi a scuola, alle sconfitte negli sport. Stiamo manifestando una costante tendenza ad anticipare le cadute prima che queste accadano, tanto che anche le compagnie assicurative si stanno tutelando onde evitare di dover risarcire danni per presunti incidenti. Laddove poi le cadute si verificano siamo pronti a intervenire in nome di una santa giustizia genitoriale che pone i bambini in secondo piano. Già. I bambini vengono messi in secondo piano perché non si considera che non potranno sempre avere un custode che li protegga; non si prende in considerazione che il processo di crescita avviene per prove ed errori; non ci si rende spesso conto che il problema viene semplicemente rimandato e non affrontato nelle sue radici.

E allora cosa fare? Come sempre, vi sono più opzioni. La prima, più rassicurante per le mamme ansiose, ma più difficilmente praticabile a lungo raggio, è quella di tenere i bambini sotto una campana di vetro: custodirli sempre e ovunque.

Fino a quando, prima o poi, (e lo faranno!) chiederanno di uscire. Certo possiamo ancora negare il permesso, ma dobbiamo considerare che non sempre la proibizione porta al risultato sperato. E se anche non fosse manifestata questa volontà in modo esplicito, prima o poi il controllo naturalmente cesserà e quell’adulto, fino ad allora protetto come un bambino, si ritroverà da solo ad affrontare le sue prime cadute, che, su un corpo ormai sviluppato ma impreparato, aumenteranno il loro potere dolorifico.

Dunque, che cosa induce i genitori a proteggere i loro pargoli sotto la campana? Vi sono altre variabili, oltre a quelle considerate, che riducono tale opportunità di crescita? Si tratta solo di fattori esterni, difficilmente governabili? O concorrono a tale limitazione anche aspetti soggettivi? Sono i bambini meno attenti alle regole della “vita” o è la “vita” che detta regole considerate troppo impegnative? Forse era meglio quando si stava peggio? Ci sentivamo protetti quando, con le ginocchia insanguinate e le lacrime agli occhi, venivamo sgridati per aver graffiato la bicicletta?

A nostro avviso, vi è un’altra opzione che può nascondere una forte valenza educativa. Attraverso la caduta, possiamo insegnare ai bambini il valore dell’aiuto, il senso del gruppo, la reazione alla sconfitta. Facciamo in modo che conoscano i pericoli veri dagli incidenti fortuiti, in modo che, quando un giorno, molto più vicino di quanto vogliamo credere, si ritroveranno da soli ad affrontare altre “cadute”, saranno capaci di reagire, di alzare la testa e di andare avanti. O ancora quel giorno in cui vedranno qualcun altro cadere, sapranno cosa vuol dire, conosceranno il dolore della botta, il bruciore della guarigione e la pazienza per la prognosi e potranno divenire strumento di aiuto per qualche altro, magari loro avversario nel lavoro, ma coetaneo nella sfida della vita.

E allora, quando vediamo un bambino cadere, aspettiamo un attimo prima di correre in suo aiuto. Proviamo a considerare che per il raggiungimento dell’autonomia, a volte, bisogna passare per una caduta, un’arrabbiatura, una sconfitta. Aspettando un attimo, facciamo il bene del nostro pargolo. Di genitori così, che mirano al “Bene” e al puro divertimento, abbiamo avuto il piacere di incontrarne parecchi e, ne siamo certi, ne incroceremo ancora. Rispetto a tutti gli altri, se lo vorranno, condivideremo le motivazioni alla base delle nostre proposte e gli obiettivi che ci impegniamo, giorno dopo giorno, a raggiungere.

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