Premio Terzani, annunciati i cinque finalisti

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redazione

3 Marzo 2016
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Premiazione il 7 maggio a Udine

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Martín Caparrós per La fame (Einaudi); Jonathan Crary per 24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi); Kamel Daoud per Il caso Meursault (Bompiani); Alessandro Leogrande per La frontiera  (Feltrinelli) e Lawrence Wright per La prigione della fede (Adelphi) sono i cinque finalisti del Premio letterario internazionale Tiziano Terzani 2016, riconoscimento promosso dall’associazione culturale vicino/lontano di Udine e dalla famiglia Terzani che giunge quest’anno alla sua 12esima edizione.

La giuria, riunitasi nei giorni scorsi a Firenze a casa Terzani, ha selezionato i titoli che andranno in votazione a partire da un elenco di oltre quaranta libri: «Cerchiamo ogni anno – commenta Angela Terzani, presidente della giuria – di candidare al premio opere che servano a fare luce sui retroscena umani, storici o politici delle questioni di maggiore attualità nel mondo. Questo, per restare fedeli allo spirito di Tiziano che ha sempre voluto tentare di capire, e far capire, ciò che avveniva di là dai nostri orizzonti». 

I giuratiGiulio Anselmi, Enza Campino, Toni Capuozzo, Tommaso Cerno, Andrea Filippi, Álen Loreti, Milena Gabanelli, Ettore Mo, Carla Nicolini, Paolo Pecile, Valerio Pellizzari, Peter Popham, Marino Sinibaldi – si sono ora riservati un supplemento di riflessione per valutare il titolo più adatto a ricevere il riconoscimento. Entro il mese di aprile sarà annunciato il vincitore, che sabato 7 maggio (Teatro Nuovo Giovanni da Udine, ore 21) sarà protagonista della serata-evento che costituisce l’appuntamento centrale del Festival vicino/lontano, in programma a Udine dal 5 all’8 maggio.

Ma chi sono, visti da vicino, i cinque finalisti? Martín Caparrós è un giornalista e scrittore argentino dal profilo assai eclettico. Ha diretto riviste letterarie e di cucina, viaggiato in mezzo mondo, tradotto Voltaire, Shakespeare e Quevedo. È autore di una trentina di libri per i quali ha meritato numerosi premi e riconoscimenti. Il suo ultimo, La fame (Einaudi), affronta in un articolato reportage una delle maggiori sfide del nostro tempo. L’autore ha attraversato India, Bangladesh,  Niger, Kenya, Sudan, Madagascar, Argentina, Stati Uniti e Spagna, incontrando centinaia di persone che, per diverse ragioni – guerre, siccità, indigenza, emarginazione -, sono da considerarsi denutrite. Il racconto è costruito con le loro storie: una testimonianza scomoda e appassionata, e insieme una denuncia spietata del nostro silenzio, che addita una vergogna intollerabile e cerca vie di uscita per eliminarla.

A un altro problema del nostro tempo è dedicato il breve ma densissimo saggio di Jonathan Crary, docente di Modern Art and Theory alla Columbia University. Il suo 24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi) è una riflessione che combina riferimenti filosofici, esperimenti scientifico-militari, analisi di film e opere d’arte, per dare forma a un’antropologia critica della contemporaneità. “Aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7” è il mantra del capitalismo, l’ideale perverso di una vita senza pause, attivata in qualsiasi momento del giorno o della notte, in una sorta di condizione di veglia globale, per cui pare impossibile non lavorare, mangiare, giocare, chattare o twittare lungo l’intero arco della giornata. La critica rivolta da Crary alle pretese di un capitalismo 24/7 ne illumina senza sconti i devastanti effetti sulle nostre vite. Esaltati dalla nostra ininterrotta produttività, finiamo per consumare noi stessi, il nostro mondo e la nostra capacità di immaginare un futuro comune.

Kamel Daoud è uno scrittore e giornalista algerino del Quotidien d’Oran. Dopo le sue riflessioni sulle violenze del capodanno di Colonia, comparse anche sui media italiani – che davano conto della cultura e della mentalità maschile radicate nel mondo arabo in tema di sessualità e di rapporto con la donna -, è stato accusato di islamofobia da un gruppo di intellettuali francesi e raggiunto da una fatwa degli islamisti del suo paese. In risposta, Daoud ha polemicamente annunciato il ritiro dalla professione di giornalista e l’intenzione di dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Il caso Meursault è il suo primo romanzo. Scritto in francese, vincitore del Premio Goncourt opera prima, è in corso di pubblicazione in 13 paesi. Settant’anni dopo, Daoud ha immaginato un seguito ideale de Lo Straniero di Camus, invertendone la prospettiva e attualizzandone lo scenario storico. A raccontare la sua versione della vicenda è il fratello di Moussa, l’arabo assurdamente ucciso su una spiaggia dal francese Meursault, il protagonista del romanzo di Camus. Salutato dal New Yorker come autore di “un grande romanzo che riscrive lo Straniero di Camus dal punto di vista delle vittime arabe silenziose”, Daoud firma un’opera originale, difficilmente catalogabile dentro schemi precostituiti: un aggiornamento filosofico sui grandi temi del presente in un sofisticato e suggestivo gioco letterario che si confronta a distanza con un autore di culto.

Un altro nodo cruciale dell’oggi – l’epopea delle migrazioni – è affrontato dal libro di Alessandro Leogrande.  Giornalista e scrittore, è vicedirettore del mensile Lo straniero. Collabora con numerose testate della carta stampata e con RadioTre. Il suo La frontiera (Feltrinelli) allude a una linea immaginaria eppure dolorosamente concreta: la frontiera che separa e insieme unisce il Nord e il Sud del mondo. Muovendosi là dove si consumano le migrazioni e i respingimenti, là dove si combatte per vivere o per morire, Leogrande ci porta a bordo delle navi dell’operazione Mare Nostrum. Ci porta a conoscere trafficanti e baby-scafisti insieme alle storie dei sopravvissuti, ai naufragi del Mediterraneo al largo di Lampedusa; ricostruisce la storia degli eritrei, una delle popolazioni forzate alla migrazione da una feroce dittatura, cui il colonialismo italiano non è affatto estraneo; ci racconta l’altra frontiera, quella greca, quella di Alba Dorata e di Patrasso, e poi l’altra ancora, quella dei Balcani; ci introduce in una Libia esplosa e devastata, ci fa entrare dentro i Cie italiani e i loro soprusi, nella violenza della periferia romana e in quella nascosta nelle nostre anime, dando la parola all’innominabile buco nero in cui ogni giorno sprofondano il diritto comunitario e le nostre coscienze.

Anche Lawrence Wright è giornalista, fra le firme più autorevoli del New Yorker. Con il precedente Le altissime torri (Adelphi, 2007) ha vinto il Premio Pulitzer. La prigione della fede. Scientology a Hollywood (Adelphi) è una superba inchiesta sulla discussa organizzazione fondata nel 1954 da Ron Hubbard, che proprio pochi mesi fa ha inaugurato a Milano una faraonica sede da 10mila metri quadrati. A partire dalle testimonianze di ex-adepti, Wright ci racconta le violenze, i ricatti, le estorsioni cui Scientology sottopone i suoi affiliati; ci descrive le grottesche procedure private in cui si articola la lunga iniziazione dell’adepto e le fantasmagoriche cerimonie pubbliche che celebrano i trionfi di una delle sette più vaste mai apparse sul pianeta. Ma dove Lawrence Wright scatena fino in fondo la sua straordinaria vena narrativa è nel ritratto dell’inventore di tutto questo, Ron Hubbard: un uomo impegnato fin dalla giovinezza a falsificare la sua stessa biografia, capace di vendere milioni di copie dei suoi romanzi di fantascienza, e naturalmente dei suoi manuali parareligiosi, e perfettamente a suo agio nella divisa di commodoro della flotta privata su cui Scientology, bandita per reati fiscali dal consesso delle nazioni civili, fu costretta per anni ad autosegregarsi. Ne emerge il ritratto potente di un abile manipolatore di coscienze, in grado di convincere centinaia di migliaia di seguaci che il nostro mondo è governato da un’occulta cricca di psichiatri malvagi e che l’unico modo per sconfiggerli è destinare, a lui stesso e alla sua ristretta cerchia, donazioni sempre più consistenti.

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